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L’« ASINO CILLENICO DEL NOLANO» E LA CRISTOLOGIA DEL CUSANO

Si diceva che la radicalità dell’invettiva esula dall’intento riformatore. Ebbene, la struttura testuale rimanda infatti al terzo ed ultimo dialogo, di fatto inesistente, dove Saulino, pressoché solo sulla scena, conclude il confronto dialogico con l’assoggettamento all’ordine divino, per volere del quale non si avrà che una «Cabala parva, tironica, isagogica, microcosmica»83: il cavallo Pegaseo, non potendo più discendere sulla terra per incarnarsi in uomo, sarà costretto a lasciare spazio all’asino cillenico.

Ora, il problema è – commenta Ingegno – che se «il n’est pas difficile pour les hommes de se faire ânes», «l’échec de la philosophie traditionnelle montre qu’inversement il n’est plus possible aux ânes de se changer en hommes»: da qui il ricorso «à l’âne de Mercure, dont l’enseignement doit avoir la même caractère d’universalité que la doctrine du Christ»84. È, questo, quanto viene esplicitato fin dall’incipit del dialogo conclusivo posto in appendice dell’opera, ove l’eco rovesciato della preghiera di Circe del Cantus circeus85 si svolge nella richiesta di un asino che assume un carattere umano senza mutare aspetto. Noteremo con Ingegno che «maintenant que la philosophie ne soutient plus les illusions des chrétiens, une nouvelle incarnation est nécessaire» ma questa volta «ce n’est plus un homme qui se

83 Ivi, p. 475, cfr. inoltre p. 474: «perché qualmente veggio, l’ordine de l’universo vuole che, come questo cavallo divino nella celeste regione non si mostra se non sin all’umbilico (dove quella stella che v’è terminante, è messa in lite e questione se appartiene alla testa d’Andromeda o pur al tronco di questo egregio bruto), cossì analogicamente accade che questo cavallo descrittorio non possa venire a perfezione».

84 A. INGEGNO, Observations, cit., pp. 15-16, dove il motivo di una cabala incompiuta è ben spiegato: «Le cheval Pégase ne pourra plus descendre sur la terre et se faire homme: il n’y a plus de place pour la philosophie aristotélicienne dont l’unique effet, négatif, est d’avoir détruit le savoir divin et naturel, et qui désormais ne peut plus rien enseigner à ses lecteurs; quant à la philosophie sceptique, elle est parvenue à la conclusion que le savoir authentique se limite à connaître que les autres ne savent pas, que l’ignorance ne peut être transmise, qu’un âne ne peut enseigner à un autre âne».

85 Cfr. BRUNO, Cantus circeus, in Op. lat., cit., II, I; trad. it. di N. Tirinnanzi, Milano, BUR, 1997, p. 186.

transformera en bête pour se faire la victime d’un sacrifice, en se faisant passer pour homme et Dieu, mais la puissance absolue de la divinité (à laquelle Bruno fait appel chaque fois qu’il doit définir les traits de la nouvelle religion comprise comme lex, comme une croyance fausse mais utile) fera un âne qui soit aussi homme»86.

Ci troviamo dunque di fronte, e direttamente, all’evento di una nuova incarnazione; conferma del valore strategico quanto decisivo che la critica antitrinitaria assume per il Bruno sul piano filosofico. In effetti, da questa cuspide della speculazione nolana la questione della cristologia proietta la sua luce su tutta l’opera prodotta dal filosofo di Nola, rivelandosi asse ortogonale tanto dell’ermeneutica cogente all’appendice oggetto d’analisi che dell’intero piano di riforma morale (una riforma che, seppure resa centrale dallo Spaccio ai Furori, dimostra di innervarsi sul tronco dell’organicità della nova filosofia già a partire dai dialoghi cosmologici). Questa argomentazione, qui sottolineata in via preliminare, sembrerebbe così sollevare almeno due osservazioni: il discusso rapporto tematico dell’opera volgare e il valore non del tutto secondario del cartaccio spreggiato, pur così raramente considerato dagli studiosi bruniani. Eppure, detto questo, non ne discende in alcun modo per questa tesi la validità dell’interpretazione di Badaloni, secondo il quale la complessa tessitura della Cabala condenserebbe il vertice della metafisica nolana. Piuttosto, se colgo bene il pensiero fondamentale che si cela in tale ostentata e dissacrante esibizione satirica dei dogmi sostanziali del cristianesimo, ciò appare da un lato come l’eliminazione della premessa di quella regola morale data nello Spaccio al fine di rendere perfettamente visibile l’impossibilità di comprendere l’Uno se non nel divenire87, e dall’altro pare confermare al dialogo quel ruolo mediano, non solo cronologico ma più propriamente contenutistico, che in questo orizzonte pare dispiegato nell’urgenza di preparare il terreno al percorso di quella particolare

86 A. INGEGNO, Observations, cit., p. 16. Prosegue Ingegno: «et ce saveur risque, lui aussi, d’être rejeté par les hommes, lesquels, pour la deuxième fois, pourraient donc être inexcusables aux yeux des dieux». Cfr. Cabala, p. 482, ove così conclude l’asino cillenico: «O insensati, credete ch’io dica le mie raggioni a voi, acciò che me le facciate valide? Credete ch’io abbia fatto questo per altro fine che per accusarvi e rendervi inexcusabili avanti a Giove? Giove con avermi fatto dotto, mi fe’ dottore. Aspettavo ben io che dal bel giudicio della vostra sufficienza venesse sputata questa sentenza: – Non è convenevole che gli asini entrino in academia insieme con noi altri uomini –. Questo, se studioso di qualsivogli’altra setta lo può dire, non può essere raggionevolmente detto da voi altri Pitagorici, che con questo che negate a me l’entrata, struggete gli principii, fondamenti e corpo della vostra filosofia».

87 Indubbiamente, è conclusione condivisa che dal De la causa in poi il tema proiettato presiede allo svolgimento del rapporto tra Uno e molteplice. In tale senso quell’antinomia tra Spaccio e Cabala risolta da Ciliberto nella consunzione delle speranze nutrite nell’irenismo di stampo politique di Enrico III, può essere spiegata a partire dal seguente approccio: se nello Spaccio Bruno fornisce una regola morale e nella

Cabala la smentisce, questo è funzionale ai fili conduttori della teoresi dell’inaccessibilità all’Uno, del

quale, in fondo, è possibile dire il vero ed il falso, il tutto ed il nulla. Bisognerà inoltre osservare come le note implicazioni con la teologia negativa del Cusano si facciano qui assai tangibili.

unificazione con il divino che sarà portata all’atto da colui che nei Furori presenterà se stesso come il vero homo perfectus.

Ma ritorniamo al testo. La pregnanza della metafora va ricercata in questo caso fin dal sonetto introduttivo A l’asino cillenico, in cui i tratti fisici evocati rivelano, secondo la fisiognomica, intelletto e costanza:

[…] con sì felice ingegno e buona pelle. Mostra la testa tua buon naturale, come le nari quel giudicio sodo; l’orecchie lunghe un udito regale; le dense labbra, di gran gusto il modo; da far invidia a’ dèi, quel genitale; cervice tal, la constanza ch’io lodo88.

Gli stessi motivi della perfezione degli attributi riscontrati nel sonetto trovano poi larga corrispondenza nelle parole di Asino, che così risponde all’intemperanza di Micco:

Quanto poi all’altra parte principale fisiognomica, che consiste non nella complession di temperamenti, ma nell’armonica proporzion de membri, vi notifico non esser possibile de ritrovar in me defetto alcuno, quando sarà ben giudicato. Sapete ch’il porco non deve esser bel cavallo, né l’asino bell’uomo; ma l’asino bell’asino, il porco bel porco, l’uomo bell’uomo […]. Sì che quanto a questa legge, allor che le cose sarranno examinate e bilanciate con la raggione, l’uno concederà a l’altro secondo le proprie affezioni, che le bellezze son diverse secondo diverse proporzionabilitadi; e nulla è veramente ed absolutamente bello, se non uno che è l’istessa bellezza, o il per essenza bello e non per participazione89.

Il risultato è una descrizione esaustiva dell’animale che permette di cogliere l’allusione alle sembianze perfette del Cristo, homo perfectus per antonomasia. A livello

88 Cabala, p. 476.

89 Ivi, p. 481. Si noti fin d’ora l’ulteriore suggestione con N. CUSANO, De docta ignorantia, in Opere

filosofiche, a cura di G. FEDERICI VESCOVINI, Torino, UTET, 1972, p. 149 (d’ora in poi solo Docta ignorantia, le altre edizioni saranno segnalate in nota): «l’uomo, infatti, non desidera una natura diversa,

ma solamente di essere perfetto nella sua». Che poi tale affermazione presieda al tentativo di ristabilire la

dignitas dell’uomo solo nel momento in cui l’esclusività della natura umana nel suo parallelismo con il

cosmo la rende unica sede dell’unione ipostatica tra Dio e creatura, e che tale sforzo si riveli infine fallace, è esattamente il compito che il Bruno nella Cabala intende ottemperare. Per gli sviluppi di tale tematica cfr. infra, p. 78 e seg.

parodico qui Bruno sembra chiamare in causa almeno il terzo libro del De docta ignorantia del Cusano ove il Cristo si fa mediatore, proprio in virtù della sua esclusiva perfezione, della altrimenti irriducibile distanza che intercorre tra Dio, massimo assoluto, e l’universo, massimo contratto.

Certamente il richiamo univoco al Cristo del Cusano può apparire riduttivo, rischiando così di perdere di vista quelli che sono i capisaldi della secolare disamina sul temperamento perfetto che da Galeno, passando per Avicenna e Averroè, giungono fino ed oltre Cardano, sollecitato a sua volta dalle letture di Pietro d’Abano, così come non furono indifferenti alla questione tanto un Pomponazzi quanto un Campanella o un Juan Huarte de San Juan90.

Eppure, gli argini della discussione teologica entro i quali Bruno mostra di doversi quasi sempre confrontare si rivelano proprio quelli del Cardinale da Cues che, nonostante la riforma antropologica e metafisico-cosmologica sposata ed amplificata dal Nolano, risolve la questione dell’Incarnazione ammettendone la possibilità solo per un atto della divinità, la cui onnipotenza è irriducibile garanzia dell’esistenza di quell’unico uomo perfetto nell’intelletto e nel corpo al quale si accorda la mediazione cosmica della coincidenza tra massimo contratto e massimo assoluto perché esso stesso al medesimo tempo assoluto e contratto, Dio e creatura91.

Si ricorderà inoltre che fin dall’inizio della nostra indagine il soggetto della Cabala preannunciava di collocarsi tra i due estremi della parodia all’antropologia pichiana da un lato e quella al Cristo (attraverso l’eco della costellazione dell’Eridano) dall’altro: il legame dapprima solo intravisto tra l’uomo Proteo ed il Cristo, entrambi audacemente celati nelle sembianze asinine, sembrerebbe così trovare nella logica della metamorfosi della speculazione del Cusano il suo senso compiuto, tanto che in conclusione dell’opera il cerchio sembrerebbe chiudersi nel momento della risoluzione. Vedremo come riproponendo l’ancipite parodia dell’Oratio pichiana nella Cabala e del Cristo del

90 Cfr. per un quadro più esaustivo A. INGEGNO, Cardano e Bruno. Altri spunti per una storia dell’uomo

perfetto, in La diffusione del copernicanesimo in Italia, Firenze, Olschki, 2007, pp. 203-219, in particolare 203-

204.

91 Cfr. H. BLUMENBERG, Die Legitimität der Neuzeit, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1966; ed. di rif. in trad. it., La legittimità dell’età moderna, Genova, Marietti, 1992, p. 585: «la cristologia è indispensabile per mettere in rilievo la differenza epocale tra il Cusano e il Nolano». Cfr. inoltre Cabala, p. 484, dove si fa chiaro che anche nel caso dell’asino cillenico è solo per l’intervento della divinità, il decreto di Mercurio, che Asino potrà «entrar ed abitar per tutto» senza impedimento alcuno. Asino facendosi tutto, tutto dominerà, ma questo solo fino a quando interverranno nuove cause. In questa sede l’interrogativo che ci interessa è esattamente la comprensione delle nuove cause, che potrebbero verosimilmente coincidere con l’avvento del paradiso in terra ad opera del furioso, che, non più ironicamente come Asino, ma veramente, si proporrà antitetico al Cristo.

Cusano nell’Asino cillenico, Bruno avesse inteso innescare la disfatta totale del cristianesimo, che dopo essere stato civilmente purificato nello Spaccio e dopo essere stato definitivamente corroso sul piano gnoseologico nella Cabala, verrà infine sostituito negli Eroici furori dall’unica vera mediazione possibile, quella attuata dall’homo perfectus inteso ora come il filosofo eroico; una riforma resa concretizzabile dalla traslazione della mediazione cosmica propria del Cristo all’interno del creato grazie alla teorizzazione della materia infinita realizzata dal Nolano fin dai dialoghi cosmologici.

Il tema della duplice parodia costituisce dunque un importante elemento di riflessione: si tratta cioè della necessità di sgretolare tanto l’antropologia pichiana quanto la cristologia cusaniana per consentire all’uomo di farsi unico e possibile mediatore cosmico, secondo una modalità che doveva sapersi confrontare ora con la definitiva corrosione delle antiche e immaginose muraglie che costringevano la creatura umana entro un altrettanto immaginario sistema finito e gerarchico. Si ricordino a tal proposito le celeberrime parole poste in apertura della Cena:

Or ecco quello, ch’ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo, fatte svanir le fantastiche muraglia de le prime, ottave, none, decime ed altre, che vi s’avesser potuto aggiongere, sfere, per relazione de vani matematici e cieco veder di filosofi volgari; […]. Non è più impriggionata la nostra raggione coi ceppi de’ fantastici mobili e motori otto, nove e diece. Conoscemo, che non è ch’un cielo, un’eterea reggione immensa, […]. Cossì siamo promossi a scuoprire l’infinito effetto dell’infinita causa, il vero e vivo vestigio de l’infinito vigore; ed abbiamo dottrina di non cercar la divinità rimossa da noi, se l’abbiamo appresso, anzi di dentro, più che noi medesmi siamo dentro a noi92.

Si è citato a lungo, ma il testo è importante. E il sapore lucreziano di cui è intriso, al di là di essere un mero espediente letterario, condensa come in un manifesto programmatico l’intero disegno della nova filosofia, costellata di elementi di raccordo e di nessi significanti disseminati lungo la prospettiva teorica di tutta l’opera volgare.

Dovessimo fare a meno di un’opera del Bruno, questa sarebbe probabilmente il cartaccio spreggiato, oscuro, rinnegato e così difficilmente conciliabile con il ciclo dei restanti dialoghi italiani. Eppure, il tentativo di ricostruire attraverso il censimento di passi d’ispirazione pichiana e cusaniana lo spazio simbolico che l’autore nell’apparato

prefatorio delega al lettore, mi sembra possa aver aperto un percorso di ricerca capace di fornire altri elementi utili a confermare l’unità dell’opera italiana, e questo a fronte dell’odierna tendenza a leggervi mutamenti di pensiero.

La discussione sul tema dell’homo perfectus, che merita di essere approfondita – come si tenterà di fare nelle pagine che seguono – possiede in questo contesto un suo interesse anche perché, come ancora evidenzia altrove Ingegno, «soltanto sulla base di questa contemplazione sarà possibile fare proprie le parole di Ermete Trismegisto e chiamare l’uomo magnum miraculum. Parole che non definiscono dunque la condizione umana in quanto tale ma una condizione del tutto particolare»93. Sebbene anche il Pico, attraverso il richiamo alla Kabbalah, si fosse reso promotore di una dottrina segreta che rafforzava in ultima istanza la separazione tra dotti e indotti nella comprensione di senso del testo sacro, il metodo proposto di una Scrittura depositaria fin dall’origine delle verità supreme e misteriche ad un livello superiore di quello filosofico, per quanto elitario, differiva profondamente dall’intenzione bruniana tanto nel contenuto quanto negli strumenti per penetrarlo: nella nova filosofia non solo veniva a cadere la discussione intorno alla cosmologia tradizionale e alla relativa modalità di intendere la finalità cosmica dell’uomo, ma si imponeva, e proprio in conseguenza di questo, un nuovo modo di concepire il processo gnoseologico, che, seppur ancora aristocratico, non era più possibile far coincidere con la verità religiosa tradizionale, di cui la ragione filosofica si rivelava nella sua convergenza solo ulteriore prova. Ma, come vedremo meglio in seguito, Pico si era soprattutto sbagliato nella sua innovativa e celeberrima definizione ontologica dell’uomo: il Mirandolano, irretito – al pari degli altri asini-ciechi – nelle maglie del fascinoso sincretismo cabalistico, fu colpevole, almeno tanto quanto Aristotele, gli Accademici e San Paolo, di aver ottemperato al trionfo dell’asinità. Le antropologie dei due autori si rivelano infatti assai divergenti per un tema centrale, asse ortogonale della nova filosofia, la modalità dell’ostensione esplicita dell’optima temperies nella realtà. Le indicazioni che si devono trarre dal testo bruniano sono chiare: come nei Furori – opera coeva alla Cabala – il sursum corda, in evidente polemica con l’elevazione universale espressa dalla formula intonata prima della consacrazione eucaristica, «non è intonato a tutti, ma a quelli ch’hanno l’ali»94, allo stesso modo è da intendersi il contrappunto, non scevro di una sottile rivalsa, rispetto a quel

93 A. INGEGNO, Cardano e Bruno, cit., p. 210. 94 Furori, p. 687.

fraintendimento delle antiche parole ermetiche da parte di colui che, in un’ottica assai diversa da quella cui noi siamo abituati, mostrò di scandire il definitivo asservimento della filosofia al giudeo-cristianesimo.

II

TRASCENDERE IL LIMITE

Si è più sopra osservato come il secondo dialogo morale assuma le caratteristiche di una satira, proponendosi, all’interno di un ordito denso di allusioni e riecheggiamenti, anche come trascrizione parodica dell’Oratio de hominis dignitate. Si è visto come la scelta dei temi dispiegati permetta a Bruno di costruire frequenti evocazioni, più o meno esplicite, che risultano fondamentali nell’interpretazione delle immagini, delle metafore e delle analogie disseminate lungo la trama del testo. Spostandosi sul piano contenutistico, è stata rilevata la scansione del riconoscimento del trionfo dell’ignoranza e della pazzia nel mondo umano; ignoranza e pazzia che, nate sotto il segno di una comune origine giudeo-cristiana dell’errore, degenerano nel fallimento della filosofia, irretita nelle maglie dell’aristotelismo e dello scetticismo. Su questa base, tale trionfo finisce per articolarsi in un rapporto privilegiato di dipendenza dal dettato pichiano, assurto ironicamente ad emblema della dilagante asinità e dell’asservimento della filosofia alla teologia.

Ora, un primo indizio sulle cause di tale scelta parodica può esserci fornito dall’individuazione di quell’atteggiamento che S. Ricci giudica ‘intempestivo’, «stante sia la situazione degli ebrei e lo stato delle relazioni tra Chiesa ed ebraismo nel periodo in cui Bruno scrive, sia la condizione ebraica in Inghilterra, dove Bruno risiede, sia l’interesse larghissimo che cabala ed ebraismo in generale riscuotevano allora presso gli intellettuali cristiani, sia la fortuna e l’importanza che le ‘lettere ebraiche’ e la letteratura cabalistica avevano conosciuto nell’ordine domenicano al quale Bruno apparteneva»95. Innanzitutto, a conferma di tale ‘intempestività’ (da intendersi come consapevole opposizione alle imperversanti tendenze della sua epoca), non sarà irrilevante osservare

che il 1585, anno di pubblicazione della Cabala, coincise con l’elezione di Sisto V, artefice di una politica assai accondiscendente nei confronti dell’ebraismo al fine di rimpinguare lo stato delle casse pontificie. Bisognerà poi ammettere con Ricci che la cabala cristiana inaugurata dal nobile Pico ebbe nel contesto della cultura occidentale un’amplissima valenza, accrescendo la propria influenza giustappunto nel Cinquecento. Non ci interessa, in questa sede, dilungarci sulla questione della fortuna della cabala96: sarà sufficiente ricordare, per avere un’idea proporzionata di quale sia la vivacità dell’amalgama di dottrine imperniate sulla Kabbalah cristianizzata all’epoca della Riforma, il De arte cabalistica di Reuchlin, pubblicato nel 1517, anno in cui Lutero affisse le novantacinque tesi sulla porta della chiesa di Wittenberg. Il maestro del Rinascimento tedesco, nel quale la Yates ravvisò il punto culminante del programma culturale del mirandus iuvenis nonché del forte influsso che questo ebbe sulla vita religiosa del XVI secolo, fu discepolo di Pico. Inutile osservare che a partire dal movimento inaugurato dalla cerchia laurenziana in cui il conte di Concordia assunse il ruolo di «pioniere della graduale integrazione delle influenze ebraiche moderne nella cultura europea»97, l’intreccio tra il nucleo cabalistico e il neoplatonismo rinascimentale proseguì con particolare veemenza in Italia, anche e soprattutto ad opera degli esponenti della riforma religiosa, tra i quali emersero il frate francescano Francesco Giorgi e il cardinale Egidio da Viterbo: il De harmonia mundi (1525), riverberando l’esito degli apporti pichiani – ora accresciuti dal fiorire degli studi ebraici nella tollerante

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