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L’approccio femminista alle tecnologie

2. Lavoro, scienza, tecnologia e società (della conoscenza)

2.1 Che cos’è tecnica e che cos’è tecnologia

2.2.6.4 L’approccio femminista alle tecnologie

rapporto tra genere e tecnologia, che ha dato progressivamente luogo a un approccio femminista alle tecnologie (Wajcman 1995). Questo approccio mette in rilievo alcuni elementi culturali che hanno caratterizzato lo sviluppo delle tecnologie:

 la tecnologia e le macchine sono state culturalmente associate al genere maschile;

 questa associazione appare connessa con una stereotipizzazione dei generi, in virtù della quale al genere femminile si associa la mancanza di analiticità, l’emozionalità e la debolezza, laddove la ecnologia appare legata alla razionalità e alla dimensione analitica,

 attribuite tradizionalmente al genere maschile;

 questa significazione della tecnologia appare il riflesso di opposizioni più profonde, quali quelle tra uomo/donna, scienza/sensualità, cultura/natura e cose/persone;

 il significato delle tecnologie risulta dunque essere quello attribuito ad essa dalla cultura di genere maschile, mentre quella del genere 
 femminile viene sopraffatta;

 la scarsa rilevanza riconosciuta al differente significato che le donne attribuiscono alle tecnologie può determinare anche il verificarsi di effetti non previsti riguardo all’uso delle tecnologie stesse.

2.2.7 La nuova produzione della conoscenza

Il cosiddetto approccio della “New Production of Knowledge”, elaborato alla fine degli anni ’90 da un gruppo di ricercatori (Nowotny, Scott & Gibbons 2001), si concentra sulla distinzione tra modo1 e modo2 di produzione della conoscenza. Il modo1 si riferisce alla scienza, così come si è definita nel contesto della modernità, mentre il modo2 si riferisce alla produzione della conoscenza scientifica nel contesto della società post-moderna e post-industriale.

Nel modo1, la scienza era governata dagli interessi della comunità scientifica, aveva un carattere disciplinare, coinvolgeva soggetti che condividevano la stessa

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“cultura” e appartenevano a uno stesso tipo d’istituzioni, si basava prevalmentemente su relazioni gerarchiche ed era poco trasparente.

Nel modo2, invece, la scienza è guidata dagli interessi applicativi, posti da soggetti esterni alla comunità scientifica, ha un carattere transdisciplinare, coinvolge molti più soggetti tra loro culturalmente eterogenei, si sviluppa prevalentemente attraverso relazioni orizzontali ed è più orientata alla trasparenza e all’accountability.

I fattori che hanno portato alla diffusione del modo2 – che apre la strada alla cosiddetta “scienza post-accademica” (Ziman 1998) – derivano dal successo stesso del modo1. Il numero di ricercatori è cresciuto troppo per essere assorbito dalle istituzioni di ricerca a carattere disciplinare, per cui essi si sono distribuiti nella società, creando propri laboratori, entrando nelle industrie o facendo carriera nelle amministrazioni pubbliche. Per questo motivo, i luoghi di produzione della conoscenza si sono enormemente moltiplicati, come effetto non previsto del processo di massificazione dell’istruzione e della ricerca.

Lo sviluppo dei trasporti e delle ICT ha poi facilitato l’interazione tra questi luoghi, dando forma a un sistema di produzione di conoscenza socialmente distribuito, costruito su reti che attraversano i confini istituzionali. Ciò ovviamente rende più complesso il controllo della qualità dei prodotti scientifici, ma, allo stesso tempo, incrementa le relazioni tra scienza e società e rafforza il peso degli aspetti sociali implicati nella produzione della conoscenza.

La New Production of Knowledge ha influenzato in modo rilevante le interpretazioni della scienza e della tecnologia, soprattutto nell’ambito del dibattito politico. La distinzione modo1/modo2, inoltre, è correntemente utilizzata come quadro teorico generale di riferimento nel contesto di numerosi studi sui sistemi nazionali di ricerca, sull’evoluzione delle istituzioni di ricerca e sulle reti di innovazione.

2.2.8 Il modello della tripla elica

finalità, tanto descrittive, quanto normative.

Il modello riconosce l’innovazione come una continua interazione fra tre differenti sfere istituzionali (le “eliche”), vale a dire l’università, il governo e le imprese, all’interno delle quali agiscono diversi tipi di attori.

Secondo il modello, le relazioni tra queste tre sfere si sono fortemente modificate nel corso del tempo. Se in precedenza, governo, imprese e università agivano separatamente, ognuna seguendo proprie strategie, ora esse agiscono sempre più in sintonia, dando forma a processi coevolutivi, all’incrocio dei quali si attiva il processo di ricerca. In questo modo, mutamenti che avvengono all’interno di una delle tre sfere tendono a trasmettersi alle altre, dando forma a un processo di “transizione senza fine” (endless transition), che richiede livelli più complessi e sofisticati di governance.

L’immagine della “tripla elica“ sintetizza questo processo. In una società basata sulla conoscenza, università, governo e imprese operano e devono operare congiuntamente creando un “ambiente innovativo” in cui sia possibile sperimentare nuove e più efficaci modalità di cooperazione (spin-off, alleanze, laboratori pubblici e privati), senza che nessuna delle tre componenti detenga un vero potere di controllo sulle altre.

Il modello della tripla elica – elaborato alla fine degli anni ’90 da L. Leydesdorff e H. Etzkowitz (Etzkowitz H. & Leydesdorff 1997) – costituisce oggi un quadro di riferimento teorico generale ampiamente utilizzato nell’ambito degli STS. In particolare, trova applicazione nello studio dei sistemi nazionali o locali di ricerca e innovazione, delle relazioni comunicative tra università, imprese e amministrazioni, delle nuove modalità istituzionali e organizzative di promozione e gestione dei processi di ricerca.

2.2.9 L’informazionalismo e la network society

Manuel Castells in “La nascita della società in rete” (Castells 1996) ha proposto una lettura dei mutamenti della scienza e della tecnologia riprendendo la nozione di “paradigma” tecnologico, elaborato da Carlota Perez (Perez 1983), Christopher

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Freeman e Giovanni Dosi (Dosi & al. 1988), che hanno previamente adattato dall’analisi classica delle rivoluzioni scientifiche di Kuhn (Kuhn 1978).

La nozione di paradigma ci aiuta a organizzare l’essenza dell’attuale trasformazione tecnologica e in che modo essa interagisca con l’economia e la società (Kuhn 1978); Perez (1983); Dosi et al. (1988). Piuttosto che raffinare la definizione per includere i processi sociali celati dietro l’economia, credo sia più utile, come una guida per il nostro prossimo viaggio lungo i modelli di trasformazione sociale, di individuare tali caratteristiche che costituiscono il cuore del paradigma tecno-informazionale. Presi insieme essi sono la materia fondativa della network society (Castells 1996: 76).

Un paradigma tecno-economico, quindi, è un grappolo d’innovazioni nel campo tecnico, organizzativo e gestionale i cui vantaggi non sono da rintracciare tanto in nuovi prodotti o sistemi, ma nella dinamica della struttura dei costi relativi tra tutti i possibili fattori di produzione.

In ogni nuovo paradigma, pertanto, si registra la presenza di un “fattore chiave” caratterizzato dal fatto di costare progressivamente di meno e di essere disponibile universalmente. Il paradigma proprio della rivoluzione industriale moderna ha avuto come fattore chiave l’energia; quello che sta caratterizzando la fase attuale ha come fattore chiave l’informazione derivante dai progressi nella microelettronica e nelle telecomunicazioni (C. Freeman, Prefazione alla Parte II, in Dosi et al. 1988: 10).

A tal proposito Castells parla di “società dell’informazione” o “informazionalismo” (Castells 1996; 1999; 2000; 2007; 2009; Himanen 2001) e di network society (Castells 1996; 1999; 2000; 2007; 2009; Wellman 2000): una società in cui circola liberamente un flusso illimitato d’informazioni. Lo sviluppo delle ICT ha prodotto economie di scala e di scopo e ha modificato i processi di produzione, il comportamento dei consumatori, le regole sociali e istituzionali. I computer hanno aumentato la loro capacità di memoria e di elaborare e processare informazioni. La tecnologia informatica ha trovato applicazione in tutti gli ambiti, da quelli professionali e lavorativi a quelli domestici fino a quelli sociali. Le telecomunicazioni hanno sviluppato le loro potenzialità e, oggi, permettono di collegare disparati punti del pianeta. I cavi in fibra ottica consentono la trasmissione di dati in quantità superiore al passato e le principali dorsali delle reti telefoniche e di Internet, compresi i collegamenti internazionali, sono in fibra ottica. La “digitalizzazione” si è imposta come sistema dominante, perché da un lato rende più economica la produzione delle informazioni e dall’altro espande i mercati e i confini della loro fruizione, permettendo l’interattività dei moderni sistemi comunicativi e contribuisce in modo sostanziale all’emergere di nuove

forme di divisione del lavoro (Castells 1996). Le nuove tecnologie applicate all’informazione e alla comunicazione hanno inoltre prodotto, come si è visto, una contrazione del tempo e dello spazio. La distanza tra i vari punti si è annullata; il tempo è quello della contemporaneità (Castells 2010). Migliaia di dati possono essere trasmessi contemporaneamente in frazioni di secondo; le notizie sono apprese nel momento in cui accadono. Il mondo del lavoro è stato completamente trasformato: a una progressiva delocalizzazione delle produzioni si assiste negli ultimi anni a un’ulteriore delocalizzazione nel campo dei servizi. A beneficiare di questi nuovi strumenti sono stati soprattutto i campi della finanza e dell’informazione. I network mondiali trasmettono le notizie in tempo reale senza soluzione di continuità. Il pianeta è avvolto da una rete globale all’interno della quale flussi informativi scorrono ininterrottamente attraverso i vari “nodi” interconnessi tra loro.

Castells, partendo da tali presupposti epistemologici, individua gli attributi principali della network society, costruita sull’uso pervasivo delle nuove tecnologie e sottolinea cinque aspetti che ritiene peculiari di questo nuovo paradigma:

1. Le nuove tecnologie, diversamente dalle precedenti rivoluzioni tecnologiche, agiscono sull’informazione stessa e non viceversa, rovesciando i tradizionali assunti e definendo l’informazione alla stregua di un bene “materiale”, elemento base del lavoro. L’informazione, pertanto, rappresenta la materia prima. La particolarità delle nuove tecnologie consiste nella loro capacità di generare un meccanismo di retroazione tra informazione e tecnologie. La peculiarità sta nell’applicazione della conoscenza e dell’informazione a dispositivi per la generazione della conoscenza e l’elaborazione dell’informazione. Una volta introdotta, la tecnologia è fruita dagli utenti; attraverso l’utilizzo è rielaborata e ridefinita la tecnologia stessa. Le nuove tecnologie dell’informazione non sono semplicemente strumenti da applicare, ma processi da sviluppare. Chi utilizza e chi produce, sono spesso la stessa persona (Castells 1996). L’informazione, quindi, rappresenta un valore aggiunto per la sua capacità d’influenzare la tecnologia e la rielaborazione

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esercitata dagli utenti sulla tecnologia stessa produce come conseguenza uno stretto rapporto tra i processi sociali di creazione e manipolazione dei simboli e la capacità di produrre ed erogare beni e servizi, cioè tra la cultura della società e le forze produttive35 (Castells 1996: 225).

2. Le nuove tecnologie sono estremamente pervasive e incidono profondamente sulle percezioni collettive e individuali, in quanto ogni processo della vita sociale e collettiva è direttamente “formato”, anche se non determinato dalle nuove tecnologie, essendo l’informazione parte integrante di ogni attività umana, il nuovo medium tecnologico influenza tutti gli ambiti della nostra esistenza quotidiana, individuale o collettiva. Gli effetti dirompenti sono strettamente legati al “non gradualismo” del nuovo paradigma. È in atto una fase esplosiva che determina nuove proporzioni nei processi mentali e nell’organizzazione sociale.

3. La società è sempre più costruita su una logica a rete: la struttura o l’insieme di relazioni connesse all’altissimo livello d’interattività proprio delle nuove tecnologie; adatta “alla complessità dell’interazione e agli imprevedibili modelli di sviluppo derivante dalla forza creativa di tale interazione”. La logica a rete permette di strutturare le relazioni pur mantenendo un alto grado di flessibilità. La rete è, infatti, una struttura aperta, in continua trasformazione. Quando la rete si sviluppa, inoltre, lo fa in modo esponenziale ed esponenziali sono i benefici che se ne traggono, mentre il costo cresce in modo lineare. La morfologia della rete, quindi, appare adatta agli imprevedibili modelli di sviluppo derivanti dalla complessità delle interazioni delle nuove tecnologie dell’informazione. Quest’architettura, configurazione topologica propria delle nuove tecnologie dell’informazione, perciò è applicabile a tutti i tipi di processi e organizzazioni.

4. Il paradigma informazionale, nel suo concreto sviluppo, è molto flessibile,

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“In tal modo i computer, i sistemi di comunicazione e la decodificazione e programmazione genetica rappresentano tutti amplificazioni ed estensioni della mente umana. Ciò che pensiamo, e il modo in cui lo pensiamo, si manifestano sotto forma di beni, servizi, produzione materiale e intellettuale, che si tratti di cibo, abitazione, sistemi di comunicazione e trasporto, computer, missili, salute, istruzione o immagini” (Castells 1996: 225).

facilmente riconfigurabile e perfettamente funzionale a una società in costante cambiamento. Non solo i processi, ma anche le istituzioni possono essere modificate, destrutturate e ristrutturate secondo nuove esigenze. Il sistema, dunque, ha la capacità di rielaborare i processi in atto e di riconfigurarsi pur mantenendo costante la struttura. Questa fluidità organizzativa permette il cambiamento costante delle regole e degli elementi dell’organizzazione senza distruggere quest’ultima.

5. La convergenza delle traiettorie di sviluppo delle differenti tecnologie specifiche (microelettronica, optoelettronica, telecomunicazioni, biotecnologie), le quali si integrano all’interno di sistemi tecnologici più complessi (Castells 1996): è difficile concepire un dispositivo, un artefatto senza pensare alle variabili derivanti dall’interazione con altri dispositivi36

(Agamben 2006: 13, 18-20) e altri artefatti37 (Wartofsky 1979: 188-209). A questo si aggiunge la crescente interdipendenza dei diversi media nel globale processo di convergenza tecnologica38. Da qui, nasce l’esigenza di ricercare nuove basi epistemologiche per la ricerca (epistemologia della complessità o del Caos).

36 Il termine “dispositivo” deriva dal latino dispositio, traduzione del greco oikonomia (gestione della casa e

più in generale management), che a partire da Clemente di Alessandria si fonde con la nozione di “provvidenza” e va a significare: “il governo salvifico del mondo e della storia degli uomini”. “I dispositivi di cui parla Focault sono in qualche modo connessi con questa eredità teologica, possono essere in qualche modo ricondotti alla frattura che divide e, insieme, articola in Dio essere e prassi, la natura o essenza e l’operazione attraverso cui egli amministra e governa il mondo delle creature. Il termine dispositivo nomina ciò in cui e attraverso cui si è realizzato una pura attività di governo senza alcun fondamento nell’essere. Per questo i dispositivi devono sempre implicare un processo di soggettivazione, devono, cioè, produrre il loro soggetto. In tutte le interpretazioni del termine dispositivo è comune il rimando a un’oikonomia, cioè a un insieme di prassi, di saperi, di misure, d’istituzioni il cui scopo è di gestire, governare, controllare e orientare in un senso che si pretenda essere utile i comportamenti, i gesti e i pensieri degli uomini”. I dispositivi, di fatti, sono l’elemento che nella speculazione di Foucault prendono il posto degli “universali” (concetti operativi di carattere generale): “non si tratta semplicemente di questa o quella misura di polizia, di questa o quella tecnologia del potere, e nemmeno di una generalità ottenuta per astrazione: piuttosto della rete che si stabilisce tra questi elementi”.

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Il concetto di strumento-artefatto, come enunciato nella riflessione epistemologica di Wartofsky, si articola in tre modi:

Artefatti primari: gli strumenti tecnici, orientati verso l’esterno, che servono cioè al soggetto per agire sulla realtà circostante;

Artefatti secondari: gli strumenti psicologici orientati verso l’interno. Potremmo dire che sono conseguenti ad una prima rielaborazione concettuale degli artefatti primari;

Artefatti terziari: il sistema di regole formali sganciato dall’artefatto primario. Sono modelli concettuali che sembrano non avere più alcun collegamento con gli artefatti primari e secondari, ma che derivano dall’attività del soggetto con gli strumenti tecnici.

Lo strumento è un’appropriazione dell’artefatto tecnologico. Lo stesso è al centro del rapporto che l’uomo intrattiene con il mondo.

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È d’aiuto rilevare che la convergenza sin qui descritta va intesa in un duplice modo sia tecnologico, che culturale (Jenkins 2007: 21).

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2.3

Campi, mondi e arene

A conclusione di questa disamina dei differenti approcci degli STS è doveroso fare una riflessione su ciò che a più riprese, nei differenti contesti sono stati chiamati: cerchie (Simmel 1903), gruppi occupazionali (Becker 1987), reti (Callon 1990; Latour 1998; Castells 1996), eliche (Etzkowitz & Leydesdorff 1997), comunità scientifiche (Kuhn 1978), attanti (Latour 1998; Callon 1990), relevant social groups (Bijker 1998; Pinch & Bijker 1990), arene trans-epistemiche (Knorr- Cetina 1995).

Si tratta di aggregati eterogenei, che variano per dimensione, per tipo, per numero dei componenti, in base alle attività che svolgono, per differente complessità organizzativa, per il grado di sofisticazione tecnologica utilizzato, per il tipo di elaborazione ideologica, per dispersione geografica. La difficoltà nello studio di tali complessi di attori, pratiche, eventi e organizzazioni sta nel fatto che sono costituiti da una somma di elementi tenuti insieme da legami deboli, dall’assenza di rigidi confini formali, dalla mancanza di una membership, di una chiara divisione delle competenze e di centri decisionali. Per questo motivo può apparire forzata una loro lettura analitica che si rifaccia a concetti articolati in maniera rigida come quello di sistema o di organizzazione (Toscano 2012: 309).

Di seguito saranno descritti brevemente due modelli utili per l’articolazione e la coerenza del presente lavoro. Tali modelli si ritengono un punto di arrivo: il la teoria del campo (Bourdieu 1985; 1998; 2003; 2010) e i mondi o sottomondi (Shibutani 1955; Strauss 1978; Unruh 1980; Becker 1982) e le arene (Strauss 1978; 1982; 1984; Clarke 1991). Gli ultimi due sintetizzabili nel concetto sensibilizzante di “mondi sociali” (Strauss 1978; Becker 1982). I campi di forze e i mondi sociali rappresentano una summa di tutti i modelli e approcci fino ad ora passati in rassegna: le similitudini sono certamente più numerose delle differenze, sia per gli approcci che non nascondono la loro diretta filiazione da questi; sia per quelli che ne utilizzano la terminologia, i concetti o i contenuti, ma non si riconducono direttamente a questi soprattutto da un punto di vista teorico-formale.

2.3.1 La teoria del campo scientifico di Bourdieu

nell’intento di superare l’analisi microsociologiche, la teoria del campo scientifico coglie la scienza come un campo di forze, la cui struttura è determinata dai rapporti tra i differenti agenti (gli scienziati, le équipe di ricerca, i laboratori). Tali rapporti si definiscono a partire dalla distribuzione, tra gli agenti, di due differenti tipi di capitale: il capitale scientifico, che si fonda sulla conoscenza e sul riconoscimento e funziona come una sorta di credito (e quindi sulla fiducia e la credenza di coloro che subiscono il potere derivante dal capitale scientifico) e il capitale temporale, espressione ripresa dalla storia medievale europea per indicare il potere della Chiesa cattolica nell’ambito statuale e qui utilizzata per indicare il controllo degli aspetti organizzativi, economici, finanziari e in qualche modo politici dell’attività di ricerca.

Il peso associato a un agente dipende, dunque, dalla sua posizione nel campo in rapporto a tutti gli altri agenti, ma anche dalle sue “carte vincenti”, vale a dire dai fattori differenziali di successo, rappresentati dal capitale che possiede.

I ricercatori dispongono di un habitus, cioè di un insieme di conoscenze pratiche relative ai problemi da trattare e alle modalità con cui trattarli. L’acquisizione dell’habitus – che appare diverso a seconda delle discipline cui si riferisce e che muta nel tempo – consente agli scienziati di agire all’interno del campo in modo significativo.

Ogni atto scientifico è frutto delle lotte che si attivano nel campo, attraverso le quali gli agenti dotati di risorse differenti si scontrano per conservare o trasformare i rapporti di forze vigenti. Queste lotte avranno forme e modalità di sviluppo a seconda della distribuzione del capitale tra gli agenti, ma si organizzeranno sempre intorno all’opposizione tra dominanti (first movers) e sfidanti (challengers). I primi hanno una rendita di posizione, ma devono sempre vigilare, innovandosi continuamente, per difendersi dagli attacchi dei secondi. Il fatto scientifico (e quindi l’oggettività scientifica) si produce come tale solo quando è condiviso dalla totalità del campo, quando cioè si produce l’homologein, il “dire la stessa cosa”.

L’approccio teorico di Bourdieu non ha avuto particolari applicazioni empiriche, costituendosi come una teoria interpretativa generale della scienza e della tecnologia.

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2.3.2 La scienza come mondo sociale

La tradizione interazionista ha elaborato un’altra variante degli studi sociologici dei contenuti della scienza. È stato già sottolineato come Hughes abbia spinto i suoi allievi e collaboratori a esaminare “come il lavoro viene eseguito”, focalizzando l’attenzione sul posto di lavoro come un luogo “dove persone differenti si incontrano” (Hughes 1971). La significativa costruzione o rappresentazione del “lavoro stesso” (ad esempio la sua collocazione in uno spazio culturale) è qui assunto come una parte di tale lavoro (sia che si parli di medici e avvocati, che di artisti o scienziati). Ciò implica che i confini del lavoro potrebbero essere trovati nei luoghi di lavoro della scienza come in luoghi dove queste attività sono più visibilmente ricostruite, come nei tribunali, nei mass- media, nel discorso pubblico o nel corpo legislativo (Clarke & Gerson 1990). Già la prima generazione della Scuola di Chicago aveva utilizzato il concetto di “mondo sociale”39, ma solo alla fine degli anni ’70 e negli anni ’80 del secolo

scorso quattro articoli di Strauss (Strauss 1978; 1979; 1982; 1984) strutturano e danno fondamento teorico al concetto, poi ripreso nel famoso studio di Becker sui “mondi dell’arte” (Becker 1986) introducendo l’espressione nel vocabolario delle scienze sociali.

I mondi sociali sono concepiti come aggregati di persone che condividono un impegno a perseguire un comune obiettivo, che sviluppano ideologie per definire il proprio lavoro e che accumulano risorse per realizzarlo. Secondo Becker i mondi sociali sono allo stesso tempo “schemi convenzionali” (sistemi di credenze

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