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G ARGANO , R OMA 2011 39 P F

ARENGA- G. CURCIO, Dati, Giuliano, in Dizionario Biografico degli Italiani, 33, Ro-

ma 1987, pp. 31-34. Sulla sua produzione in ottava rima cfr. anche C. CASSIANI, Roma tra fa- bula e istoria. Parole e immagini alla vigilia della Riforma, Roma 2008, pp. 48-68.

cantare in ottava rima » a cui non è estranea una precisa funzione didatti- ca, anche questa operetta è rivolta ad un pubblico di non dotti, di persone fornite di cultura pratica, non certo umanistica, come l’uso del volgare mostra chiaramente, cioè una fascia di pubblico di solito escluso dalla fruizione della letteratura ufficiale40.

Mentre nessun cenno viene fatto alle rilevazioni astrologiche, pure in gran voga in quell’epoca, nell’opera del Dati vengono dapprima passati in rassegna i segni premonitori mandati da Dio nel corso dei secoli per rammentare agli uomini i loro peccati. Sono poi ricordati, con tanto di nome, sia i più famosi predicatori de malis temporibus che erano passati da Roma a partire dal pontificato di Sisto IV e le donne dotate del dono della profezia, una specie di ‘sante vive’ così in auge nell’Italia del Rina- scimento41 – tra cui ricorda anche le ‘murate’ di San Pietro42 –, sia av- venimenti politici considerati alla stregua di veri e propri avvertimenti di future sciagure: l’espansionismo dei turchi, la discesa in Italia dei france- si di Carlo VIII, la morte di Innocenzo VIII, vista come una vera iattura, forse un indiretto riferimento polemico al suo successore Alessandro VI. Elementi ugualmente polemici si ritrovano in un altro punto del poemet- to, riferibili allo stile di vita troppo lussuoso della corte pontificia: Dio onnipotente, commenta il Dati, « quando fecie quel giorno l’acqua mali » non ebbe riguardo di « papa o cardinali ».

La parte dell’opera che descrive il diluvio è ricca di particolari sulle case e chiese danneggiate, sui personaggi che a diverso titolo subirono danni, con la localizzazione di botteghe, fondaci e magazzini, sui soccor- si prestati agli alluvionati ricoverati nelle parti alte delle case, bisognosi di cibo, acqua e vestiti: per venirli ad assistere, ci informa il Dati, « una barcha fu fatta con ragione/ che andava per acqua e poi per terra/ con quattro rote, fatta in modo vario/ la qual compose ’l perugin Ciesario » (LXXVI, 5-8), ovvero una specie di mezzo anfibio ante litteram.

40P. F

ARENGA CAPRIOGLIO, Indoctis viris ... mulierculis quoque ipsis. Cultura in volgare

nella stampa romana?, in Scrittura, biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento. Atti del

seminario (Roma, 1-2 giugno 1979), a cura di C. Bianca - P. Farenga - G. Lombardi - A.G. Luciani - M. Miglio, Città del Vaticano 1980, pp. 403-415.

41

G. ZARRI, Le sante vive. Profezie di corte e devozione femminile tra ’400 e ’500, Tori- no 1990.

42Sulle murate di San Pietro qualche cenno in A. E

SPOSITO, Un documento, una storia:

Caugenua ebrea poi Angela cristiana, prima sposa poi ‘murata’ in S. Giovanni in Laterano (Roma 1537), in Scritti per Isa. Raccolta di studi offerti a Isa Lori Sanfilippo, a cura di A.

Comunque, sia che parli dei segni premonitori, sia che ricordi i danni subiti dalla città, per il Dati ogni pretesto è buono per ribadire il suo as- sunto iniziale: il diluvio è certamente un segno divino:

considerando l’alto Idio immenso/ haver aparechiato el suo furore,/ sì che mi fa tre- mare ogni mio senso/ perch’io vego tremare e giusti e santi/ che debe far chi ha pe- chati tanti (LXXXIII, 5-8).

Il motivo dei segni premonitori resta anche in seguito una costante nelle fonti contemporanee. Per l’alluvione del 15 novembre 1514 – la quale peraltro non dovette essere tra le più significative ed è probabil- mente per questo che scarse sono le testimonianze coeve43 – nell’operet- ta di Prospero d’Amelia su questo ‘diluvio’, per più versi una grossolana ripresa dell’opera del Dati44, l’autore (forse da identificarsi con Prospero Mandosi di Amelia)45 non manca di ricordare « che simili prodigi non vengano mai che da poi non sequiti qualche grande infortunio, come è guerra, pestilentia, charistia ». Qualche anno dopo, nel 1518, a riprova della generale credenza nei fenomeni prodigiosi, è lo stesso cerimoniere pontificio Paride de Grassi che registra nel suo diario una serie di questi segni « quae ipse prodigia vocabat », attestati a Roma negli ultimi mesi, in merito ai quali aveva interrogato il pontefice sull’opportunità « ut pro his publicae processiones fierent », per sentirsi però rispondere da Leone X che egli riteneva « illa non esse signa sed omnia naturalia »46.

43Questa piena è segnalata da M. P

ENSUTI, Il Tevere, I, Roma 1923, p. 252; P. PECCHIAI,

Roma nel Cinquecento, Roma 1948, p. 420 (dove erroneamente è scritto 1513). Una lapide

con il ricordo di questa inondazione era stata posta presso le case Caetani all’Orso, cfr. DI

MARTINO- BELATI, Qui arrivò il Tevere cit., p. 171, n. 16. Ricordo solo la brevissima nota di

Paride de Grassi, cerimoniere di papa Leone X, che registra come in quel giorno il Tevere « urbem vexavit inundans omne illud spatium quod a Monte Iordano versus flumen situm est » (cfr. PARIDE DE GRASSI, Il diario romano di Leone X, a cura di M. Armellini, Roma

1884, p. 20).

44P

ROSPERO D’AMELIA, El diluvio di Roma che venne a dì quindici di novembre MDXIIII,

[Roma, Marcello Silber, 1515?]. Edit16 ne segnala una sola copia conservata presso la Bi- blioteca Nazionale centrale di Firenze. Il testo dell’operetta è pubblicato in appendice a GIU- LIANODATI, Del diluvio de Roma del MCCCCXCV a dì IIII de decembre, a cura di A. Espo-

sito - P. Farenga, Roma 2011 (RR inedita.anastatica, 51), pp. 131-142.

45La famiglia Mandosi faceva parte dell’antica nobiltà della città umbra e un suo ramo

già dal pieno Quattrocento si era stanziato a Roma. Ringrazio l’amico Emilio Lucci per que- ste informazioni.

46Si trattava nell’ordine: « 1° Pluviae quae a mense octobris usque ad medietatem februarii

incessanter fuerunt die ac nocte, et magna inundatio fluminis. 2° Fulgur quod in castro S. Angeli statuam Angeli tetigit et aliam proiecit. 3° Abrasio imaginis Crucifixi quae erat picta in gremio

Per la terribile alluvione dell’ottobre 1530 – che ebbe una vasta eco anche al di là delle Alpi47 –, è ancora questo il comune sentire di quasi tutte le testimonianze: così, ad esempio, il Gomez conclude la sua ampia trattazione sulle inondazioni del Tevere, ed in particolare su quella da lui personalmente patita in quell’anno, esprimendo la convinzione che l’e- vento fosse spiegabile solo come castigo di Dio48. Per Giovan Battista Sanga il timore è che « non significasse qualche maggior male »49. Nella

sua lettera al duca Alessandro de’ Medici, dopo aver brevemente delinea- to il succedersi degli eventi:

ancor qui habbiamo avuto un diluvio d’acqua non udito mai più: è cresciuto il Teve- re tanto, che è andato per tutta Roma, et alzatosi l’acqua in alcuni luoghi otto palmi, più alta che non venne al tempo d’Alessandro, che fu allhor riputata inundation gran- dissima. Sono ite le barche sino a la piazza di Santo Apostolo, ed è arrivata dal can- to di qua l’acqua sin vicino alle scale di S. Pietro,

il Sanga si sofferma sui danni materiali subiti dalla città. Anche nella sua relazione, come in alcune citate per il ‘diluvio’ del 1495, la prima menzione è per la perdita delle derrate alimentari, in primo luogo il vino, nuovo e vecchio, e il grano « tanto che in un subito è quadruplicato di prezzo, né senza aiuto di Sicilia si può pensare a viver qui questo anno », quindi i danni materiali:

ha lasciato le strade et le case così deformate che è cosa spaventevole l’andar per Roma. [...]. Sono in diversi luoghi di Roma ruinate molte case debili, molte grandi

Dei Patris in ecclesia S. Augustini. 4° Simulacrum infantis Jesu per fulgur deiectum et numquam repertum. 5° Casus crucis de alto columnatu basilice sancti Petri. 6° Ablatio hostiae per ventum, consacratae de manu sacerdotis missam celebrantis in camposanto ». Il pontefice avrebbe aggiunto però – secondo il De Grassi – che « de his signis nil timendum circa turcas », perché gli erano da poco giunte alcune lettere che lo informavano dell’accordo concluso tra i principi cristiani « non solum ad obstandum turcis sed ad invadendos eos usque Costantinopolim » (cfr. PARIDE DE

GRASSIS, Il diario di Leone X dai volumi manoscritti degli Archivi vaticani della Santa Sede, a

cura di P. DELICATIe M. ARMELLINI, Roma 1984, p. 62), rassicurando così se stesso e il suo ceri-

moniere su uno dei pericoli incombenti in quel periodo.

47

Si prendano in considerazione, ad esempio, i numerosi fogli volanti con la descrizione di questo evento, pubblicati nello stesso anno in diverse città della Germania (cfr. G. HEL-

LMANN, Die Meteorologie in den deutschen Flugschriften und Flugblättern des 16. Jahrhun-

derts. Ein Beitrag zur Geschichte d. Meteorologie, Berlin 1921, p. 37).

48G

OMEZ, De prodigiosis Tyberis innundationibus cit. Su questa alluvione si vedano le te-

stimonianze riportate da M. CARCANI, Il Tevere e le sue inondazioni dall’origine di Roma ai

giorni nostri, Roma 1875, pp. 44-46.

49Per la lettera scritta dal Sanga al duca Alessandro de’ Medici in data 13 ottobre (pubblicata

stanno in puntelli, havendo l’acqua cavato sotto li fundamenti, va via tutta la ripa, dove venivano le barche in Trastevere50.

A sua volta Benvenuto Cellini – che allora aveva casa e bottega in Ban- chi presso Monte Giordano, ovvero in una zona non lontana dal fiume – ri- corda come, mentre l’acqua saliva a vista d’occhio, cercasse scampo scen- dendo « per le mie finestre di drieto » e, come scrive nella sua autobiografia, « il meglio ch’io potetti, passai per quelle acque, tanto che io mi condussi a Monte Cavallo », cioè al Quirinale e quindi in salvo su uno dei sette colli di Roma51.

Anche nella narrazione dell’anonimo autore del Diluvio di Roma, stampato a Bologna nel novembre 153052, un ampio spazio è dedicato ai segni premonitori dell’evento catastrofico, simili a quelli riscontrati nelle precedenti inondazioni: nascita di un mostro « che non haveva piedi né mani, né viso, occhio, naso [...] non era effigie d’huomo nè di bestia », eclisse di sole e di luna nello stesso giorno, profezie sinistre e premoni- trici di sante monache. La descrizione dell’evolversi del ‘diluvio’ e dei danni subiti da uomini e cose è dettagliata, con indicazioni quantitative puntigliosamente fornite per ogni ‘voce’ (alimenti, animali, case, mulini etc.), ma alle quali è difficile dare credito, visto lo stato di confusione in cui si viveva in città durante i giorni immediatamente seguenti il disastro in cui il nostro anonimo autore scriveva i suoi appunti e i suoi versi53.

50Anche Marcello Alberini nei suoi Ricordi è colpito in particolare dalla desolazione ur-

bana causata dalla rovina delle case, oltre che dal limo e detriti lasciati sulle strade dal riti- rarsi delle acque: « In questo anno 1530 ... el Tevere nostro fiume, come se ne vedeno in più lochi memorie per Roma, inundò la cittade et crebbero l’acque de tanta altezza quanto siano mai state, anzi molto più, et al decrescere et ritirarsi l’acqua fece danno a molte case di Ro- ma et alcune ruinorno, come si vede in strada Iulia quella di Giuseppe, che non ne apparisce più vestigio. Et ha lassato per tutte le strade et le case piene de limo et de malta » (cfr. MARCELLO ALBERINI, Il sacco di Roma. L’edizione Orano de I ricordi di Marcello Alberini, con Introduzione di P. Farenga, Roma 1997, pp. 390-391).

51Cfr. B

ENVENUTOCELLINI, Vita, a cura di E. Camesasca, Milano 1985, p. 219. 52Editore dell’opuscolo è Giovan Battista Phaelli. Cfr. A

NONIMO, Diluvio di Roma che fu

a VII d’Ottobre l’anno MDXXX col numero delle case roinate, delle robbe perdute, animali morti, uomini e donne affogate, con ordinata descrittione di parte in parte etc. Opuscolo

pubblicato in Bologna nel 1530, riprodotto ed illustrato con note da Benvenuto Gasparoni, Roma 1865. Un esemplare era in possesso del conte Baldassarre Boncompagni e fu pubblica- to « pagina a pagina e linea a linea, com’è nell’originale », dal Gasparoni. Questa operetta precede, quindi, quella del Gomez, prima citata, che fu stampata a Roma dal tipografo F. Minuzio Calvo nel 1531.

Costui, alla fine della sua narrazione, inserisce il raffronto tra i danni provocati dall’alluvione e quelli, di recentissima e ancor viva memoria, causati dal Sacco dei Lanzichenecchi del 1527, motivo questo che ritro- viamo in molte altre fonti relative a tale inondazione:

Questa roina senza comparatione alcuna è stata di più grave danno et ha più patito Roma in quattro giorni che è durata questa maledittione che non fece quando dal crudelissimo essercito di Borbone fu posta alli ventisei di maggio l’anno mille cin- quecento vintisette a fuoco e ferro,

scrive, sbagliando il giorno, l’anonimo. Gli fa eco il Sanga: « ad una città afflitta e consumata come questa (il diluvio) è parso un altro Sacco »; e potremo continuare con altre testimonianze, come quelle – ad esempio – del notaio Giovanni Maria Micinochi, del cerimoniere pontificio Biagio da Cesena, del poeta Luigi Alamanni54.

In conclusione, resta da segnalare come in occasione dell’alluvione del 1530 si fosse riattivato « quel sistema di paure, angosce e proiezioni millenaristiche esploso in tutta la sua grandiosità fin dalle prime terribili ricostruzioni del Sacco, e poi di volta in volta riemerso alla coscienza dei contemporanei in ogni successiva circostanza di catastrofe collettiva »55. Il Sacco del ’27, dunque, come efficace paradigma interpretativo, referen- te privilegiato di tutte le ‘ruine’ future della città Eterna, diluvi compresi.

54Cfr. l’Appendice curata dal Gasparoni, p. 27. Si tratta del poemetto in versi sciolti Il

diluvio romano (dedicato a Francesco I), in Opere toscane, I, Lione, Grifio 1532; cfr. anche

LUIGIALEMANNI, Versi e prose, a cura di P. Raffaelli, II, Firenze 1859, pp. 38-56. Quest’ope-

retta è stata oggetto d’indagine da parte di F. BAUSI, La nobilitazione di un genere popolare-

sco: il Diluvio romano di Luigi Alemanni, « Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance », 54

(1992), pp. 23-42.

55La citazione è tratta da G. P

ONSIGLIONE, Due ignoti documenti a stampa sulla “ruina” di

C B

GLI UMANISTI E L’ALLUVIONE

« O Arno, che scorri in mezzo alla fluentina urbs, Firenze, ti prego, ricorda i tempi passati. Tu sai, lamentandomi davanti alle tue correnti, per chi piangevo, cantando meste poesie »1. La stretta correlazione tra

le correnti impetuose del fiume e i sentimenti altrettanto tumultuosi del poeta è tema ricorrente, nella poesia come nelle rappresentazioni pittori- che. Tra queste ultime la correlazione tra le acque agitate e la violenza degli eventi è testimoniata – uno tra gli innumerevoli esempi – dalla ta- vola in legno di Antono del Pollaiuolo, conservata presso la Galleria de- gli Uffizi, dove sono rappresentati l’Arno che straripa dagli argini e le fi- gure di Hercules e Antaeus in piena e disperata lotta2. I 4 versi sopra citati costituiscono l’incipit del carme XXVII Ad cupidinem composto da Francesco Pucci. Francesco Pucci3, allievo di Poliziano4, si trovava a

1Traduzione libera dal componimento edito in M. S

ANTORO, Uno scolaro del Poliziano a

Napoli: Francesco Pucci, Napoli 1948, p. 130: « Arne, fluentissimam medius qui interfluis

urbem / tu, precor, illius temporis acta refer./ Nosti et enim cuius saepe ipse ad flumina moerens / Plangebam nostris consona plectra malis ». Vd. infra note 3 e 4.

2È una tempera grassa su tavola, assegnata al 1475 circa, di cm. 16 x 9. L’opera fu

commissionata da Piero de’ Medici, come ricorda lo stesso Antonio del Pollaiuolo in una let- tera del 13 luglio 1494 a Gentile Virginio Orsini nella quale faceva risalire a 30 anni prima la commissione di tre tavolette rappresentanti le fatiche di Ercole: cfr. Antonio e Pietro del

Pollaiolo. “Nell’argento e nell’oro in pittura e nel bronzo...”, a cura di A. De Lorenzo – A.

Galli, Milano 2014, pp. 192-193, nr. 12.

3Cfr. da ultimo, C. B

IANCA, Francesco Pucci a Napoli, « Rinascimento meridionale », 6

(2015), pp. 99-101.

4Cfr. C. C

Napoli dove era stato chiamato ad insegnare presso lo Studium già dal 1485, per poi divenire librero major della biblioteca aragonese di Ferran- te5: i ricordi, la lontanza, la nostalgia del passato si collegavano al fiu- me della città dove Pucci era nato, in una sorta di colloquio privilegiato con chi era stato il silenzioso testimone del proprio passato. A Firenze, la

fluentina urbs, come la definiva Pucci nel primo verso del carme, ricolle-

gandosi all’antica tradizione cittadina, che spiegava il nome Fiorenza co- me derivante da Fluentia, Francesco Pucci sarebbe voluto tornare, anzi era tornato ad insegnare per un anno, nascondendo al sovrano aragonese i motivi di quel viaggio. Ma proprio da Poliziano, con la pubblicazione dei primi Miscellanea6, egli aveva poi preso le distanze, per tuffarsi in pie- no a dialogare con gli amici napoletani, tutti poeti7.

Con altri occhi Angelo Poliziano si poneva di fronte all’Arno. A f. 9r dell’attuale manoscritto 2-627 della Biblioteca delle scienze di San Pie- troburgo8 – un manoscritto antico carico di storia, quell’Apicio che

Enoch d’Ascoli aveva portato dalla Germania per Niccolò V, e che poi era passato tra le mani di Bessarione, di Niccolò Perotti e di Francesco Maturanzio – Pier Matteo Uberti lasciava il ricordo di quanto era avve- nuto nella villa di Lorenzo de’ Medici il giovane, sulle rive dell’Arno (« apud Arni ripam »)9: insieme con Lorenzo Ciatti e con lo stesso Pier Matteo Uberti, suoi familiares, Poliziano aveva collazionato con estrema cura la trascrizione eseguita da Alfeno Severo con il codice antico, in un

Poliziano e dintorni. Percorsi di ricerca, a cura di C. Corfiati e M. De Nichilo, Bari 2011,

pp. 65-102.

5Cfr. T. D

E MARINIS, La biblioteca napoletana dei re d’Aragona, I, Milano 1952, pp.

186-187; M. MARTELLI, Lettere inedite di Francesco Pucci “Librero Major” nella Biblioteca

Aragonese, « La Bibliofilia », 65 (1963), pp. 225-237.

6Cfr. V. F

ERA, Il dibattito umanistico sui “Miscellanea”, in Agnolo Poliziano poeta

scrittore filologo. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Montepulciano, 3-6 novembre

1994), a cura di V. Fera e M. Martelli, Firenze 1998, pp. 333-364: pp. 352-357.

7Cfr. B

IANCA, Francesco Pucci cit., pp. 105-106. 8Cfr. I. M

AÏER, Les manuscrits d’Ange Politien. Catalogue descriptif, Genève 1965, pp.

348-349.

9Scriveva a f. 9r Pier Matteo Uberti: « Contulit hunc Politianus librum cum vetusto ipso

exemplari unde emanasse coetera putantur, quod e Germania avectum Enoch pontifici Nico- lao V dono dedit, indeque ad Bessarionem cardinalem Nicenum, mox ad Nicolaum Perottum episcopum Sipontinum, postremo ad Franciscum Maturantium pervenit. Eiusque Politiano fac- ta copia est Alfeni Severi Perusini opera. Sic autem pro instituto suo contulit Politianus ut nihil hic ab exemplari codex variet. XVII kal. Maias anno MCCCCLXXXX, hora ferme diei XXII, adiutoribus Laurentio Cyatho et Petro Matheo Uberto familiaribus suis in suburbano Laurentii Medicis iunioris ad Arni ripam » (ibidem, p. 349).

clima di serenità, alla fine dell’aprile del 149010. Ed aveva continuato a collazionare il codice di Apicio anche nel dicembre del 1493, durante la notte11. La febrile analisi dei classici, ricercati, collazionati, era divenuta, con il passare degli anni, l’unica strada che egli intendeva perseguire, ab- bandonando la poesia, anche in volgare, dei primi anni fiorentini. E pro- prio lavorando su Plinio, accanitamente letto e collazionato sui nuovi te- sti a stampa12, Poliziano era venuto a scardinare quella che unanimamen- te era considerata la fonte principale per la derivazione di Florentia da

Fluentia, e cioè il brano III 52 della Naturalis historia di Plinio: opera-

zione di alta filologia che si poneva di fatto contro la communis opinio anche dei suoi tempi. Infatti, in anni pressoché coevi, Vespasiano da Bi- sticci nel Proemio delle sue Vite, come è noto, ribadiva l’interpretazione comune – Fiorentia / Fluentia – rinviando espressamente a Plinio13. Ed anche Enea Silvio Piccolomini nei suoi Commentarii scriveva: « Floren- tia, olim Fluentia dicta a fluenti Arno qui eam interlabitur, Etruriae nunc caput est »14. Con questa espressione il Piccolomini, come del resto an- che per altre sue opere, rinviava in modo implicito a quanto Biondo Fla- vio aveva scritto per la regione Etruria, « regio notissima quod priscum semper servavit nomen »15, cioè la seconda delle regioni dell’Italia illu-

10Si veda la nota precedente.

11Nello stesso f. 9r il Poliziano scriveva: « Iterum contuli cum vetustissimo altero codice

de Urbinatis ducis Guidonis bibliotheca, signumque apposui 0 quotiens alicubi a prioribus va- riasset. Anno salutis MCCCCLXXXXIII, quarto nonas decembris, hora noctis tertia et 1/

2in

Pauli. Idem Politianus » (idem).

12

Cfr. V. FERA, Poliziano, Ermolao Barbaro e Plinio, in Una famiglia veneziana nella

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