1. I lamenti
Dopo i due sonetti proemiali si apre la sezione intitolata Gli anni tedeschi, di cui I lamenti costituiscono la prima sottosezione: si tratta di undici componimenti, tutti riconducibili alla tematica della guerra, nonché, come vedremo, alla forma sonetto. La prima pubblicazione in volume di questa serie avviene nel 1952 con le STANZE, dove sei di questi componimenti costituivano il
secondo riquadro della raccolta, insieme alla poesia che attualmente li precede con il titolo di Strascico. Nel PASSAGGIO D’ENEA aprono il Terzo Libro, entrando a far
parte della sezione Gli anni tedeschi (1943-1947), e sono in numero di dodici, ossia gli attuali undici più Strascico (collocato qui in ultima sede). Con l’esclusione di questo sonetto, assumono l’ordine e il numero definitivo nel TERZO LIBRO, dove, con il titolo Gli anni tedeschi (i lamenti), costituiscono la seconda
sezione del volume. Nelle carte del poeta si possono leggere, inframmezzati ai
Lamenti, altri sonetti, rimasti inediti e spesso intitolati allo stesso modo: l’assetto
finale nasce quindi da una selezione, oltre che da un lavoro successivo sull’organizzazione e la numerazione dei testi. Per quanto riguarda la datazione, una prima indicazione «1944-1945» compare con il gruppo di Lamenti pubblicato nelle STANZE, mentre i dodici componimenti del PASSAGGIO D’ENEA vengono datati complessivamente «1943-1947»; a partire dal TERZO LIBRO Caproni indica invece le date di composizione di ogni singolo Lamento, con un’oscillazione tra il 1943 e il 1945 e l’eccezione di due poesie accompagnate dall’indicazione «194?»: un confronto con le carte mostra come anche in questo caso il poeta sia ritornato sui testi, modificando le date secondo quello che Luca Zuliani definisce un «preciso scopo compositivo» (cfr. L’OPERA IN VERSI, pp. 1134-1135). Caproni tende insomma a restituire al suo libro uno svolgimento cronologico più lineare e coerente di quello che documentano le carte, non esitando – ove occorra – a forzare il dato di partenza.
Ai cinque Lamenti (gli attuali I, IV, III, V e II – in quest’ordine) usciti nel 1947 sulla rivista «Poesia», si affianca un’interessante nota introduttiva dell’autore, che si sofferma principalmente sulla loro forma metrica:
Poiché questi, pur nella loro disubbidienza ai rigidi canoni metrici, sono Sonetti, voglio avvertire di non aver abolito a caso la tradizionale spaziatura fra quartine e terzine. Essa fu
nell’ordine di quelle ragioni d’equilibrio architettonico e musicale (e anche logico), per cui ciascuna quartina o terzina (come del resto ciascun verso), stando quali membri distinti nel corpo della composizione, risultavano parti concluse in un loro singolare giro. Proprio quel giro che invece in questi sonetti è unico, essendo qui ogni verso così strettamente legato al successivo (fino al quattordicesimo) da formare un solo “tempo”; un compatto blocco privo di membri, dove se pur esistono nuclei che staticamente potrebbero in un certo modo reggersi anche isolati dal contesto, non collimano né con una quartina né con una terzina (introduzione ai Lamenti in «Poesia», VII, luglio 1947; ora in L’OPERA IN VERSI, p. 1133).
Siamo dunque di fronte al cosiddetto sonetto «monoblocco» di Caproni, già incontrato con i due componimenti precedenti e per il quale restano valide le osservazioni fatte nell’introduzione ad Alba. Pur nella generale «disubbidienza» al canone metrico, tra I lamenti è il numero IX ad essere il più difficilmente riconoscibile quale sonetto: esso si presenta come un’unica strofa di sedici versi, nella quale è stata riconosciuta una sorta di anticipazione delle successive Stanze (cfr. SURDICH 1982, pp. 55-56), ma che l’autore stesso ha definito «sonetto
caudato» rivendicando l’appartenenza alla tradizione di questa forma (CONVERSAZIONI RADIOFONICHE, p. 163).
Alla sezione dei Lamenti Luigi Surdich dedica un approfondito intervento (SURDICH 1982), le cui osservazioni in merito alle caratteristiche metriche della serie si possono estendere ad ogni sonetto della raccolta. Egli innanzitutto riprende un’altra definizione dell’autore:
Un sonetto piuttosto lontano da quello tradizionale. Un sonetto monoblocco, dissonante, stridente persino: un tentativo di far musica nuova diatonicamente slargando o comprimendo i classici accordi di tonica, quarta e dominante, con ampio uso, a fine verso, della settima diminuita (Molti dottori nessun poeta nuovo, in «La Fiera letteraria», 19 gennaio 1975; ora in INTERVISTE, pp. 91-96).
Ancora una volta quindi l’attenzione è rivolta all’abolizione della suddivisione strofica, oltre che a una generale “dissonanza” che allontana questi sonetti da ogni impronta di classicità. Al centro di questa forza destabilizzante, Surdich colloca l’uso dell’enjambement, definito come la risposta all’«insufficienza dell’endecasillabo a contenere l’impulso espressivo» (p. 62). Ma, se l’inarcatura è elemento ampiamente diffuso nella lirica novecentesca, è l’utilizzo che ne fa Caproni a essere innovativo e caratterizzante: Surdich ne evidenzia principalmente la modulazione, in cui
la sottolineatura enfatica tracciata dalla parola lasciata in sospeso in punta di verso trova spesso immediata energica chiusura nella cesura bisillabica o trisillabica del verso successivo: cesura forte più volte rimarcata dall’interrogativo, dall’esclamativo, da una lineetta di sospensione (p. 62).
Oltre che per questa sua particolare curvatura, causa di continue sincopi ritmiche, l’enjambement caproniano si distingue per la presenza costante lungo tutto il componimento, anche in forma di sequenze continue. Infine Surdich registra la pratica piuttosto diffusa nei Lamenti di mettere in relazione le parole in
enjambement attraverso fenomeni fonici di vario tipo, come rime imperfette o
allitterazioni, in modo da legare «sul piano del suono ciò che la metrica separa». L’altro elemento fondamentale individuato dall’analisi di Surdich è la rima (anche sostituita da assonanza o consonanza), «luogo di massima esposizione di parole d’elevato quoziente semantico» (p. 65). A questo proposito, va notato come le rime di maggior pregnanza semantica tendano a collocarsi nelle terzine, alle quali è affidato il compito di chiudere il componimento anche riprendendo le formule di carattere esclamativo o interrogativo che spesso aprono il sonetto. Accanto all’«asse portante fisso» che le rime vanno a formare, si può individuare anche una «linea trasversale interna» (p. 70) costituita dalla struttura sintattica, che in questi sonetti non coincide mai con quella metrica e che risulta rafforzata e sostenuta da tutta una serie di fenomeni fonici disseminati sia orizzontalmente sia verticalmente nella compagine del testo. Un ultimo aspetto interessante riguarda i rapporti interni che legano ogni sonetto al successivo, conferendo ai Lamenti una struttura generale compatta: Surdich definisce la sezione un «piccolo canzoniere», sottolineando il suo sviluppo intorno alla tematica centrale della guerra e ipotizzando inoltre una derivazione del titolo dalle lamentationes dell’Antico Testamento, ugualmente incentrate sulle conseguenze devastanti di una sciagura collettiva.
Quanto all’aspetto tematico di questi Lamenti, la guerra si impone quindi come il nucleo fondante della serie. Si tratta, come specifica DEI 1992, della
guerra che Caproni si trovò costretto a vivere e a combattere in Val Trebbia, e che, se qui è protagonista esplicita dei suoi testi, rimarrà presente, con riferimenti più o meno diretti, per tutto l’arco della sua esperienza poetica. Tornando al saggio di Surdich, è questo tema a fare dei Lamenti una «poesia del “petto”, del “cuore”, del sentimento» (p. 59): le conseguenze sono il già più volte segnalato carattere esclamativo e, inoltre, un’“immediatezza” sentimentale che fa sì che i
tempi verbali di gran lunga più utilizzati in questi sonetti siano l’astorico presente e il futuro «dell’interrogazione ansiosa o del desiderio», mentre il passato compare di rado e sempre immediatamente affiancato da un confronto con il presente. Come fa notare FRABOTTA 1993, la guerra appare in questi versi come qualcosa di già accaduto: il poeta piange ciò che è rimasto, il lutto e le rovine, «muta testimonianza […] di una battaglia perduta» (p. 55).
Ad affiancare l’argomento principale, si possono infine individuare all’interno della sezione altre due tematiche che interessano lo sviluppo dei
Lamenti: il rapporto del poeta con i propri genitori, segnato dal senso di colpa e
dal timore dell’abbandono, e, di maggior rilievo, il distacco della parola dalla realtà, la sua inevitabile «incapacità di accordo con le cose» (DEI 1992, pp. 74-75)
e la sofferta consapevolezza della natura di finzione dell’arte poetica. L’ultimo di questi temi, come già visto nella rassegna bibliografica, percorre l’intera produzione di Caproni, ma si dimostra qui particolarmente forte proprio a causa dello scontro con il tempo della guerra, che accresce il senso di vanità e impotenza della parola e, d’altra parte, spinge il poeta a ricercare proprio nell’arte che riconosce fittizia un «illusorio ma necessario punto d’appoggio» (cfr. Realtà
1. I lamenti
I
Ahi i nomi per l’eterno abbandonati sui sassi. Quale voce, quale cuore è negli empiti lunghi – nei velati soprassalti dei cani? Dalle gole
deserte, sugli spalti dilavati 5
dagli anni, un soffio tronca le parole morte – sono nel sangue gli ululati miti che cercano invano un amore fra le pietre dei monti. E questo è il lutto
dei figli? E chi si salverà dal vento 10 muto sui morti – da tanto distrutto
pianto, mentre nel petto lo sgomento della vita più insorge?... Unico frutto, oh i nomi senza palpito – oh il lamento.
METRO: ABABABABCDCDCD. In una situazione di netta prevalenza delle rime perfette, le uniche assonanze si collocano ai vv. 4 e 6, peraltro in rima fra loro (cuore :
gole : parole : amore). Queste assonanze fanno risaltare, nel contesto delle quartine, la
coppia cuore : amore, la cui significativa ricorrenza nella sezione è già stata notata nel commento a Strascico. Si possono individuare una rima interna ai vv. 11-12 (tanto :
pianto) e tre rime ricche ai vv. 3-7 (velati : ululati), 12-14 (sgomento : lamento) e 11-13
(distrutto : frutto). Inoltre, l’assonanza interna velati : cani ai vv. 3-4 enfatizza dal punto di vista fonico il limite sintattico non rispettato dalla metrica.
1-2. Ahi i nomi … sui sassi: il sonetto si apre con il tipico attacco esclamativo, di cui Pasolini sottolineò la violenza in contrasto con «la linea necessariamente semplice del tono» (PASOLINI 1952, p. 367). La struttura di questo incipit ritornerà, all’interno degli
Anni tedeschi, nei Lamenti VIII e X e in 1944, mentre il carattere esclamativo
caratterizzerà l’avvio di tutti i componimenti della sezione. Viene introdotto qui uno dei temi più importanti della raccolta, svolto con più chiarezza nella conclusione del sonetto, che riprende circolarmente al verso 14 l’espressione iniziale, attraverso la ripetizione del termine «nomi» preceduto dall’interiezione. A proposito della tematica in questione Caproni afferma: «qui comincia già ad affiorare, appunto, questa mia sfiducia nella parola, questo mio… chiamiamolo “nominalismo” […]. La parola dissolve l’oggetto, crea un’altra realtà che non è quella vera, se esiste, che manca» (CONVERSAZIONI RADIOFONICHE, p. 164). Il tema, spesso affiancato a quello della guerra, viene ripreso più volte negli Anni tedeschi (cfr. ad esempio I lamenti III, vv. 2-3 e soprattutto VII, vv. 8-14 e Le biciclette, VIII, vv. 1-3), ma è presente, da qui in poi, in tutta la produzione dell’autore: cfr. ad esempio Scalo dei fiorentini, vv. 43-49 (Congedo del viaggiatore
cerimonioso), e due testi più tardi in cui si impone come tema dominante sviluppato in
modo più esplicito: Le parole (Il franco cacciatore), dove si rileva pure il paragone con la nebbia, altro topos di Caproni, e Il nome (Il Conte di Kevenhüller). L’accostamento di questa tematica a quella della guerra è inoltre evidente nei racconti, dove il dramma collettivo si dimostra causa di una totale perdita di senso dei nomi, che risultano infine vuoti, falsi e privi di utilità: «Di fronte a questi morti, a cosa credi che servano le tue parole?» (Un discorso infinito, RACCONTI, p. 128); «quei nomi finti (nemmeno i nomi
potevan più esser veri) […]» (Il Natale diceva Pablo…, RACCONTI, p. 137). Al motivo della vacuità dei nomi si appoggiano quelli, altrettanto presenti nella sezione, dell’impotenza della voce (cfr. Strascico, v. 5 e relativo commento) e della natura di finzione dell’arte poetica, incapace di descrivere la realtà, centrale nei Lamenti VII e XI e rilevabile fino all’ultimo Caproni (cfr. ad esempio Concessione, della raccolta postuma
Res amissa). Interessante infine notare l’alto numero di ricorrenze del termine «nome»
nei Lamenti (I, 1 e 14; III, 3; VI, 14; VII, 11; VIII, 11-12; IX, 16), che, secondo la lettura critica di SURDICH 1982, «sta ad indicare, in una condizione di privazione di identità, il tenace, non sempre vittorioso sforzo di mantenere tale identità contro la minaccia di cancellazione» (p. 58). I nomi sono qui «abbandonati», con la ripresa, in questo primo verso, di quel senso di perdita eterna, definitiva che caratterizzava già Strascico. I «sassi» costituiscono il primo elemento di un paesaggio tipico dei Lamenti, fatto di luoghi freddi, desolati e impervi, nonché di quello della Val Trebbia, così come emerge di frequente nei racconti di guerra: cfr. «i sassi gelidi della Trebbia» (in Sangue in Val Trebbia, RACCONTI, p. 115); «le pietre rosse […], i sassi rossi e l’aria di vetro della Valtrebbia» (in Anche la tua casa, RACCONTI, p. 122). Legato a questa precisa ambientazione, il
motivo dei sassi è quindi da annoverare tra i topoi che più o meno indirettamente rimandano alla tematica della guerra: caratterizza numerosi dei luoghi percorsi dal giovane soldato di Giorni aperti (IL LABIRINTO, pp. 13-15), si riaffaccia suggestivamente in Litania, v. 144 («Genova dell’entroterra, | sassi rossi, la guerra») e contribuisce a far emergere in L’ultimo borgo (da Il franco cacciatore) quello che DEI 1992 definisce appunto «il ricordo, in trasparenza, della guerra partigiana» (p. 199). L’immagine dei nomi che giacciono sopra i sassi, inserita in questo contesto resistenziale, potrebbe dunque richiamare quella dei corpi morti, vittime degli scontri a fuoco, lasciati distesi sul terreno di sassi o cemento, che ritorna spesso nei testi poetici e narrativi di Caproni (cfr. «i quattro compagni nostri stesi sul cemento dell’obitorio» in Sangue in Val Trebbia, RACCONTI, p. 120; e «le salme con la nuca spaccata sul sasso della strada» in Un discorso
infinito, RACCONTI, p. 127) e che l’autore stesso ha indicato quale tema centrale di questo componimento: «racconta l’effetto che mi fece vedere questi cadaveri nell’obitorio, i primi partigiani caduti in combattimento» (CONVERSAZIONI RADIOFONICHE, p. 162). 2-4.
Quale voce … dei cani: questa interrogativa, a differenza di quelle incontrate nei due
sonetti precedenti, non pare rivolta ad alcun interlocutore definito, seppure assente o irraggiungibile: accresce quindi la sensazione di smarrimento e la domanda, allo stesso modo di quelle dei versi 9-13, sembra cadere nel vuoto, perdersi nella desolazione del paesaggio e dell’anima. Il poeta vorrebbe riconoscere nell’abbaiare dei cani una «voce», un «cuore», così come in Strascico (vv. 2-5) aveva incontrato la «voce distrutta» dell’amata nel lontano suono di un pianoforte: il tentativo è dunque quello di cercare un significato nei rumori distanti e sconosciuti, di riconoscervi una «voce» familiare e in qualche modo fraterna. Anche la parola «cuore» era già presente in Strascico, dove andava a chiudere il componimento, in rima con «amore»: la stessa rima riproposta ai versi 2-8 di questo Lamento crea dunque un legame intertestuale tra i due sonetti, includendo il componimento proemiale nel disegno di «piccolo canzoniere» segnalato da SURDICH 1982. I termini «empiti» e «soprassalti» scelti per descrivere l’abbaiare dei cani ne indicano la violenza e la forza lacerante, la quale, pur attenuata dalla distanza («velati»), differenzia questo sfondo sonoro dal «gemitìo» del cane di Strascico (v. 8). Per il significato e la forte presenza dei cani nella produzione di Caproni vedi il commento a Strascico, vv. 7-9. 4-7. Dalle gole … morte: si descrivono in questi versi quei «luoghi impraticabili» tipici dei Lamenti che SURDICH 1982 (p. 57) elenca tra i
«topoi ossessivi» che caratterizzano e danno compattezza a questa sezione. Sono paesaggi ampi e desolati, che ricordano la montagna nella quale si muovono i personaggi dei racconti di guerra dell’autore (cfr. tra gli altri Il labirinto) e che in questi sonetti diventano simbolo della solitudine e dello smarrimento del poeta di fronte all’esperienza bellica. L’espressione «dilavati dagli anni» rafforza il senso di abbandono e di vastità desertica del luogo, allargando la visione dal punto di vista temporale. Il «soffio» rimanda al vento, elemento topico di questi paesaggi, già incontrato in Strascico, v. 6. Le parole, interrotte dal vento, sono «morte», prive di significato e di legame con la viva realtà, come già i «nomi abbandonati» del primo verso, che si confermeranno senza vita nel finale; i vocaboli e le espressioni riconducibili all’area semantica della morte percorrono l’intero componimento, facendo eco a questo aggettivo: «lutto» (v. 9), «morti» (v. 11), «distrutto» (v. 11), «senza palpito» (v. 14). 7-9. sono nel sangue … dei monti: l’abbaiare dei cani, ai cui violenti «empiti» dei versi precedenti si sostituiscono gli «ululati | miti», viene ora avvertito dal poeta nel proprio sangue, all’interno di se stesso, quale espressione dell’inutile ricerca di «un amore» nella distruzione della guerra, ancora una volta rappresentata da un paesaggio sassoso, di pietre. La nuova mitezza di questo suono
interiorizzato deriva dalla consapevolezza della vanità della ricerca, da una rassegnazione che oscura la rabbia. L’aggettivo «mite» è frequente in Caproni e in particolare si rivelerà centrale in All alone, dove, attributo degli anonimi protagonisti, verrà ripetuto all’inizio di ogni stanza. 9-11. E questo … distrutto pianto: si aprono ora, una di seguito all’altra, due proposizioni interrogative che, entrambe introdotte dalla congiunzione «e», si presentano ansiose e precipitose, quasi l’una sovrapposta all’altra. La prima dichiara l’enormità del lutto che investe un’intera generazione («lutto | dei figli») alla stregua di una drammatica esperienza collettiva, come anche ribadisce la domanda seguente, quasi disperata constatazione dell’inevitabilità di un evento da cui nessuno può restare incolume. Il vento è «muto», privo di significato e portatore di silenzio (come il soffio che «tronca le parole» al v. 6): con la stessa valenza si ritroverà nel secondo dei Lamenti, all’origine di un doloroso deserto. E anche il pianto, voce del dolore e unica possibile di fronte a tanta devastazione, è «distrutto». 11-14. mentre … il lamento: davanti allo spettacolo luttuoso della guerra, in contrasto con la rovina e il silenzio che questa ha creato, nel «petto» del poeta si risveglia lo «sgomento della vita», una sorta di esacerbata ribellione e di orrore, dal quale non può nascere che un «unico frutto». Il termine «petto», già comparso in
Strascico (v. 9), è ad altissima frequenza nei Lamenti (cfr. III, 14; IV, 8; V, 5; VIII, 3; IX,
5; X, 8; XI, 14) e rappresenta, per usare le parole di SURDICH 1982, la «sede della ricezione degli eventi», il luogo da cui nascono questi versi «d’impronta emotivo- patetica» ovvero «di ridotto spessore informativo, e di intensa portata espressionistica» (p. 59). Il «frutto», ciò che nasce dal dolore e dall’esperienza della morte, sono quei nomi «abbandonati | sui sassi» con cui si è aperto il sonetto, le parole che la guerra ha svuotato e allontanato dalla vita, da identificare infine con l’arte poetica e, come suggerisce il vocabolo conclusivo, con gli stessi Lamenti. Di forte impatto la doppia interiezione finale, che rafforza la carica espressionistica e l’immediatezza del testo e – come già visto – contribuisce ad una ripresa circolare dell’incipit.
II
La voce chi l’ha soffocata o amore morto – quale deserto ha imposto il vento sui picchi, dove il lupo nel dolore
d’un giorno ha eterno pascolo? Un più certo
miele, mai vidi travolto in furore 5
d’anni donati. E chi chiese perdono dell’altezza raggiunta? Ora già il cuore cade, col sasso che allenta in un suono soffocato di gemiti la mano
cui non giunge più un impeto – ora cede 10 ogni corsa nel buio. Ma al richiamo
tetro, la notte che copre una fede
senza scampo perché non rompe il vano desiderio del sole – il nostro erede?
METRO: ABABACACDEDEDE. Assonanze ai vv. 2-4 (vento : certo) e 9-11-13 (mano :
richiamo : vano), quest’ultima nata dall’abituale scambio tra nasali. Tra i sonetti della
sezione, questo è l’unico caso in cui si ha un cambiamento di rima tra la prima e la seconda quartina; il componimento presenta dunque maggiore varietà di materiale rimico, poiché nella gran parte dei casi (fa eccezione, insieme a questo, il settimo dei Lamenti) le rime sono quattro (ABCD). D’altra parte è interessante notare a questo proposito la consonanza tra C e D (-ono : -ano), che attenua la variazione fonica (cfr. SURDICH 1982, p. 64-65). Inoltre, per quanto riguarda le rime, si segnala, accanto alla consueta coppia
amore-cuore (vv. 1 e 7), quella interna ai vv. 2 e 4 (deserto : certo). Significativo il
chiasmo costruito tra i vv. 7 e 10-11, sostenuto dall’anafora dell’avverbio «ora» e dal mutamento vocalico del verbo («Ora già il cuore | cade […] ora cede | ogni corsa nel buio»), indicato da Surdich quale forma di duplicazione dell’immagine che «sconfina nell’acutezza del gioco verbale» (p. 69).
1-4. La voce … eterno pascolo: il componimento si avvia con un lungo periodo di quasi quattro versi contenente un’apostrofe al proprio «amore» e una proposizione interrogativa, entrambi elementi già incontrati nei sonetti precedenti e frequenti in questa prima parte della raccolta: le interrogative in particolare compariranno in ogni Lamento, segni distintivi di una poesia che, nata dalla guerra, si nutre di dubbi e di domande che non possono trovare risposta. Questo primo periodo dipinge uno scenario di solitudine e dolore che, come già visto nel commento al sonetto precedente, è frequente nei Lamenti quale simbolo della guerra e del suo panorama di distruzione e di lutto. La «voce» del