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Aspettualità ed esemplificazione

Esperienza estetica, stile e stile di vita.

1. Aspettualità ed esemplificazione

Gérard Genette, all’entrata “Style” del suo ultimo libro, Codicille1, riviene a uno dei suoi autori preferiti, ovviamente Proust. Questa ripresa è a più titoli significativa, ma vale la pena di accennare che già il titolo peritestuale del volume genettiano, certo vezzosamen­ te, dichiara il suo statuto parergonale e supplementare, il suo esser commento o ricominciamento di un libro o ipotesto precedente. Nel caso specifico, si tratta di Bardadrac, del 2006, che già, quanto a lui, si affermava per la sua eccentricità di genere, essendo pubblica­ to nella collana “Fictions & cie” e presentandosi come una sorta di abbecedario o di lista idiosincratica, con riflessioni e rêveries, riesami e riepiloghi di strumentazioni critiche e riformulazioni di stereotipi culturali, p.es. di medialetti, o idioletti mediali, e così via.

Mi preme dire, di questi due libri inclassificabili e delle poche pa­ gine che m’interessano per affrontare qualche elemento del rappor­ to tra carattere e stile, che tutto un regime di storicità è qui implici­ to. Voglio cioè subito richiamare l’evidenza che una storicità, assai complessa e sfaccettata, è implicata sia nell’analisi dello stile che nel suo oggetto: insomma, sia la definizione o il discorso che Genette fa sullo stile, sia lo stile in quanto tale, sono storici. E questo non

1. G. Genette, Codicille, Seuil, Paris 2009, pp. 287–292. Cfr. H. Maurel–Indart, Le

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perché, da una parte e quasi banalmente, Genette dice cose sensi­ bilmente diverse dai suoi lavori precedenti, o perché, ben più sottil­ mente, le liste, nelle loro quasi infinite funzioni e fattezze, come ha mostrato con finezza recentemente Bernard Sève2, non si riferiscono mai al presente esistenziale o discorsivo della loro produzione, ma, al contrario, sempre o al passato o al futuro, magari con l’intenzione e l’aspirazione, più o meno performativa e, finalmente, magica, di cambiarli, di governarli, di crearli. Piuttosto, si tratta di puntare il dito sulla storicità inerente sia alla produzione che alla manifestazio­ ne di uno stile, che alla sua fruizione e ricezione, estetica e critica, sensibile e discorsiva.

È appunto quanto fa Genette, allorquando sottolinea, commen­ tando un passaggio delle note di Proust sulla letteratura e la critica, pubblicate postume nel Contre Sainte–Beuve, il nesso tra la storicità e la percepibilità come condizione di possibilità di quanto fa di uno stile uno stile, e di quanto possa fare uno stile. Insomma: non ci sa­ rebbe stile, se non ci fosse una qualche evidenza o emergenza, una qualche sopravvenienza, seppur minima ed effimera, di una qualche proprietà o qualità estetica per un soggetto e i suoi sensi, per la sua sensibilità e sensorialità. Qualcuno, in una qualche vaghezza perfino quasi–immateriale come un’“aria” o un’“atmosfera”, come un non– so illocabilizzabile e auratico, deve pur avvertire, insomma, sentire e riconoscere un tratto d’una qualche individualità, particolarità o specificità, per poi regolarvi, per differenza, le sue attitudini e con­ dotte emotive e cognitive, le sue abitudini sensibili e intellettuali più o meno soddisfacenti, per goderne o patirle, per imitarle, emularle, valutarle bene o male, e così via, insomma per riconfigurare la pro­ pria esperienza. Se Proust non distinguesse, cioè, sottolinea Genette3 e noi con lui, se non percepisse «l’air de la chanson» propria a ciascun autore «sous les paroles» di un suo testo, non potrebbe esserci, per dirla con Wittgenstein4, «un pensiero che echeggia nel [suo] vedere». Se non ci fosse un apparire improvviso, discreto e discontinuo, di un

2. B. Sève, De haut en bas. Philosophie des listes, Seuil, Paris 2010. 3. G. Genette, Codicille, cit., p. 287.

aspetto rispetto un continuum sensorio, non ci sarebbe, insomma, al­ cun elemento di stile, riconoscibile e identificabile, immediatamente o meno, non si darebbe p.es. alcuna somiglianza, non si esibirebbe alcuna esemplarità, e, fondamentalmente, non ci sarebbe nessuna relazione di sensatezza, sia essa estetica, artistica, storico–critica, e così via.

Tra queste relazioni ci sono, beninteso, anche il pastiche e la pa­ rodia, di cui, in realtà, Proust dà qui, com’è noto, una definizione dissimulata e metaforica. Forma espressiva e, appunto, stile di se­ condo grado, il pastiche consiste a prendere in prestito uno stile da un dato precedente — da un ipotesto individuale o collettivo, non solo strettamente testuale ma generalmente espressivo, gestuale o pragmatico come è una visione del mondo o una forma di vita, sia essa di un autore, di una scuola, di un genere, di un’epoca, di una comunità etc. E tale dato anteriore è assunto per imitazione in un artefatto, di nuovo non necessariamente un testo ma latu sensu un fatto espressivo, che è prodotto al fine, però, non dell’identificazione e della reductio ad unum del diverso, ma della differenziazione e della soggettivizzazione. L’originalità, così esibisce per simulazione e dis­ simulazione il pastiche, è per vocazione differenziale, processuale e tardiva, e lo stile è per natura artificiale, vicario e secondo e, perciò, unico — condizione necessaria ma non sufficiente di stile è che una cosa può esprimere solo le proprietà che le appartengono, ma non originariamente, e neppure per la loro natura materiale.

Per essere tale, sembra dunque che uno stile deve essere insieme esemplare ed esemplificativo, espressivo e impressivo. Sembra cioè che una qualche qualità, sia interna che esterna (ammesso e non concesso, come non credo sia, che si possa qui distinguerle di diritto e non solo di fatto, come per forma e contenuto, o struttura), sem­ bra che una qualche proprietà, per essere stilistica, deve comunque consistere e sussistere in una qualche manifestatività e aspettualità — ripeto: pur parziale, fugace e minima —, e, beninteso, non in sé e per sé ma per qualcuno. Sembra, insomma, che solo a partire da un qualche vincolo sensibile, pur instabile, confuso e opaco, un arte­ fatto o un fatto espressivo può essere ed esistere come opera o at­ mosfera, come atto o gesto singolare; sembra che solo se vincolati a

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una qualche percepibilità, pur aleatoria, ambigua e amorfa, un’ope­ ra, un’atmosfera, un atto o un gesto possono compiersi e realizzare ciò che sono e ciò che fanno.

Se nulla ci costringe ad attenerci a una definizione ristretta del­ lo stile, limitata ai manufatti e ai prodotti artistici e alle istituzioni del mondo dell’arte, sembra però indispensabile all’esistenza e allo statuto di ciò che chiamiamo “stile”, una pur minima manifestati­ vità di alcune sue proprietà. Affinché si dia un’esperienza di ciò che si dice “stile”, sembra poi necessaria una pur ellittica simbolicità o metaforicità di tali qualità. Mi riferisco al senso che, con le debite differenze — qui trascurabili —, Nelson Goodman5 e Arthur Danto6 danno a questi termini. Uno stile, ammettiamo: di un’alba o di un momento qualsiasi, o di un edificio, un supermercato o un aero­ porto, di questo o quel sito in questa o quell’occasione, per esser tale deve riferirsi a qualcosa di caratteristico, significativo, pertinen­ te o notevole, deve esemplificare, cioè, una o più proprietà degne di attenzione e apprezzamento, finalmente di valutazione e giudi­ zio, non necessariamente, ripeto, solo estetico o storico–critico, ma anche, mettiamo, empatico, affettivo ed esistenziale, e, in generale, esperienzale7. Sembra, in definitiva, che una fenomenologia e una teoria dell’esemplificazione sono utili e forse indispensabili per una definizione elementare dello stile.

Sembra, cioè, che si percepisce lo stile di un artefatto o di un fat­ to espressivo a prescindere dalle competenze utili ad analizzare e classificarne le proprietà strettamente predicabili come stilistiche e a specificare le condizioni necessarie e sufficienti della loro presenza

per qualcuno. Significa questo, mi domando sin da ora anticipando quanto discuterò poi, che non è necessario postulare o immaginare che l’essere “arte” o “stile” di qualcosa comporti necessariamente

5. N. Goodman, I linguaggi dell’arte (19762), Il saggiatore, Milano 1976, pp. 53–7; Id;,

Vedere e costruire il mondo (1978), Laterza, Roma–Bari 1988, pp. 27–47.

6. A. Danto, La trasfigurazione del banale (1981), Laterza, Roma–Bari 2008, pp. 200–254.

7. Sull’estetica come filosofia dell’esperienza, insiste da ultimo P. D’Angelo, Esteti-

una differenza o una trasgressione visiva e, in generale, percettiva, considerevole e apprezzabile, nei confronti dell’habitus quotidiano o di un ethos comune, insomma di quello che si chiama uno “stile di vita” condiviso, di una comunità o di un’epoca?

Per ora, diremo che proprio l’insorgenza e la pregnanza aspettuale di alcune qualità, la sorpresa percettiva per la loro esibizione sensibile, quando questo accade — perché, per dirla ancora con Wittgenstein8, «vedere è uno stato», non una scelta —, ingaggia un dispendioso lavoro di rettifica, aggiustamento, negoziazione. Inizia, allora, una lussuosa fatica estesiologica del senso, un impegno non–eterodiretto alla sensatezza, necessario a fare della sorpresa dei sensi una scoper­ ta estetica mai definitiva, a riconfigurare la fattualità dell’incontro sensibile in possibilità e disponibilità a una costruzione condivisa di significati. È così che si sottrae l’esemplificazione alla denotazione o alla rappresentazione, e, finalmente, si avvia una comprensione del cambiamento aspettuale (pur minimo e repentino, perfino fallace) smarcata dall’interpretazione come riconoscimento del già noto.

(Si sarà riconosciuto qui un tono valériano: penso, infatti, al ruolo dell’eccitante nell’infinito estetico.)

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