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C APITOLO SECONDO

Nel documento La legge regionale fra materie e competenze (pagine 42-110)

L

E MATERIE LEGISLATIVE FRA

INTERPRETAZIONE DOTTRINALE ED EVOLUZIONE LEGISLATIVA

.

1. Il quadro evolutivo dell’autonomia regionale dopo l’entrata in vigore della Costituzione del 1948.

Per introdursi al tema delle materie legislative e prima ancora di segnalare le diverse posizioni della dottrina – vastissima – che si è occupata dell’argomento, mi preme dare conto, con una sorta di premessa pregiudiziale, dell’evoluzione storica degli elenchi di materie “vigenti” nel nostro ordinamento, in quanto credo di poter documentare l’impressione che il regionalismo italiano, a partire dalla Assemblea costituente, segua un fil rouge fatto di continuità e debolezza103 (e di piccole vittorie di Pirro) che lo hanno caratterizzato dalla genesi ad oggi.

Si è già detto della profonda discrepanza fra l’iniziale “progetto Ambrosini” ed il testo della Costituzione; si è anche accennato allo scenario di inattuazione del Titolo V che sul finire degli anni quaranta si profilava a causa della vittoria democristiana alle elezioni del ’48. E’ ben noto, ed anche questo si è detto, che per veder nascere l’ente regionale sarebbero stati necessari due lunghi decenni. Nel frattempo, però, esistevano già quattro delle cinque regioni a Statuto speciale. E tali Statuti, adottati con legge costituzionale, prevedevano una varietà di competenze legislative attribuite alla potestà legislativa regionale in una serie enumerata di materie104, che nel corso degli anni ’50 e ’60

103 Ha affermato, con lucida sintesi, la debolezza delle Regioni verso tutti gli altri livelli istituzionali A.

Morrone, Lo Stato regionale nella transizione, in S. Ceccanti, S. Vassallo (a cura di), «Come chiudere la transizione», Il Mulino, 2004, p. 247 ss., sostenendo che “le Regioni nacquero deboli. Partirono depotenziate non solo entro e verso lo Stato, ma anche nei confronti degli enti locali”.

104 Affermava P. Virga, La Regione, Giuffré, 1949, p. 42, che, fra i diversi possibili, “il metodo

dell’enumerazione regionale, che è il più semplice ed il più conforme al tipo dello Stato regionale, è stato adottato sia dalla nostra costituzione (art. 117) che dagli statuti speciali (St. Si. artt. 14 e 17, St. Sa. artt. 3 e4, St. TA. artt. 4 e 5, St. VA. artt. 2 e 3)”.

costituivano il materiale sul quale la Corte costituzionale avrebbe formato e fondato i suoi orientamenti105.

Senza entrare nel merito, che successivamente verrà trattato, il primo dato da segnalare è proprio questo: la legislazione ordinaria statale e la giurisprudenza costituzionale in materia regionale del ventennio successivo alla entrata in vigore della Costituzione – un ventennio cruciale per la storia patria, il ventennio del “boom economico”, della riforma agraria, della nazionalizzazione dell’energia elettrica – si formavano senza che le Regioni ordinarie esistessero106, se non nella Carta costituzionale, ed avendo quale unico riferimento gli Statuti speciali e l’esperienza marginale (rispetto al complesso del paese) delle Regioni speciali.

E’ in questo contesto che la Corte costituzionale, in particolare, introduce una serie di strumenti necessari per “tenere sotto controllo” le materie attribuite alla legislazione regionale speciale e renderle comunque soggette alla disciplina indicata dal legislatore statale – si pensi solo al ponderoso ruolo riservato alle norme di attuazione degli Statuti speciali107, peraltro emanate «col contagocce».

Ed effettivamente si trattava del contesto peggiore possibile, in quanto entrambi i fattori giocavano a sfavore dell’autonomia regionale: l’esistenza delle sole Regioni speciali rendeva praticamente impalpabile e poco incisivo il loro ruolo sul piano nazionale, specialmente nei confronti di un legislatore ordinario che inevitabilmente finiva per considerare nella fase di elaborazione legislativa soprattutto, se non solo, quella gran parte del “suolo patrio” in cui il problema delle Regioni ancora non si poneva108.

105 Interessante sul punto, in particolare, della soluzione del problema della concorrenza di compiti,

presto superata, della Corte costituzionale con l’Alta Corte di Giustizia per la Regione siciliana (v. sent. n. 38 del 1957), ed ancor più in generale sul tortuoso percorso di definizione del ruolo della Corte costituzionale nei suoi primi anni di attività, il recente contributo di A. Simoncini, L’avvio della Corte

costituzionale e gli strumenti per la definizione del suo ruolo: un problema storico aperto, in

«Giurisprudenza costituzionale», n. 4 del 2004, p. 3065 ss. (v. spec. p. 3083 ss.).

106 Lo ricorda G. Falcon, Il decreto 112 e il percorso istituzionale italiano, in «Le Regioni», 1998, p.

453 ss., quando afferma che “nel bene e nel male, l’Italia della ricostruzione, del «miracolo» e dello sviluppo economico – ma anche, con tutto ciò che comportava, della «guerra fredda» - era uno Stato essenzialmente accentrato, al di là delle sue grandi tradizioni municipali”.

107 Che sono stati definiti “il mezzo principale traverso cui si è pervenuti ad una vera e propria

amputazione delle competenze regionali”, così V. Crisafulli, Le Regioni davanti alla Corte costituzionale, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 1963, p. 538.

108 L. Paladin, Diritto regionale, Cedam, 1992, p. 18, afferma espressamente che “il rinvio della

D’altro lato, tale condizione rappresentava, già di per sé, un grave pregiudizio in vista della istituzione delle Regioni ordinarie, poiché, se v’era un elemento certo in tutto il Titolo V, esso era costituito dal fatto che le Regioni speciali erano tali in quanto dotate di maggiore autonomia rispetto alle altre e, quindi, un’interpretazione riduttiva delle competenze di queste poneva logicamente le premesse per una ancor più minimale lettura delle competenze delle Regioni ordinarie.

Successivamente, sul finire degli anni ’60, si realizzano le condizioni per la nascita delle Regioni ordinarie109 – a causa delle spinte del PCI e della accondiscendenza del centro-sinistra allora al potere110. Quando ciò accade, l’orizzonte del paese era completamente diverso da quello in cui aveva operato l’Assemblea costituente: in quel momento “non era più giusto stupirsi – come ha notato il Rotelli – se le «ragioni delle Regioni» non coincidevano con quelle già immaginate dai padri costituenti”111. Molti hanno sottolineato gli scarsi poteri (e gli scarsi mezzi) di cui le Regioni erano dotate dai decreti legislativi del 1972112.

Mi sembra importante segnalare, però, che le forze che più si spesero per dare alla luce le Regioni italiane erano le stesse che, sul piano politico nazionale, propugnavano la programmazione economica113, le nazionalizzazioni e tutta

Regioni già esistenti”. Anche A. D’Atena, L’autonomia legislativa delle Regioni, Bulzoni, 1974, p. 137-38, ricostruisce il tema affermando “che gli organi legislativi regionali concretamente operanti si trovavano inevitabilmente a legiferare su oggetti che seguitavano ad essere disciplinati dal Parlamento (il quale – nelle more dell’attuazione del titolo V della Costituzione – doveva esercitare anche le competenze devolute alle costituende Regioni ordinarie). La sola limitazione che esso – in principio – incontrava poteva identificarsi nel divieto di adottare delle norme di dettaglio destinate esclusivamente a valere entro gli ambiti delle Regioni (ad autonomia differenziata) allora funzionanti. Ma, al di fuori di questa ipotesi-limite, la legislazione nazionale risultava suscettibile di intervenire in qualsiasi settore della normazione, rivelandosi potenzialmente applicabile – in mancanza di espresse clausole di salvaguardia – anche a fattispecie rientranti nelle sfere di competenza delle Regioni operanti”.

109 Per una sintetica ricostruzione delle vicende che portarono alla istituzione delle Regioni ordinarie,

v. G. Amato, A. Barbera, Manuale di diritto pubblico, Il Mulino, 1997, vol. II, p. 365-66.

110 Lo ricorda L. Paladin, Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana, Il Mulino, 2004, p.

253: “nel 1969-70, tanto fra i comunisti quanto nell’ambito del centro-sinistra (sia pure con un grado molto vario di effettiva convinzione) predominava comunque la tesi che le Regioni andassero istituite subito, per non perdere un’occasione storica, troppo lungamente attesa”.

111 Così L. Paladin, La riforma regionale fra Costituzione e prassi, in «Attualità ed attuazione della

Costituzione», Laterza, 1979, p. 111.

112 Si veda, per tutti, L. Paladin, Diritto regionale, Cedam, 1992, p. 118.

113 Lo fa notare V. Crisafulli, Vicende della questione regionale, in «Le Regioni», 1982, p. 501,

quando afferma che “con lo spostamento degli equilibri politici del Paese verso sinistra, ed in parte anche (paradossalmente) proprio in connessione con i primi e più ambiziosi disegni di programmazione economica nazionale, si assiste ad una ripresa del problema regionae (…)”. Sulla

una serie di strumenti di governo dell’economia (ed ovviamente, attraverso di essa, della società) di carattere “dirigistico”, allora molto in voga, che difficilmente erano compatibili, se non sul piano teorico, su quello pratico, con un modello di reale autonomia (legislativa e politica) regionale, nel senso che si era vagheggiato in sede costituente. Questo tessuto culturale era un terreno fertile per la nascita, ad es., della funzione di indirizzo e coordinamento della attività amministrativa regionale in riferimento, fra l’altro, proprio agli obiettivi dei programmi economici nazionali114.

Se si comparava l’iniziale “progetto Ambrosini” col regionalismo attuato nei primi anni ’70 ci si accorgeva che indubbiamente l’elefante aveva partorito il topolino115, oppure, per rimanere sul piano più strettamente giuridico, che l’autonomia regionale, per nulla diversa concettualmente da quella locale, poteva declinarsi, in riferimento alla terminologia tradizionale, prevalentemente in termini di autarchia. Sono di quegli anni le sentenze decisive, che avrebbero caratterizzato almeno fino al 2001 la giurisprudenza della Corte costituzionale in materia regionale (per citare due profili determinanti: ruolo dell’interesse nazionale e funzione di indirizzo e coordinamento). Va anche sottolineato che a partire dalla istituzione delle Regioni ordinarie si cristallizza il principio per cui le Regioni hanno competenza legislativa in relazione alle funzioni amministrative loro delegate

parabola e sul fallimento di questa impostazione si rinvia a L. Paladin, Per una storia costituzionale

dell’Italia repubblicana, Il Mulino, 2004, p. 203 ss. e 208 ss.

114 Sul tema della programmazione economica, tradotta in termini giuridicamente apprezzabili, si

radicavano a cavallo degli anni sessanta e settanta una serie innumerevole di studi, che cercavano di collocare nel sistema delle fonti quelle che venivano chiamate leggi di programmazione o di piano e che, in concreto, avrebbero dovuto contenere le linee direttrici della programmazione economica. La questione aveva un immediato risvolto sull’autonomia legislativa e amministrativa della Regione, poiché, ovviamente, tali fonti programmatorie avrebbero costituito un limite ulteriore, e si può immaginare abbastanza soffocante, per le Regioni. Sul punto si rinvia alla sintesi efficace e puntuale delle diverse posizioni contenuta in R. Tosi, «Principi fondamentali» e leggi statali nelle materie di

competenza regionale, Cedam, 1987, p. 95-105. Per un approfondimento si veda A. Barbera, Leggi di piano e sistema delle fonti, Giuffré, 1968, il quale, riprendendo un intuizione del Mortati (come

ricordato da L. Paladin, Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana, Il Mulino, 2004, p. 208), sosteneva non solo la prevalenza delle leggi di piano rispetto alla legge regionale, ma anche rispetto alle altre leggi di carattere economico (vedi la distinzione operata a p. 58) del Parlamento, in quanto la violazione della legge di piano da parte di altre leggi in materia economica avrebbe integrato gli estremi del vizio di eccesso di potere legislativo (p. 57).

115 Con una espressione sintetica ha fotografato questa dinamica R. Bin, Le potestà legislative

regionali dalla Bassanini ad oggi, in «Le Regioni», n. 4 del 2001, p. 614, affermando che “il disegno

dal legislatore statale nelle materie previste dall’art. 117, Cost.116, principio che finisce – come era accaduto per le Regioni speciali – per far dipendere principalmente dal legislatore statale, e non dalla Costituzione stessa, l’ampiezza, la quantità e la qualità delle materie di legislazione regionale. Tentando di uscire dal vicolo cieco in cui ci si era accorti che le Regioni ordinarie erano state infilate, si ricorrerà sul finire degli anni ’70 ad un nuovo, e più incisivo, decentramento delle funzioni statali. Dopo una iniziale inversione di rotta, il trinomio governo - legislatore statale - Corte costituzionale dava vita, a partire dalla metà degli anni ‘80, alla fase di maggior compressione delle Regioni della storia repubblicana, che si concludeva, almeno parzialmente, con le cd. “riforme Bassanini” e, quindi, con il nuovo Titolo V della Costituzione. Ma neanche la riforma costituzionale, come vedremo, rendeva alle Regioni quanto queste si aspettavano.

Sulla base di quanto sommariamente espresso, dunque, mi sembra corretto sostenere che ciascun passaggio chiave di attuazione del regionalismo è connotato dalla debolezza dell’ente, dalla difficoltà ad emergere come “ente di governo”117 e dalla continua necessità di iniezioni (statali) di autonomia, che puntualmente cedono – in quanto rimesse, per definizione, allo Stato – di fronte a tutte le singole emergenze (finanziarie, istituzionali) o semplici contingenze (politiche e di politica economica) che, sul momento, sembrano suggerire la necessità di discipline unitarie o di dettaglio fissate esclusivamente con legge statale. Aggiungerei, in tal senso, che si può scorgere una certa continuità fra la parabola (discendente) dell’autonomia regionale all’interno della Assemblea costituente ed i passaggi che, in modo estremamente rapido, si sono descritti: una continuità nell’insuccesso del modello autonomista118 attraverso i «corsi e ricorsi storici»119 dei decentramenti amministrativi.

116 La stessa conclusione era in realtà già stata fatta propria per le Regioni a Statuto speciale. La Corte

ha costantemente sostenuto che il principio di legalità esige che l’adozione delle norme di attuazione preceda l’esercizio di funzioni amministrative da parte delle Regioni, non essendo ammissibile né l’esercizio né, si noti, la disciplina delle stesse, a prescindere dalla intermediazione della legge statale di attuazione e conferimento di funzioni amministrative. Cfr., per quanto concerne le Regioni speciali, le sentt. n. 9 del 1957 e 76 del 1963.

117 L’espressione è di A. Barbera, La regione come ente di governo, in «Politica del diritto», 1973. 118 Si veda, in questo senso E. Cheli, La riforma mancata, Bologna, Il mulino, 2000, 91 ss.

Significativo il titolo del par. 4, cap VIII: “L’insuccesso del modello autonomista”.

119 Il riferimento, come è chiaro, riguarda Giambattista Vico e, nello specifico, la sua opera del 1744

Principj di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, recentemente ristampata, a cura

Se questa è la descrizione sommaria delle pre-condizioni in cui gli snodi dell’attuazione del regionalismo italiano si sono verificati, è ora necessario indicare, con speciale riguardo al tema della potestà legislativa regionale, quale era, dopo l’entrata in vigore della Costituzione e l’adozione degli Statuti speciali120, il quadro normativo del regionalismo italiano.

Con le L.C. n. 2, 3, 4, 5 del 1948 venivano approvati gli Statuti speciali rispettivamente delle Regioni Sicilia121, Sardegna, Valle d’Aosta e Trentino- Alto Adige. Solo successivamente, a causa delle note vicende conseguenti ai dolorosi strascichi della seconda guerra mondiale122, veniva istituita la Regione Friuli-Venezia Giulia con la L.C. n. 1 del 1963. Quali le competenze legislative di tali enti e quali i limiti cui andavano statutariamente soggette123? Volendo fornire, come si era premesso, un quadro di sintesi, si può dire che gli Statuti speciali individuavano (ed individuano), con alcune eccezioni124, tre tipologie di competenze legislative: primaria o piena, concorrente o ripartita ed attuativa-integrativa.

Sotto il profilo dei limiti, le potestà legislative delle Regioni differenziate erano soggette alla armonia con la Costituzione, al rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali e delle altre Regioni125, limiti simili, se non identici, a quelli

crescita (di “civilizzazione”), laddove, invece, il “ricorso” rappresenta una caduta rispetto alla precedente espansione (un “inselvatichirsi”).

120 Per quanto concerne la nascita (o meglio gli atti e le vicende che costituiscono la premessa alla

nascita) delle Regioni a Statuto speciale, si veda L. Paladin, Diritto regionale, Cedam, 1992, p. 7-9.

121 In realtà, per quanto riguarda la Regione Sicilia, la L.C. n. 2 del 1948 si limitava a riportarsi al

Regio decreto legislativo n. 455 del 1946, che, nell’immediato dopoguerra, per evitare ipotesi di secessione, che sembravano avere la concreta possibilità di materializzarsi, venne in tutta fretta adottato concedendo la più ampia autonomia; sul punto v. la accorta ricostruzione di G. Tarli Barbieri,

Il regionalismo prima della Costituzione: la sofferta genesi dello Statuto siciliano, in N. Antonetti, U.

De Siervo (a cura di), Ambrosini e Sturzo: la nascita delle Regioni, Il Mulino, 1998.

122 V. sul tema, per tutti, la sintetica ricostruzione di L. Paladin, Diritto regionale, cit., p. 20-22. 123 Sul tema della classificazione delle potestà legislative si veda, per una analisi completa, A.

D’Atena, L’autonomia legislativa delle Regioni, Bulzoni, 1974, p. 18 ss.

124 In particolare quella della Valle d’Aosta cui sono conferite unicamente la legislazione primaria e

quella attuativa o integrativa (cfr. artt. 2 e 3 St. V.A.) e quella della Regione siciliana che conserva una potestà legislativa definita esclusiva ed una ulteriore potestà definita complementare-integrativa (cfr. artt. 14 e 17 dello St. Si.).

125 Cfr. St. Sa. artt. 3 e4, St. TA. artt. 4 e 5, St. VA. artt. 2 e 3, St. FVG. artt. 4 e 5. Faceva eccezione lo

St. Si. artt. 14 e 17, che oltre a prevedere in modo tutto particolare il imite delle riforme economico- sociali, non conteneva alcun riferimento ai limiti indicati nel testo (la ragione era di origine, come si è detto, storica, in quanto lo Statuto siciliano era stato concesso, ben prima che l’Assemblea costituente elaborasse il progetto regionale, con il Regio decreto legislativo n. 455 del 1946 e, quindi, la legge costituzionale n. 2 del 1948 si limitava a riportarsi a quel testo).

che sarebbero divenuti propri anche delle Regioni ordinarie, salvo il limite specifico, presente negli Statuti speciali, consistente nel rispetto delle “norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica”126.

Più semplice il quadro per le Regioni ordinarie (almeno fino alla riforma del Titolo V), cui in parte si è già accennato. Qui si davano due tipi di potestà legislativa, quella concorrente o ripartita, vincolata, sulla carta, al rispetto dei principi fondamentali stabiliti con legge statale e degli interessi nazionali e delle altre Regioni, e quella attuativa, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 117 Cost., per cui “le leggi della Repubblica possono demandare alla Regione il potere di emanare norme per la loro attuazione”.

2. Una questione preliminare: il nesso fra autonomia politica (o di indirizzo politico) e autonomia legislativa e le sue conseguenze.

Come si è cercato di dimostrare, sia sul piano normativo che su quello delle contingenze politiche, le Regioni, per essere “l’innovazione più profonda introdotta dalla Costituzione”127, uscivano debolissime dalla Assemblea costituente. Ne usciva ridimensionato, soprattutto, l’intrinseco carattere di autonomia che era coessenziale alla configurazione di un Stato effettivamente regionale128, almeno secondo l’impostazione del suo ideatore129.

126 Ancora ad eccezione dello Statuto siciliano in cui in luogo di questo limite, si prevede che la

legislazione esclusiva deve svolgersi “senza pregiudizio delle riforme agrarie ed industriali”.

127 Come ebbe a dire l’on. Ruini (MISTO) nella sua relazione al progetto di Costituzione licenziato

dalla Commissione dei settantacinque che presiedeva. Cfr. A.C., Relazione del Presidente della

Commissione per la Costituzione, presentata alla Presidenza dell’Assemblea costituente il 6 febbraio

1947.

128 Di recente, tende a non sopravvalutare il ruolo della maggiore o minore autonomia delle entità

decentrate ai fini della distinzione fra Stato federale e Stato regionale, G. De Vergottini, Stato federale

e Stato regionale: i modelli di decentramento, in V. Piergigli (a cura di), Federalismo e devolution,

Giuffré, 2005, p. 5 ss. L’A. afferma che “una distinzione del genere può essere utile per avvicinarsi ai modelli del decentramento, ma non può essere assunta come soluzione definitiva. Così, ad esempio, l’autonomia della Catalogna o del Paese Basco in Spagna, che è uno Stato abitualmente definito regionale, o l’autonomia della Provincia di Bolzano, riferita anch’essa ad uno Stato definito regionale, non sono paragonabili alla (minore) autonomia del Foralberg o del Tirolo, che sono stati membri di uno Stato federale” (p. 10). Nello stesso senso, v. P. Bilancia, Stato unitario accentrato, decentrato,

federale: dalle diverse origini storiche alla confluenza dei modelli, in «Scritti in memoria di Livio

Paladin», p. 271 ss, (spec. p. 285-86).

129 In effetti, se si ha riguardo alla elaborazione dottrinale precedente rispetto a quella dell’Ambrosini

(cfr. G. Ambrosini, Un tipo intermedio di Stato fra l’unitario ed il federale, caratterizzato dalla

autonomia regionale, in «Rivista di diritto pubblico», I, 1933), ed in particolare a quella del Santi

accorge che il concetto di «autonomia» non aveva una sua caratterizzazione specifica, ma spesso veniva considerato come un predicato della «autarchia». Quest’ultimo, illustre, A., infatti, esponendo la sua teoria del concetto di «istituzione» e, in particolare, di «istituzione complessa», forniva l’esempio della istituzione statale: “lo Stato, che di per sé è una istituzione, è compreso in quella istituzione più ampia, che è la comunità internazionale, e in esso poi si distinguono altre istituzioni. Tali sono gli enti pubblici subordinati allo Stato, i comuni le province, i vari suoi organi intesi come uffici (…). L’autonomia di ogni istituzione non deve essere assoluta, ma può essere soltanto relativa, la sua concezione risulta solo da determinati punti di vista, che possono variare” (p. 32). In un altro passaggio, distinguendo i tipi di rilevanza che si possono instaurare fra ordinamenti, specificamente

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