• Non ci sono risultati.

ANNIE ERNAUX Addio al padre

Nel documento Proust e gli altri (pagine 71-76)

Annie Ernaux non racconta la sua vita. O meglio sì, lo fa, ma nel contesto di un racconto che non è meramente autobiografico, bensì più ampio e più profondo. Racconta il suo tempo e per far- lo, sin dall’inizio, si è sempre servita del collage verbale di imma- gini. Più efficaci e più narrative di qualunque ricostruzione – ine- vitabilmente porosa e labile – della memoria.

Oggi ha 74 anni. È di sicuro la scrittrice più forte che abbiano i francesi. Il genere che pratica, cui la critica ha dato via via nomi diversi (dall’autosociobiografia alla fotobiografia passando per l’eterografia o anche, abusivamente, l’autofiction), resta essen- zialmente suo anche se altri lo popolano di titoli cercando di farlo proprio.

L’Orma pubblica ora, nell’attenta traduzione di Lorenzo Flab- bi, Il posto: quarto suo libro (in francese La place, risale al 1983, premio Renaudot l’anno successivo) che prende le mosse dal ca- davere del padre per indagare l’ambiente della cittadina normanna in cui Annie Ernaux ha vissuto da bambina e giovane donna (Yvetot), il café épicerie dei genitori, i rapporti affettivi, le difficoltà della crescita e del distacco. Un libro scritto come riparazione. Sen- za voler abbellire nulla, ma per raccontare – senza esprimere giu- dizi – la vita del padre, una vita “povera”, senza possibilità di scel- ta; e la piccola ascesa sociale nel passaggio dalla condizione ope- raia a quella del piccolo commerciante, da lui vissuta con un certo imbarazzo, condiviso dalla figlia.

Annie Ernaux compie in questo libro un lavoro sulla memoria, in particolare sulle frasi sentite tante volte da bambina, da ragazza. “Non siamo infelici, c’è gente più infelice di noi”. Oppure: “Ri- cordati che non conti niente”. Non “conti”, espressione che la feriva, perché significava “non ti si può contabilizzare”. E raccon- ta la sua crescita di ragazza non doppia, ma dilaniata: mettendosi a frequentare il milieu conosciuto alle scuole che il padre aveva vo-

72

luto facesse poiché lui non aveva potuto studiare, i suoi gusti era- no cambiati, e così il suo linguaggio. Per il padre il “lavoro della testa” non era un vero lavoro e aveva finito per vergognarsi da- vanti ai clienti di una figlia che a 17 anni ancora non si guadagna- va da vivere come aveva fatto lui. Il posto è il racconto del vecchio io dell’autrice fatto dal nuovo.

Un’ottima scelta editoriale, quella di proporlo ora, come pre- ludio alla pubblicazione del titolo maggiore, Les années, grandissi- mo successo in Francia nel 2008, salutato come il romanzo della conferma definitiva per un’autrice che comunque è un nome indi- scusso della narrativa d’Oltralpe da parecchi decenni. Les années è il romanzo di una generazione, quella cresciuta nel dopoguerra e che ha fatto della propria emancipazione sociale una scommessa su cui giocare l’intera esistenza. Passando attraverso le esperienze che per quella generazione sono state formative in virtù del loro potenziale deformante, destrutturante: due per tutte, il divorzio e l’aborto. Annie Ernaux racconta quelli di tutti coloro che ci sono passati attraverso i propri, il proprio divorzio, il proprio aborto. Mostrati però non in quanto suoi, ma come segni di un’epoca, fe- rite nel legno del tempo, che Annie Ernaux – testimone – ricrea sulla pagina.

I suoi sono romanzi, non autobiografie, perché non si limitano a copiare il reale. Fanno di più, qualcosa di diverso. Il reale lo di- cono riformulandolo attraverso la scrittura perché quest’ultima non sia più uno specchio portato lungo un cammino ma, di quel- lo specchio, diventi un attraversamento.

Un esempio. Ne L’usage de la photo racconta il proprio cancro al seno costruendo un romanzo a partire da quattordici fotografie alle quali l’autrice e il suo giovane amante, Marc Marie, appongo- no ciascuno il proprio commento. Sono fotografie che dicono momenti d’amore fisico tra lui e lei ma in assenza dei corpi. L’ablazione del seno è detta evocando fotograficamente scene di sesso e desiderio, ma non presenti. Fotografie in particolare del dopo: i vestiti a terra, i letti sfatti. I testi di Annie Ernaux e di

73

Marc Marie raccontano ciò che il lettore vede ricreando il senso di quell’assenza.

Sullo sfondo, sin dai primi titoli (il più noto da noi è senza dubbio Journal du dehors tradotto da Romana Petri come Diario del- la periferia), due motori di scrittura: la vergogna e la colpa. Per aver voluto tradire le proprie origini, studiando. E per aver pagato, con ferite reali, quel supposto tradimento. La grande bellezza che ne deriva, di Annie Ernaux e dei sui romanzi, non è salvifica né ca- tartica. È testuale, nel doppio senso del termine.

(Tuttolibri, 6 aprile 2014: Annie Ernaux, Il posto, L’Orma edito- re, p. 114, traduzione di Lorenzo Flabbi)

La sorella scomparsa

“I genitori di un figlio morto non sanno ciò che il loro dolore fa a quello vivo”. La frase se ne sta, piantata come un sasso, a metà del libro dedicato a lei, L’altra figlia, mai conosciuta eppure sem- pre presente, con la forza assoluta del suo vuoto, nell’esistenza di Annie Ernaux, la più grande scrittrice, oggi, di Francia.

Aveva dieci anni Annie, e giocava a rincorrersi con un’ami- chetta davanti alla drogheria dei genitori, a Lillebonne – cittadina all’epoca operaia, del Nord – quando involontariamente aveva sentito le parole della mamma, anche lei sul marciapiede antistan- te il negozio, che si confidava con una giovane, elegante signora. Da quelle parole era venuta a sapere che c’era stata una prima fi- glia, morta di difterite all’età di sei anni, nel 1938, due prima che lei, Annie, nascesse. “Era più buona, di questa”, aveva detto la mamma.

Ci ha poi messo sessant’anni per tirar fuori il dolore provato. In quel modo, sentendo mentre correva spensierata quelle poche parole dette in un sussurro, la bambina aveva scoperto di colpo di non essere come aveva creduto fino ad allora: intoccabile, auto- rizzata alla prepotenza, sicura… Tutto finito d’un tratto. L’altra figlia si era portata via, da morta, ogni possibile serenità. Se lei

74

esisteva, si era trovata a pensare Annie, era stato per compensare la perdita di un’altra, più buona. Ad accrescere il tormento, era sta- to il segreto. Mai i genitori parlarono con lei, neanche in seguito, della sorella. Volevano tenerla lontana, pensò, dall’immagine im- macolata della figlia morta.

L’autrice di quel capolavoro che sono Gli anni, autosociobio- grafia di una generazione – libro cerniera nella sua corposa opera, tradotto anch’esso per L’Orma da Lorenzo Flabbi – solo di re- cente ha potuto accedere al buco nero che da sempre la abita (”ho l’impressione di spostare dei veli che si moltiplicano senza sosta lungo un corridoio infinito”). Solo con Gli anni, con il lavo- rio da cui quel libro è scaturito, Annie Ernaux è infatti approdata a una sorta di autolegittimazione, quella che la rivelazione di quel lontano giorno aveva soffocato in lei. Era il 27 agosto del 1950. Una domenica di sole, lo stesso giorno in cui, in una camera d’albergo a Torino, Cesare Pavese si era tolto la vita. Scoprendo- lo, molti anni dopo – o inventandosi la coincidenza? accadde proprio quella domenica? lei stessa oggi ne dubita – si disse che tra i due fatti doveva esserci un rapporto. S’immaginò, diciamo così, che ci fosse.

Anche qui, come spesso fa, come ha fatto Barthes nel reinven- tare l’autobiografia, Annie Ernaux ricorre a una serie di immagini, che evoca senza mostrarcele. Le fotografia mancanti. Quelle sot- tratte ai nascondigli inventati dai genitori perché lei non le vedes- se. Ne parla, di queste fotografie ingiallite, ma non può farle ve- dere: “l’idea di mostrarne una mi raggela come un sacrilegio”. Quell’altra figlia, scrive Ernaux, è “l’anti-linguaggio”, “una forma vuota che è impossibile riempire di scrittura”. Se non in negativo, e tramite l’escamotage della lettera a lei fittiziamente indirizzata. A lei si rivolge infatti l’autrice, le dà del tu, le dice l’impossibilità del racconto, il quale però, così, diventa reale. Noi lettori di foto ne vediamo solo due, desolate, di un caseggiato. Com’era allora, e com’è diventato.

In Francia è da poco uscito l’ultimo libro di Annie Ernaux, Mémoire de fille. A inizio giugno, per Textes et voix, incontri in cui un

75

attore legge a tavolino larghi estratti di un libro in presenza dell’autore (in questo caso un’attrice, Dominique Blanc), Ernaux ha lungamente parlato della sua scrittura con il pubblico. La sala era stracolma, i presenti hanno ascoltato per un’ora e mezza la let- tura del testo e poi l’autrice che spiegava come per lei scrivere sia stato sin dall’inizio una sorta di dovere. Ad ogni nuovo libro, ogni volta necessario per testimoniare di qualcosa – un evento, una persona, un luogo – a spingerla avanti è la paura di morire prima di averlo potuto finire. In Mémoire de fille il racconto riguarda l’estate del ’58, la prima esperienza sessuale. Rinviato da allora, diventato possibile oggi grazie al pronome “elle”. Parlando di sé come di un’altra, ha potuto scrivere quello che allora successe, quando quella diciassettenne un po’ goffa si presentò, imprepara- ta per ragioni soggettive, ambientali e storiche, all’appuntamento con un uomo più grande di lei. Con L’altra figlia forma un dittico. E intanto il puzzle, tessera dopo tessera, pronome dopo pro- nome, si forma.

(Tuttolibri, 2 luglio 2016: Annie Ernaux, L’altra figlia, L’Orma editore, p. 88, traduzione di Lorenzo Flabbi)

76

PATRICK MODIANO

Nel documento Proust e gli altri (pagine 71-76)