QUEStA è PICCOLA, COSì è AL 276 %
IV.1. ARCHItEttURA, CIttà, ACCOGLIENZA
Da sempre la città accoglie. Accoglie culture, tradizioni, consuetudini, che nel tempo hanno ga- rantito il formarsi di una precisa identità. Ci sono infatti città che hanno accolto influssi lontani, operatività venute da fuori e modalità remote, andando a formare, sedimentazione dopo sedi- mentazione, flusso dopo flusso, il profilo di segni e caratteri riconoscibili che si basano proprio sull’incrociarsi accumulato di provenienze diverse.
Accogliere significa aprirsi alla diversità, significa far convivere le leve e i moti di tante evoluzioni diverse, affinché venga superata l’idea della singolarità in favore della contaminazione.
Tutta la storia dell’architettura e con essa quella della città, è il frutto visibile di questo processo di reciproca relazione fra le diversità. Una interazione che ha elaborato stili, movimenti e correnti, in un flusso inarrestabile di inclusione. A ben guardare infatti, ogni epoca accoglie nei processi della propria evoluzione, i lasciti dell’epoca precedente mentre fa spazio all’anelito del futuro, come se di fatto non ci fosse accoglienza senza innovazione e viceversa, nessuna innovazione senza accoglienza. La cultura greca, prima di disperdersi, sopravvive nell’accoglienza di quella romana, che a sua volta si contamina con quella dell’oriente, resa poi astrazione e nuova proporzione, dalla grande invenzione della riscoperta rinascimentale, segnano le tappe macroscopiche e visibili di questo percorso di inconsapevole relazione. Anche la modernità, in fondo, si apre ad accogliere sonorità che vengono sia dal passato che da cieche fedi nel futuro, rompendo con le identità strette dei diversi localismi.
Internazionale, si professa infatti quell’architettura capace di costruire una nuova narrazione della
forma, nell’accoglienza di molte esperienze diverse.
Sullo stesso piano, per certi versi, si colloca anche la contemporaneità, la cui estetica del fram- mento, altro non è che la simultanea coesistenza di lasciti diversi, diversamente accolti ad aspirare ad una “unità” irrimediabilmente infranta e perduta.
Da queste brevi tracce, si intuisce allora, come la contaminazione delle diversità, costituisca in fondo il vero motore propulsivo della storia, coinvolgendo inevitabilmente la struttura formale di questa evoluzione, cioè la città.
Se questo può apparire naturalmente scontato, non lo è di certo sul piano dell’operatività e della teoria dell’architettura. Il più delle volte infatti, siamo andati avanti in questo ambito, per grandi
CAPITOLO QuARTO. LO SPAzIO DEL DIALOgO
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71. Giovanni Michelucci, schizzo dal- la serie “Elementi di città”, 1970
GIOVANNI MICHELUCCILO SPAZIO CHE ACCOGLIE
blocchi di pensiero, convinti che al proprio interno, si celassero verità irrinunciabili. Questo ha prodotto in molte occasioni, una sospesa ambiguità fra la verità e la teoria, ovvero uno scarto fra il senso vero delle cose e quello portato avanti dalla cultura. A testimonianza di questo immo- bilismo, basti pensare al dibattito sorto nell’immediato dopoguerra attorno alla ricostruzione di molti centri storici italiani e di edifici situati al loro interno. Piuttosto che aprirsi alla contaminazio- ne con il nuovo, si è preferito ricostruire “dov’era e com’era”, tentando di salvare una immagine della città che di fatto non rifletteva più la complessità delle sue dinamiche.
A volte si è cercato di interpretare il realismo contenuto nella quotidianità, ma anche queste esperienze sono naufragate presto nello sfiorarsi della parodia, producendo pezzi di città che non si andavano a saldare con la città preesistente.
In fondo la città si muove nello spazio liminale tra la memoria e la trasformazione, evocando anche se difficile da applicare, il concetto della “continuità”. «Non è opera veramente moderna quella che non affonda le proprie radici nel passato», chiosava negli anni Cinquanta il direttore di Casabella, Ernesto N. Rogers, individuando nella mutazione nell’ordine di una tradizione, l’essenza vera di ogni processo evolutivo. Ovvero indicava con lucida consapevolezza, come ogni cosa, e l’architettura in primis, possa trasformarsi non con la rottura violenta, ma con un lento e ineso- rabile processo di avvicinamento alla diversità. In altre parole, attraverso un lento incorporare, fase dopo fase, acquisizione dopo acquisizione, dei meccanismi più intimi di un pensiero nuovo nel pensiero corrente.
Alla luce di tutto questo, parlare del senso della città nel bilico tra memoria e trasformazione, significa allora, essere consapevoli di questo aspetto dell’evoluzione, abbandonando ogni pro- clama netto, ogni slogan facile, ogni atteggiamento riduttivo o forse anche impositivo. La città è il risultato di un lento e inesorabile rimandarsi a storie diverse, dove l’uomo, un uomo poetica- mente risolto nella trascendenza, ma anche praticamente definito nell’immanenza, rimane il vero soggetto-oggetto della sua espressione. Una espressione che si manifesta attraverso il pulsare fluente della vita, origine e senso della città, ben colto, come già visto, nello splendido concetto tutto fiorentino, della variabilità, che porta a concepire una forma immaginata come la costruzio- ne mutevole e variabile nel tempo, delle infinite relazioni, degli infiniti flussi, delle infinite valenze, che la innervano e la strutturano. Allora è il battito dell’uomo, il pulsare fluente della sua vita che prende il sopravvento, in una innovativa analogia tra edificio e città. Ovvero non esiste più una città degli edifici, ma una città fatta di edifici che sono essi stessi città, che ne ripercorrono e ripresentano in piccolo, il senso generale della città che gli ospita, in un rapporto innovativo quanto osmotico, mai immaginato prima di allora.
Quindi la città accoglie l’uomo e l’uomo accoglie la città, sono l’uno espressione dell’altra. In questa logica, nata nel dopoguerra, ma che rimane indubbiamente di attualità, l’uomo è il pro- tagonista del vivere la città, non la macchina ma il traffico pedonale, non le zone omogenee per funzione, che tanto hanno influenzato la cultura urbana e urbanistica degli anni Sessanta, ma una
diffusa mixitè che porta a non avere settori precisi, zoning e standard da rispettare, ma il sovrap- porsi vitale di funzioni diverse che armonicamente coabitano nel rispetto reciproco. Una città che non sia dormitorio, ma che continui ad essere la rappresentazione della vita, come in passato, una città-teatro, luogo di vita, di esperienza e di possibilità.
Per questo, quindi, mai come in questi tempi, parlare della città e delle sue trasformazioni, significa parlare del tema e dell’accoglienza.
E questa nuova capacità di accoglienza che deve manifestare la città, dovrebbe andare di pari passo ad un rinnovato concetto di identità, che vorrei fosse inteso come un concetto dinamico, ovvero che non esprimesse la fissità di una condizione inalterabile nel tempo, quanto piuttosto una condizione sensibilmente aperta ad incorporare orientamenti e innovazioni diverse. Quindi non uguaglianza e conformità, ma l’apertura cosciente alle molte forme della diversità. Solo così, si può sostenere l’immanenza di questo principio, ma anche la sua contestuale e vibratile ambiguità. Ogni aspetto di identità infatti, qualunque sia il campo attraverso il quale lo si guardi e lo si affron- ti, per suo statuto e per sua natura, non può essere altro che una identità straniata e complessa, ovvero la contemporanea e sinestetica presenza di molte identità diverse.
È la stessa nostra storia umana che lo richiede, è la stessa storia dell’arte, della poesia, della letteratura che ce lo impongono, suggerendoci di trovare forse più nel dolore della rottura, che non nell’agio della consuetudine, il metro di una sua auspicabile misura. Una misura nuova, forse maggiormente incerta, ma proprio per questo, portatrice di valori ulteriori, ai quali dobbiamo, possiamo e sentiamo di aprirci.
Quindi in questo mondo dai contorni incerti, dai principi ibridati, dalla narrazione frammentata, parlare di identità oggi, vuole dire solo parlare di una identità “multipla”, ovvero contaminata e corrosa da mille altri vettori. Credo che dobbiamo riconoscere la forza di questi vettori, asse- gnarne un codice di attenzione, una soglia di ascolto, una finestra di dialogo, affinché non avvenga depauperamento, bensì trasmigrazione, ovvero travaso ed accoglienza, a ricordare come la soli- dità della nostra storia, sia formata proprio da queste basi labili, e come la nostra identità oggi, sia la sedimentazione di molte identità che da sempre si evolvono nel tempo e nello spazio. Credo che l’identità, così come l’umano ce la fa vivere, la scienza ce la dimostra, la filosofia ce la spiega, la psicologia ce la manifesta, altro non sia che mutevolezza nella stabilità, cambiamento nella permanenza, modificazione nell’invariabilità. Ovvero credo che sia una sorta di “struttura assente” che permane pur nella doverosa e necessaria capacità e possibilità del cambiamento. In altre parole, ogni forma identitaria se non è disposta ad accogliere una qualunque forma di alterità, non può altro che incancrenirsi in posizioni di sterile propaganda di se stessa.
Per concludere e per dilatare questo concetto, prendo a prestito le parole di Padre Ernesto Bal- ducci, che nell’ormai già lontano 1992, rincorreva l’idea di una identità possibile solo se posta in relazione all’altro. Credo che questa sua visione, anche se nata ovviamente in un altro contesto, possa essere traslata a tutto diritto anche nel campo dell’architettura e della sua ricerca.
GIOVANNI MICHELUCCILO SPAZIO CHE ACCOGLIE
«Noi portiamo in noi qualcosa che è Altro da noi ma questa alterità non è soltanto l’ombra, ma è luce, è la potenzialità obiettiva di forme umane più alte in cui le culture si comprendono l’una con l’altra, in cui le alterità non si annullano né si assimilano ma restano tali nel gioco dello scambio reciproco in vista di intese sempre più alte. L’Alterità è il veicolo della nostra dilatazione, perché comprendendo l’altro che è in me ed è fuori di me io dilato me stesso, rimanendo altro dall’Altro che ho compreso» 1.
72. Giovanni Michelucci, schizzo dalla serie “Elementi di città”, 1970
1 Cfr. E. Balducci, L'altro, Firenze,