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in app p 356) emanata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali in cu

del 14 marzo 2005 sulla competitività (n 13 in app p.333) interviene, modificando

22 in app p 356) emanata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali in cu

sono fornite le prime indicazioni operative sulla disciplina del nuovo contratto di apprendistato. La Circolare, in particolare, si sofferma ad analizzare due dei profili di maggiore rilievo previsti dal recente decreto legislativo: il regime transitorio e quello sanzionatorio, fornendo le necessarie indicazioni al personale ispettivo ai fini di una corretta applicazione delle disposizioni in questione.

All’attuale stato dell’arte, le ultime disposizioni che conviene menzionare per completare l’iter legislativo sono la Legge n. 92 del 28 giugno 2012 (n. 23 in app. p.

362) e la Circolare n. 18 del 18 luglio 2012 (n. 24 in app. p. 365).

Con la Legge n. 92 del 28 giugno 2012, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 153 del 3 luglio 2012, la riforma del mercato del lavoro è legge. La nuova norma, che inizia il suo percorso il 23 marzo 2012 al momento della presentazione in Parlamento del Ddl "Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita", è stata approvata definitivamente dal Parlamento il 27 giugno 2012 ed è entrata in vigore il 18 luglio 2012. La riforma ha l’obiettivo di creare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, atto ad aumentare l’occupazione, in particolare di giovani e donne, di ridurre i tempi della transizione tra scuola e lavoro e tra disoccupazione e occupazione, di contribuire alla crescita della produttività e stimolare lo sviluppo e la competitività delle imprese, oltre che di creare un sistema di tutele più universalistico. La legge, arricchita dal contributo del Parlamento, tocca molteplici aspetti del mercato del lavoro, tra cui

 una distribuzione più equa delle tutele dell’impiego, attraverso il contenimento dei margini di flessibilità progressivamente introdotti negli ultimi vent’anni e l’adeguamento all’attuale contesto economico della disciplina del licenziamento individuale;

 un più efficiente, coerente ed equo assetto degli ammortizzatori sociali e delle relative politiche attive; l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili, attraverso la conferma del contratto di lavoro a tempo indeterminato come

contratto prevalente e meccanismi di valorizzazione e premialità per la stabilizzazione dei contratti di apprendistato e a termine.

La riforma, infatti, introduce due ulteriori principi:

 la durata minima del contratto che non può essere inferiore a 6 mesi, salvo quanto eventualmente previsto dai CCNL per le attività stagionali;

 l’assicurazione sociale per l’impiego in relazione alla quale, con effetto sui periodi contributivi maturati a decorrere dal 1º gennaio 2013, è dovuta dai datori di lavoro per gli apprendisti una contribuzione pari all’1,31 per cento della retribuzione imponibile ai fini previdenziali.

Infine, con la Circolare n. 18 del 18 luglio 2012 il Ministero del lavoro dirama le prime indicazioni interpretative sulle novità inserite nella L. 28 giugno 2012 n. 92, recante riforma del lavoro, e, in particolare, sulle modifiche in tema di alcune tipologie contrattuali tra cui contratto a termine, lavoro accessorio e il contratto di apprendistato. In definitiva, il Testo unico si pone in continuità con la Legge n. 276 del 2003 e, senza stravolgimenti di fondo, tenta la via della risoluzione delle incertezze giuridiche – e delle relative controversie - che la Legge del 2003 portava con sé, tentando, nel contempo, di realizzare una più fattiva collaborazione tra il sistema formativo e le imprese sulla tematica del contenuto formativo dell’apprendistato.

La storia legislativa del moderno apprendistato, dunque, inizia ad avere una sua consistenza, segnata com’è da molte modificazioni che sono intervenute a partire dall’articolo 2 della Legge n. 25 del 19 gennaio 1955, passando per la Legge n. 196 del 24 giugno 1997 che ha eletto l’apprendistato a strumento per favorire l’occupazione giovanile, fino al Decreto legislativo n. 276 del 10 settembre 2003 con il quale è diventato il principale canale di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro secondo percorsi di qualità necessari per lo sviluppo delle competenze del lavoratore e per la produttività del lavoro e fino al recentissimo Testo Unico, il Decreto legislativo n. 167 del 14 settembre del 2011, che si pone l’obiettivo di ricondurre a unità e coerenza interna l’intera materia.

Ma, abbiamo detto, è il Decreto legislativo n. 276 del 2003, la cosiddetta Legge Biagi, a rappresentare il punto di svolta per molti motivi e specialmente per aver riconosciuto la funzione educativa e culturale del lavoro, pur nell’attenzione che ha dedicato comun- que all’istruzione. Infatti, la forma basilare di apprendistato (cosiddetto di tipo A),

espressamente finalizzata al conseguimento di una qualifica professionale, pur rappre- sentando un percorso alternativo alla formazione scolastica, tale da consentire l’acquisizione di un titolo di studio attraverso l’assolvimento dell’obbligo formativo con lo strumento dell’alternanza scuola-lavoro, ha posto in essere l’aspetto interessante del collegamento tra obbligo formativo del minore e attività lavorativa.

Nelle intenzioni del legislatore, cioè, era chiara la volontà di garantire la conclusione del corso di studio obbligatorio attraverso il sistema dell’alternanza e la convinzione che l’apprendistato qualificante dovesse rappresentare l’unico contratto di lavoro stipulabile per i minori non in possesso di una qualifica professionale nell’obbligo comunque del minorenne a rispettare il «diritto-dovere» scolastico.

L’apprendistato a 15 anni, sottolinea Giuseppe Bertagna - anche per definire i termini dell’infinita querelle che si è sviluppata in questi anni, della necessità o meno dell’innalzamento dell’obbligo scolastico ai 16 anni – andava letto in maniera non

“svincolata dalla logica riformatrice del 2003, cioè dallo sforzo di dotare il paese di un sistema educativo di istruzione e di formazione modulare, flessibile, plurale, con percorsi graduali e continui (primari, secondari e terziari) adeguati alle esigenze delle nuove generazioni e della domanda di qualità espressa dall’economia e dalla società attuali”243

.

Per meglio chiarire la Weltanschauung sottesa, sempre Bertagna aggiunge che la norma sull’apprendistato a partire dai 15 anni risultava coerentemente comprensibile sul piano delle politiche dell’istruzione e della formazione a patto di considerarla

“all’interno di due significativi scenari di contesto”244

.

I due scenari sono:

il primo di tipo ordinamentale che faceva riferimento alla

“messa a regime del sistema di Istruzione e Formazione professionale (IeFP) delle regioni di cui all’articolo 117 della Costituzione, alla legge delega n. 53/2003 e al capo III del relativo decreto legislativo n. 226/2005 di attuazione”245

243

G. Bertagna, Apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale. Impianto e significato in Le

nuove leggi civili. Il testo unico dell’apprendistato e le nuove regole sui tirocini. Commentario al decreto legislativo 14 settembre 2011, n. 167, e all’articolo 11 del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modifiche nella legge 14 settembre 2011, n. 148, M. Tiraboschi (a cura di), Giuffrè Editore,

Milano, pp. 311. www.giuffre.it.

244

Ibidem.

mentre il secondo scenario

“riguardava le ricadute formative implicate da una aggiornata rilettura del comma 2 dell’articolo 35 della nostra Costituzione. Com’è noto, secondo il comma citato, la Repubblica…«cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori»”246

.

Sottolineare che questo tipo di apprendistato si poteva comprendere se lo si incardinava da un lato con il più ampio Sistema di Istruzione e Formazione Professionale e dall’altro con il diritto-dovere costituzionale alla formazione - e non una formazione una volta per tutte ma invece una formazione che potesse accompagnare il lavoratore nell’intero arco della sua vita lavorativa, per qualificarlo e poi riqualificarlo – significa evidenziare i molti intrecci della normativa: quello tra studio e lavoro, quello tra formazione iniziale e formazione continua, quello tra formazione del lavoratore e formazione della stessa azienda formatrice.

In definitiva, un dinamismo metodologico, formativo, progettuale e di prospettiva che sembra raccolto dal Testo unico247 che riconferma la possibilità dell’inizio dell’apprendistato a 15 anni e lo fa durare fino ai 18 anni248

come apprendistato per la qualifica e il diploma e

“riconosce che il paradigma formativo contenuto nella legge n. 53/2003, il quale mirava a distinguere, ma mai a separare, i processi di apprendimento della scuola da quelli di lavoro, la cultura dalla professione, il “maestro” dal “mastro” e così via, deve tornare ad essere lo sfondo organizzatore dell’intero sistema educativo di istruzione e di formazione, sia esso iniziale sia continuo, lungo tutto l’arco della vita”249

.

La seconda tipologia di apprendistato250 (il cosiddetto tipo B), al contrario della prece-

dente, non era stata pensata come funzionale all’acquisizione di un titolo di studio o di una qualifica professionale nell’ambito del sistema istruzione, ma aveva lo scopo di far conseguire al lavoratore una qualificazione mediante la formazione sul lavoro e

246

G.. Bertagna, Apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, cit. p. 312. 247

Nel Testo unico l’apprendistato di primo livello diventa “Apprendistato per la qualifica e per il

diploma professionale” ed è funzionale all’ottenimento della qualifica e del diploma professionale, anche all’assolvimento dell’obbligo di istruzione destinato ai giovani di età compresa tra i 15 e 25 anni.

248

In realtà, come normativa, il limite di età per accedere a questa forma di apprendistato è di 25 anni, ma

essendo la durata di 3 anni – elevata a 4 nel caso di diploma regionale quadriennale – se si “entra” in apprendistato a 15 anni, lo stesso viene ad avere il limite dei 18 anni.

249

G.. Bertagna, Apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, cit. p. 313. 250

Nel Testo unico l’apprendistato di secondo livello diventa “Apprendistato professionalizzante o

contratto di mestiere”, destinato ai giovani di età compresa tra 18 e 29 anni per il conseguimento di una qualifica professionale mediante assunzione in tutti i settori di attività, pubblici e privati.

l’acquisizione di competenze di base, di tipo trasversale ed anche tecnico-professionali: una sorta di prosecuzione delle precedenti tipologie contrattuali a contenuto formativo che, sappiamo, nel corso di questi anni è stata la tipologia più utilizzata.

La formazione, - in questo caso - era stata organizzata in un monte ore minimo di for- mazione formale, ossia di una formazione effettuata attraverso strutture accreditate o all’interno dell’impresa, secondo percorsi strutturati di formazione on the job, pari a 120 ore all’anno, finalizzate all’acquisizione delle competenze di base e tecnico- professionali. In particolare, la formazione esterna prevedeva una parte di insegnamenti trasversali (conoscenze relazionali, nozioni di organizzazione, di gestione e di economia aziendale, normativa sul rapporto di lavoro e sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavo- ro, ecc.) e una di insegnamenti professionalizzanti, finalizzati a far acquisire le compe- tenze di tipo tecnico scientifico e operativo in relazione alle diverse figure professionali. In realtà, in questi anni non è stato semplice sciogliere il nodo della modalità di eroga- zione della formazione e dei termini della sua qualità, e se essa dovesse essere gestita dalle Regioni e dai suoi enti formatori o se, invece, spettasse all’azienda la responsabili- tà formativa, interna o esterna che fosse.

Da qui, conseguentemente, il problema della responsabilità certificativa degli stessi esiti formativi.

Questione delicata e controversa, dunque, risolta dal Testo unico nel senso di rendere “il ruolo della contrattazione collettiva nazionale di categoria […] assoluta- mente preponderante nella regolamentazione dell’apprendistato professiona- lizzante o di mestiere, rispetto al quale viene assegnato alle Regioni unica- mente il compito di identificare e qualificare il monte ore di formazione pubblica, interna o esterna all’azienda, volto alla formazione di base e tra- sversale, ridotto a un massimo di 120 ore complessive nell’arco di un trien- nio. Saranno i contratti collettivi a stabilire, in ragione dell’età dell’apprendista e del tipo di qualificazione contrattuale da conseguire, non solo la durata del contratto entro un tetto massimo di 3 anni, ma anche la du- rata (e la relativa modalità di erogazione) della formazione aziendale per l’acquisizione delle competenze tecnico-professionali e specialistiche in funzione dei profili professionali stabiliti nei sistemi di classificazione e in- quadramento del personale contenuti nei contratti collettivi nazionali di ca- tegoria”251

.

251

E. Carminati, S. Facello, L. Rustico, Dal “vecchio” al “nuovo” apprendistato in Italia, in Formazione

Orientamento Professionale, Apprendistato, il nuovo contratto per l’occupazione dei giovani, anno 11,

La terza forma di apprendistato252 (cosiddetto di tipo C) è stata certamente la novità più rilevante nel panorama giuslavoristico italiano.

L’art. 50 del Decreto legislativo n. 276 del 2003, difatti, aveva introdotto un contratto che consentiva, in qualsiasi settore di attività, di avviare al lavoro un apprendista per il conseguimento di un titolo di studio di livello secondario, universitario o anche dell’alta formazione, nonché per la specializzazione tecnica superiore.

La disciplina di tale tipologia era stata pensata come altamente flessibile per permettere la predisposizione di modelli personalizzati, integrabili fra loro attraverso una sapiente sintesi di formazione pratica/addestramento on the job e di formazione classica/formale. Questo tipo di apprendistato era stato pensato per permettere, al pari dell’apprendistato di primo livello,

“di acquisire un titolo di studio in ragione del percorso formativo svolto an- che in assetto lavorativo. A differenza dell’apprendistato di primo livello, però, tale titolo è un diploma di scuola secondaria o universitario, come lau- rea, master e, dal 2008, anche dottorato di ricerca”253.

Nel Testo unico, le possibilità operative del terzo tipo di apprendistato sono non solo confermate, ma ampliate al praticantato per l’accesso alle professioni ordinistiche e alla selezione di giovani ricercatori.

Complessivamente, quindi, crediamo di poter affermare con certezza, a proposito della Legge n. 276 del 2003 sull’apprendistato, che l’intento del legislatore, che si ritroverà anche nel Testo unico, sia stato quello da un lato di riorganizzare il mercato del lavoro per nuovi sbocchi occupazionali e dall’altro di svolgere una funzione complementare e/o sussidiaria all’istruzione, confermando, in questo, la vocazione, aggiornata all’innegabile miglioramento socio-culturale dei nostri tempi attuali, che

“negli anni del dopoguerra l’insegnamento complementare per gli apprendi- sti [ha avuto come] strumento per l’acquisizione di quelle competenze alfa- betiche e numeriche che oggi diremmo necessarie all’esercizio di una citta- dinanza attiva per adolescenti che entravano precocemente nel mercato del lavoro”254.

252

Nel Testo unico l’apprendistato di terzo livello diventa “Apprendistato di alta formazione e di ricerca, destinato ai giovani che dai 18 ai 29 anni intendono acquisire un diploma di istruzione secondaria superiore, titoli di studio universitari e dell’alta formazione, nonché per il praticantato per l’accesso alle professioni ordinistiche o per esperienze professionali.

253

E. Carminati, S. Facello, L. Rustico, Dal “vecchio” al “nuovo” apprendistato in Italia, cit. p. 30.

254

S. D’Agostino, Le tante trasformazioni dell’apprendistato: nuove tutele, nuove modalità per la forma-

zione in Il nuovo apprendistato: bilancio e prospettive, Dossier Adapt, numero 6 del 24 giugno 2009, p.

Nonostante queste buone intenzioni, la legge in questi anni e fino al Testo unico del 2011 ha avuto una vita non facile ed è stata spesso oggetto di ripensamenti e di aggiu- stamenti. I motivi sono di ordine legislativo, di rimballo di competenze tra Regioni e Governo centrale, di difficili accordi tra le parti, dell’acuirsi della crisi economica e di molti altri fattori concomitanti, tali e tanti da farci dire che la legge, aldilà dei casi vir- tuosi di alcune regioni che l’hanno adottata, prima in via sperimentale e poi a regime, non sia riuscita a decollare del tutto.

Ma c’è dell’altro.

L’apprendistato di primo livello, così come concepito dalla Legge Biagi, ad esempio, ha interessato

“una minima parte ed è [stato ] di solito considerato una sconfitta personale e sociale. I giovani ritenuti “meritevoli” dai mass media e dalla mentalità comune, frequenterebbero infatti in prima istanza i licei, e poi a seguire, in una consolidata scala progressivamente discendente, gli istituti tecnici, gli istituti professionali e i corsi triennali di istruzione e formazione professionale delle regioni. All'apprendistato giungono, a 16 anni, in questo modo, soltanto i ‘falliti’ o i ‘feriti gravi’ dalla scuola, quelli che in dieci anni appunto di, per loro tristi, aule scolastiche, tra bocciature e svalutazioni, hanno sostanzialmente interiorizzato in maniera incrollabile il seguente pregiudizio che nessuno riuscirà a svellere dalla loro testa per tutta la vita: chi studia non lavora, chi lavora non studia; chi studia dovrebbe comandare e mai sporcarsi le mani e chi lavora dovrebbe obbedire a chi ha studiato e lavarsi le mani sporche a fine turno”255

.

L’apprendistato, dunque, come ultima spiaggia, come approdo per gli ultimi degli ultimi, per quei pochi che riescono a riemergere dalla sconfitta scolastica e fanno dell’apprendistato uno strumento per imparare la vita256

.

In questi anni, insomma, conviene ripeterlo, sembra abbia resistito il pregiudizio che la vera formazione si realizzi esclusivamente attraverso lo studio e, perciò, chi studia non deve lavorare, mentre chi lavora non studia, o meglio, chi studia non ha fallito come chi, invece, approda direttamente al lavoro e ad un lavoro manuale.

Insomma, il paradigma dell’educazione divaricata ha sconfitto quella che sembrava essere una legge innovativa che tendeva a modernizzare le modalità di accesso al

255

G. Bertagna, Liberal del 22 gennaio 2010, pagg. 8-9.

Il riferimento ai 16 anni, invece che ai 15, è da intendersi a proposito della normativa (articolo 1, comma 622, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, con il relativo decreto ministeriale attuativo n. 139/2007) che spostava l’obbligo di istruzione fino a 16 anni e, conseguentemente, spostava di un anno la possibilità di accedere all’ apprendistato. Con il Testo unico si torna ai 15 anni.

mondo del lavoro, e accreditava l’idea del valore educativo e formativo, al pari e forse di più dello studio, del lavoro e dell’approccio alla vita proprio tramite il lavoro. E questo nonostante l’idea che la vera preparazione alla vita passi attraverso lo ‘sporcarsi le mani’ abbia dalla sua argomenti sicuramente convincenti:

“una Repubblica che, articolo 1 della Costituzione, dovrebbe ‘essere fondata sul lavoro’, […] una civiltà in cui libro fondativo, la Bibbia, si apre con un Dio che lavora e che, alla fine, si compiace di aver ‘fatto bene’, […] una storia, come la nostra, scandita dall'equiparazione tra preghiera e lavoro (san Benedetto), da un san Tommaso, da un Kant e da un don Bosco che qualificano le mani come ‘l'organo degli organi’ dell'uomo, dalle straordinarie esperienze di unità tra teoria e pratica condotte nelle botteghe medievali e rinascimentali, dagli operai dell'Arsenale veneziano dai quali Galileo dichiara di aver imparato molto più che dai suoi sussiegosi colleghi dell'Università di Padova, dall'Enciclopedia di Diderot e D'Alambert che aveva solo tre volumi teorici, ma ben venti dedicati ai mestieri ed al lavoro, su su fino agli sconosciuti ma decisivi lavoratori che, con la loro intelligenza, hanno perfezionato incrementalmente le tecniche di produzione che hanno a suo tempo autorizzato la prima, la seconda e la terza rivoluzione industriale”257

.

Eppure, la legge sull'apprendistato – così come pensata nella legge del 2003, ma la considerazione può essere estesa anche al Testo unico - che raccoglie questo patrimonio teorico di idee e che fa della formazione attraverso il lavoro il suo punto di forza, non decolla, stretta com'è tra molteplici resistenze che, crediamo, non riguardino soltanto la difficoltà di applicazione della legge o la sua incompiutezza in alcuni passaggi importanti, ma proprio la resistenza del pregiudizio.

A riprova di ciò, c'è il fatto che proprio il secondo tipo di apprendistato, quello professionalizzante, che nella Legge del 2003 riguardava i giovani dai 18 ai 29 anni e che riqualificava gli assunti in un lavoro che non sapevano svolgere bene, sia stato quello che ha avuto maggiore successo, non solo perché le aziende hanno potuto godere di vantaggi fiscali e contributivi, ma anche perché, ci viene da pensare, è stato più facile declinarlo come formazione tecnico-professionale piuttosto che come formazione complessiva della persona.

Limite, a nostro modesto avviso, riscontrabile anche nella normativa del Testo unico che, addirittura, diminuisce le ore di formazione e in maniera più chiara rimarca il fatto che la formazione debba essere sostanzialmente di tipo professionalizzante.

257

E non è un caso nemmeno che il terzo tipo di apprendistato, quello di alta formazione, sia stato poco praticato e ancor meno conosciuto.

In definitiva, nonostante le premesse teoriche e socio-educative della logica dell’apprendistato non volessero per niente ribadire il pregiudizio, cui abbiamo fatto cenno, esso stesso permane insieme all’idea che l’apprendistato, e più in generale la formazione attraverso il lavoro, non sia una scelta consapevole, ma sia soluzione riparatoria ai fallimenti e agli abbandoni scolastici: simbolicamente, il far tenere in mano ai propri figli la penna e non più la zappa è ancora vissuto come momento di promozione sociale e quando l’operazione non riesce, si vive la sconfitta e si decide per il ripiego.

La sfida è allora quella di rendere concreto e praticato, perché finalmente praticabile, l’assunto che le due strade, quella che è attraversata dallo studio e quella che è attraversata dal lavoro, siano realmente di pari dignità. Una legge, per quanto attenta al superamento di paradigmi distorti ma consolidati, che sappia coniugare il lavoro con la

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