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appetire, appetizione, desiderio «Acciocché non nasca equivoco sulla parola

Nel documento Rosmini e l’economia (pagine 137-200)

appetire, ripeto d’intenderla per la facoltà di tendere a certe cose per goderne, facoltà che suppone quella di sentir piacere delle perfezioni delle nature, e con questa si confonde» (Rosmini, Principi della scienza morale, p. 68). L’appetito poi si distingue dal desiderio come il genere (tendenza) dalla spe- cie (tendenza razionale). Per questo, «d’un bruto si dirà che è stimolato dall’appetito, ma non si dirà con proprietà ch’egli abbia un desiderio. Il desi- derio dunque ha un significato più ristretto che l’appetito. L’appetito significa qualsivoglia tendenza, sia animale o sia intellettuale: il desiderio è un appetito razionale. Si può dunque definire il desiderio così: “quell’appetito razionale che sorge in un essere intelligente quando questi giudica che a sé sia bene l’avere o il godere una cosa che non ha o che non gode, e che apprende come possibile ad aversi od a godersi”». (Rosmini, Filosofia della politica, p. 370). Per la sua natura razionale, il desiderio è connesso con l’intuizione dell’essere, la quale lo abilita a tendere ad un bene infinito: «il soggetto in vir- tù dell’intelligenza ha un tale atto di essere, pel quale si protende, quasi dica- si, all’infinito, congiungendo se stesso coll’essere in universale, e di lui in- formandosi, d[i] lui partecipando, e così acquistando una capacità infinita, cioè la capacità dell’infinito» (Rosmini, Principi della scienza morale, p. 11).

19 Ivi, p. 67.

sua attitudine a soddisfare le esigenze di perfezione del soggetto senziente.

L’insistito (e per certi versi sorprendente) ragionare di Ro- smini sulle dinamiche dell’appetizione e sull’esperienza del pia- cere che l’uomo trae dalle cose21 mostra la genesi della prima esperienza della bontà delle cose. Questa nozione di bene ha la sua radice nel più elementare vissuto di ogni uomo: la situazio- ne del proprio ‘star bene’ corrisponde infatti all’armonia di sé, all’ordine delle proprie disposizioni, ordine appunto che, per il sentimento di piacere che lo accompagna, è considerato realiz- zazione di sé, bene. Quest’ordine ‘buono’ sperimentato dappri- ma su di sé, l’uomo lo considera poi negli altri enti: egli vede perciò armonia, compiutezza, perfezione nelle situazioni in cui esseri senzienti simili a lui sperimentano a loro volta quel parti- colare ordine che rende loro piacevole l’esistenza; e vede perfe- zione negli oggetti inanimati laddove essi si presentino nella configurazione più adatta a rendere piacevole la vita a lui, o agli altri esseri sensitivi.22 Il presentarsi degli enti come beni esprime la relazione di essi con le nostre soggettive appetizioni; si può dunque riportare la bontà delle cose (il loro essere beni) a ciò che è utile (o piacevole) a me o ad altri. Siamo qui nella dimen- sione che Rosmini chiama del «bene soggettivo», a cui riman- gono ancora estranee le esigenze che determineranno la necessi- tà di riconoscere anche un «bene oggettivo» e un «bene mora-

21

Nelle poche pagine dell’articolo dei Principi della scienza morale che stiamo seguendo («Che cosa sia il bene») le parole «appetito/appetire» ricor- rono 62 volte, «godere/godimento» 22 volte, «piacere/piacevole» 21, «gra- to/gradito ai sensi» 12 volte.

22 L’uomo «primieramente osservò che nel corpo umano lo stato piacevo-

le o doloroso corrispondeva a una certa disposizione di parti, ad un certo or- dine nella misura, nella forma, nel numero, nella congiunzione mutua di esse parti: quest’ordine, a cui rispondeva la situazione piacevole attuale o abituale, fu dunque considerato come perfezione del corpo umano […]. L’uomo poi fece una simile osservazione di tutti gli altri esseri simili a lui nell’essere animati e sensitivi; e li riguardò pure siccome perfetti, quando tutte le loro membra ed ogni cosa in esse tenesse quell’ordine che sembrava produrre in quelli la più piacevole esistenza. In terzo luogo vide che anche gli oggetti esteriori della natura inanimata erano più o men atti a servire a’ suoi bisogni o a’ bisogni degli altri esseri sensitivi, secondo che avessero anch’essi un certo stato, una certa configurazione e composizione; e in questa utile e piacevole loro formazione riconobbe la lor perfezione» (Rosmini, Principi della scienza morale, p. 78).

le». Ma va notato che Rosmini non ha paura del «bene soggetti- vo», non mostra nessuna ansia di negarlo, circoscriverlo, rimuo- verlo: quella del piacere che le cose procurano all’uomo nella loro utilità è per lui l’esperienza originaria della bontà del vive- re, l’esperienza che definisce – in prima ma fondamentale istan- za – il «prezzo» delle cose e dunque il loro avere «nozione di bene e di male»:

Gli oggetti che o mediatamente o immediatamente cagionano i piaceri, si chiamano beni; così gli averi si chiamano beni, perché sono cose che, usate da noi, o ci procurano de’ piaceri, ovvero ci servono a procacciarci dell’altre co- se atte a procacciarci de’ piaceri. Si osservi qui, che noi intendiamo di com- prendere sotto il vocabolo di piaceri anche la soddisfazione di un bisogno qualsiasi, e la cessazione di un dolore. […] Tutto il prezzo che gli uomini danno alle cose, sia che loro il dieno per vero o per falso giudizio, non può venire altronde che dalla opinione che quelle cose influiscano a renderli più o meno appagati o felici. […] L’amore […] o la passione che ha lo spirito verso le cose, è ciò che in ogni istante determina e fissa il prezzo delle cose.23

Di questa posizione di pensiero si trova chiara espressione nell’importante Saggio sulla definizione della ricchezza, scritto da Rosmini nel 1827 attingendo ai materiali della Politica pri- ma.24 Chi si aspettasse da questo lavoro rosminiano un approc- cio alla ricchezza di stampo moralistico rimarrà certamente sor- preso. Si tratta, infatti, di uno scritto estremamente analitico, lu- cido, essenziale, molto rigoroso nel perseguimento dell’inten- zione espressa nel titolo (trovare una definizione adeguata, scientificamente corretta, di ricchezza), che lascia sullo sfondo, senza peraltro censurarle, le questioni di valutazione morale. Certo non manca la vivacità retorica e nemmeno un piglio po- lemico che talvolta (con scarso senso storico rispetto alle moda- lità del confronto intellettuale in uso a quei tempi) si è rimpro- verato a Rosmini.25 Quello di Rosmini non è un pamphlet contro

23

Rosmini, Filosofia della politica, pp. 196, 211, 513.

24 Il saggio è ora disponibile in A. Rosmini, Opuscoli politici, ed. critica a

cura di G. Marconi, Città Nuova, Roma 1978. Per notizie relative a composi- zione, fonti ed edizioni si veda l’accurata «Documentazione storico critica», ivi, pp. 283-284 e 297-301.

25 Esemplare, in proposito, la stroncatura contenuta nelle righe conclusive

del saggio che termina con una beffarda citazione da Melchiorre Gioia: «Troppo cupo pelago affronterei se volessi difendere la umana dignità dal- l’ingiuria, che le viene fatta quando [come fa il Gioia] si allarga il significato della parola ricchezza per poter comprendere in essa i più frivoli oggetti, te-

il lusso, ma contro la sciocca identificazione di lusso e ricchezza (il lusso può essere certamente segno di ricchezza, ma non si identifica con essa: capita spesso, anzi, che esso sia espressione di una ricchezza che si va indebolendo, sminuendo, consuman- do e dunque non può essere di per sé identificato con la flori- dezza economica). La polemica rosminiana contro l’edonismo non è affatto una crociata contro il piacere (il «bene soggetti- vo») che l’uomo può sperimentare nel suo rapporto con il mon- do. Rosmini difende anzi quella che, con espressione inequivo- ca, chiama «quest’arte suprema di godere», la quale tuttavia, come ogni arte, non può prescindere dalle sue proprie regole di realizzazione e da un suo specifico tirocinio formativo. L’«arte suprema di godere» va difesa, appunto, dalle semplificazioni edonistiche come quelle di Melchiorre Gioia, che finiscono per rendere impossibile lo stesso piacere e l’educazione ad esso. Perché, come dice Rosmini,

riducendo [il Gioia] tutto, e anche la nozione stessa della ricchezza ai piaceri, non restando più ai piaceri nulla che li regoli, nulla che li diriga fuori che lo stesso piacere, rimane con ciò distrutta non solo l’economia politica, ma an- che la possibilità d’istruire altrui in quest’arte suprema di godere, rimasta sola in un impero assoluto, ove non può rinvenire altre regole che in se stessa, che nel suo capriccio.26

stimoni della umana leggerezza, e tuttavia si vogliono escludere da quella le vite stesse degli uomini e più ancora la morigeratezza e la virtù. Finirò per tanto conchiudendo colle parole, onde il Gioia con nuova contraddizione con- danna solennemente se stesso, cioè che “vantare le ricchezze d’una nazione, solo perché si veggono delle chincaglierie in vendita, è mostrare d’avere più occhi che giudizio”» (A. Rosmini, Saggio sulla definizione della ricchezza, in Opuscoli politici, p. 45). 26

Ivi, p. 29. Poco più avanti, i piaceri sono affettuosamente indicati da Rosmini come «quelli che indolciscono la vita umana» (p. 35). Per un’utile, accurata rassegna sulle diverse posizioni teoriche presenti nell’Italia tra fine Settecento e primi decenni dell’Ottocento relativamente alle tematiche eco- nomiche destinate ad essere, almeno in parte, riprese e riformulate anche da Rosmini, quali il bene-utilità, la psicologia dei bisogni, il valore soggettivo e oggettivo, si vedano i capitoli 2 e 3 di D. Parisi Acquaviva, Il pensiero eco- nomico classico in Italia (1750-1860). Criteri definitori ed evoluzione storica, Vita e Pensiero, Milano 1984. Nel testo vi è il solo seguente riferimento esplicito a Rosmini, di carattere piuttosto generico: «Il dibattito sui ‘legami’ tra i diversi aspetti dell’attività umana assume un accento particolare quando gli autori si preoccupano di risolvere i termini della contrapposizione tra mo- rale (cattolica) ed economia. È un tema che in Italia impegna molte energie

4. Il «bene oggettivo» e il prezzo delle cose come «dignità». Il rosminiano «bene soggettivo», cioè il «prezzo delle cose» inteso come piacere e come utilità, sembra soddisfare appieno le esigenze di una dottrina economica del valore: si produce, si compra, si vende ciò che risulta gradito, piacevole, utile. Ma, a ben guardare, la stessa logica economica esige qualcosa di più dell’utile e del piacevole: lo svilupparsi delle relazioni econo- miche, il loro estendersi e rafforzarsi, non può sfuggire ad esi- genze crescenti di carattere morale. Così, ad esempio, gli scam- bi funzionano solo nel rispetto di regole elementari di equità, di giustizia, di affidabilità: senza tali regole, lo stesso processo economico finirebbe per incepparsi. Vi sono dunque esigenze di giustizia (in senso lato) che impongono un trascendimento della logica strettamente utilitaristica, proprio al fine di consentire un praticabile e vantaggioso scambio economico di ciò che è reci- procamente utile.27 Si tratta di una dimensione valoriale superio-

(Rosmini, Manzoni, Romagnosi) anche se all’asprezza ‘moraleggiante’ non si accompagna un buon livello dottrinale in campo economico che sappia con proprie argomentazioni contrapporsi a quella che viene definita la ‘scuola fredda ed egoista’ di Adam Smith» (p. 157). La fondamentale relazione che intercorre tra il pensiero economico di Rosmini e gli economisti civili italiani è documentata con grande precisione da Carlos Hoevel il quale, pur ricono- scendo i riferimenti presenti nella «filosofia economica» del Roveretano agli economisti britannici e al patrimonialismo di Haller, rinviene in essa «il pre- dominio originale della matrice antropologica e civile italiana» (Hoevel, Ro- smini y los economistas civiles italianos, p. 196). Una recente, brillante pre- sentazione della tradizione italiana dell’economia civile si trova in L. Bruni, Le prime radici. La via italiana alla cooperazione e al mercato, il Margine, Trento 2012.

27 A chi, in difesa dell’utilitarismo, obiettasse che la giustizia continua ad

appartenere all’ambito dell’utilità, e che ciò che va trasceso per guadagnare il valore-giustizia non è l’utilitarismo in sé ma solo un utilitarismo immediati- stico e rozzo a favore di un utilitarismo raffinato della saggezza morale, si può ben concedere che la giustizia sia essa stessa riconoscibile come som- mamente utile, cioè complessivamente vantaggiosa per il corpo sociale. Ri- marrebbe tuttavia da riflettere su quale sia il tipo di giustizia di cui si sta par- lando. Perché, alla fine, delle due l’una: o si intende la giustizia come sinoni- mo di utilità, sicché ciò che è giusto è utile e viceversa, nel qual caso tanto varrebbe affermare fin da subito il principio universale di utilità ed evitare ogni equivoco richiamo alla giustizia; oppure si intende parlare proprio della giustizia che prescinde dall’utile, e si vuol dire che proprio questa giustizia non utilitaristica è sommamente utile, nel qual caso – appunto – si ammette- rebbe che l’utilitarismo afferma il proprio bisogno di un’istanza non utilitari-

re e integrativa del principio di piacevolezza soggettiva, che Ro- smini chiama «bene oggettivo» e che configura un modo di in- tendere «il prezzo delle cose» assai diverso rispetto al bene sog- gettivo. Eccone una presentazione particolarmente efficace:

Per bene soggettivo s’intende tutto ciò che ci diletta, avendo solo riguardo al diletto che produce a noi, e non alla natura, al valore intrinseco dell’oggetto dilettevole, indipendentemente dal nostro vantaggio. Egli è chiaro, che la po- tenza di sentire non può godere che di questa specie di beni. Ma essendo noi anche dotati d’intendimento, per mezzo di questo conosciamo pure il prezzo di quelle cose che non sono a noi stessi dilettevoli e vantaggiose: e sappiam considerare quanto esse sieno dilettevoli e buone ad altri od a se stesse. Que- sto valore, che noi riconosciamo mediante l’intendimento nelle cose, e che non viene misurato col rapportare le cose a noi, ma non facendo alcuna rifles- sione al nostro proprio interesse, si chiama bene oggettivo. Egli è secondo la natura propria della facoltà di conoscere il giudicare le cose così disinteressa- tamente, in quanto sono, non in quanto giovano a noi, e questo è uno stimarle secondo la verità, non secondo la passione dell’amor proprio. […] L’uomo sente una invitta necessità che la volontà sua sia buona e non malvagia; che ella aderisca […] ai giudizi che fa l’intendimento, lasciato a se stesso sul prezzo oggettivo delle cose.28

Sul piano del bene oggettivo, al senso immediato della grati- ficazione soggettiva, quale criterio di definizione del «prezzo delle cose», subentra la comprensione del valore che le cose hanno di per sé, il loro proprio grado di eccellenza, che po- tremmo chiamare ontologico. Ma qui è necessario precisare su- bito che, al di là delle non poche difficoltà interpretative deri- vanti da una certa ambiguità connaturata con le forme espressi- ve (prezzo «oggettivo», valore «di per sé», bene «ontologico»,

stica, cioè di un’istanza di giustizia assoluta. Dove ‘assoluta’ non significa ‘fuori della storia’, ma tale da porsi storicamente come valore che prescinde dall’utile ‘di questo o di quello’ per rappresentare invece ciò che, qui e in questo momento, è semplicemente ‘giusto’. Sull’antiutilitarismo di Rosmini, la cui prima consistente elaborazione si trova negli Opuscoli filosofici del 1827-28, si vedano: A. Giordano, Le polemiche giovanili di A.Rosmini, Cen- tro Internazionale di Studi rosminiani, Stresa 1976; M.F. Sciacca, La filosofia morale di Antonio Rosmini, Marzorati, Milano 19685, pp. 15-41; M. Schiavo-

ne, L’etica del Rosmini e la sua fondazione metafisica, Marzorati, Milano 1962, pp. 55-88; N. Venturini, Problemi della concezione etica di Antonio Rosmini, Coletti, Roma 1992, pp. 21-30; G. Pontara, L’utilitarismo classico e la dottrina etica di Rosmini, in G. Beschin, A. Valle, S. Zucal (a cura di) , Il pensiero di Antonio Rosmini a due secoli dalla nascita, Morcelliana, Brescia 1999, I, pp. 321-329.

ecc.), sembra da escludere che l’oggettività del bene vada intesa, per Rosmini, in senso ingenuamente naturalistico, come proprie- tà ‘quasi materiale’ appartenente alle cose a prescindere da ogni relazione con la soggettività. Il bene oggettivo inteso come va- lore che le cose hanno «di per sé» non è una proprietà del mon- do separato – in senso assoluto – da ogni riferimento alla sog- gettività. Dato che una fondamentale verità dell’ontologia ro- sminiana afferma che la realtà ontologica del mondo non può prescindere dalla sua relazione con lo spirito, il bene oggettivo sarà anch’esso un bene ‘di relazione’, e sarà precisamente quel bene che le cose hanno in quanto relazionate non già con l’umano bisogno di piacevolezza (bene-utilità) ma con l’esi- genza spirituale – che è dell’uomo, ma va oltre l’uomo – di giu- stizia (bene-dignità).29 A questo livello la determinazione del valore delle cose, del loro «prezzo», risulta più complessa ri- spetto al livello del bene soggettivo: qui non bastano più quelle che potremmo chiamare – parafrasando Rosmini – le «statisti- che» economiche del piacevole,30 ossia indagini sommatorie delle preferenze soggettive. A queste statistiche sfuggono troppe cose: sfuggono, ad esempio, le preferenze di chi non ha voce per pronunciarsi, per farsi valere; sfuggono le preferenze di chi oggi non c’è ancora, ma ci sarà domani; sfuggono le diverse prefe- renze che sarebbero espresse in presenza di conoscenze più

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Uno dei testi rosminiani più eloquenti sulla relazione ontologica tra ‘mondo’ e ‘spirito’ è il seguente passo della Psicologia: «L’ordine è posto dalla divina sapienza nel mondo. Ma quell’ordine non è nel mondo e pel mondo isolato dallo spirito; anzi è ordine nello spirito e per lo spirito, nel qua- le il mondo esteriore riceve quel compimento sostanziale, pel quale da non ente diviene ente. L’ordine adunque nel mondo isolato dallo spirito non è an- cora ordine, ma è iniziamento all’ordine che si trova poi nel mondo esistente nello spirito» (A. Rosmini, Psicologia, ed. critica a cura di V. Sala, Città Nuova, Roma 1988, 1726, III, pp. 209-210). Per approfondimenti sull’ogget- tività rosminiana rinviamo a quanto da noi già segnalato in M. Dossi, Ethik und Object. Skizzen einer rosminischen Lehre von der Alterität, «Münchener theologisce Zeitschrif», 56 (2005), pp. 49-62, successivamente ripreso e svi- luppato in M. Dossi, Oggettività e alterità nel pensiero di Rosmini, in M. Dossi, M. Nicoletti (a cura di ), Antonio Rosmini tra modernità e universalità, Morcelliana, Brescia 2007, pp. 127-141.

30 Cfr. A. Rosmini, Sulla statistica, in Rosmini, Opuscoli politici, pp. 65-

complete ed attendibili – rispetto a quelle attuali – sugli effetti di lunga durata delle alternative prospettate.31

Solo uno sguardo equanime, paziente e giusto; solo uno sguardo capace di una valutazione attenta di ciò che va antepo- sto e di ciò che va posposto, di ciò che è più o meno prezioso, più o meno urgente, è in grado di salvaguardare le condizioni di una relazionalità, anche economica, che funzioni. Il compito di questa valutazione non è una prerogativa dei sovrani o di élite illuminate. Rosmini lo indica come compito alla portata di ogni persona pensante. L’esercizio dell’intelligenza abilita chiunque a capire le cose, a cogliere il significato dei diversi enti, ad avere presenti le loro note fondamentali, i rapporti che intrattengono tra di loro, i livelli di importanza e le relazioni di precedenza che essi rispettivamente hanno. L’intelligenza, nel momento in cui intende «che cosa è» una realtà, è in grado di fornire di essa non solo una definizione descrittiva e funzionale, ma anche una determinazione valoriale. Definire con verità una cosa, cono- scerla in modo corretto, possederne un’idea adeguata significa capire sempre anche il valore che quella cosa ha. Come afferma Rosmini:

è certamente l’intelligenza quella che pesa e misura i diversi gradi per così dire dell’essere, […] e quindi è altresì l’intelligenza che pesa e misura i diver- si gradi del bene, e che in conseguenza di ciò ordina i beni secondo il loro merito, distinguendo in essi il più ed il meno, e posponendo ai maggiori i mi- nori.32

Questa determinazione del «bene oggettivo» non è espres- sione del valore economico delle cose, ma di un loro «prezzo» che appartiene ad un ordine diverso da quello economico, senza il quale tuttavia la stessa attività economica finisce per essere compromessa. Qui siamo piuttosto sul piano della dignità onto- logica degli enti, un piano all’interno del quale viene meno la condizione di universale interscambiabilità dei beni economici, non vi è più la possibilità di fissare ad ogni cosa un «prezzo»

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Si noti che è proprio con una forte denuncia dell’«insufficienza delle statistiche economiche» e con un accorato appello alla «necessità» di superar- le con più adeguate «statistiche politico-morali», ovvero «statistiche comples- sive e filosofiche», che si chiude la rosminiana Filosofia della Politica, p. 513.

economico (prezzo-utilità) e il denaro, questo «vicario universa-

Nel documento Rosmini e l’economia (pagine 137-200)

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