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Attore e personaggio

Nel documento Prefazione (pagine 96-116)

97 Attore e personaggio Il cammino che porta dal personaggio all’attore talvolta è invertito. Molti film sono scritti per alcuni attori o attorno ad essi, e questo a parti-

re da un’immagine, da un desiderio o più prosaicamente da una strategia commerciale. A volte intervengono in corso d’opera criteri di ordine ge- ografico, culturale o economico. Nell’India del 1966, ad esempio, Satyajit Ray non avrebbe potuto girare Il lamento sul sentiero senza l’attore Devi

Chunibala, in quanto limitatissima era la disponibilità di interpreti mag- giori di quarant’anni. Ray concepì molti film su misura dei grandi attori indiani, ma abbandonò anche molti progetti per l’impossibilità di trovare gli interpreti adeguati1.

Una volta che il film è uscito, la promozione pubblicitaria ingigantisce nuovamente il divario che separa l’attore dal personaggio, collocando il primo nel mondo del reale, il secondo in quello della finzione. Nelle inter- viste, il primo parla del secondo in terza persona, come se il personaggio fosse lui stesso e al contempo un’altra persona. I servizi fotografici fan- no pendere l’ago della bilancia dalla parte dell’attore. Il personaggio resta chiuso, in quanto stadio passato ed esaurito di un corpo già partito verso nuove avventure.

Remake e serie

La nozione di ruolo è precaria nel cinema, e soprattutto è sprovvista di stabilità: necessita che il personaggio sia incarnato da un corpo attoriale. Mentre a teatro il ruolo non è mai un involucro vuoto, al cinema esso non costituisce una mediazione tra attore e personaggio. Al contrario si cancel- la, si dissolve nella coincidenza perfetta tra il pensiero di un personaggio e il corpo che gli dà forma. Per Erwin Panofsky il personaggio filmico «vive e muore con l’attore».

Al di fuori dei corpi di Greta Garbo e Charles Laughton, Enrico VIII e Anna Karenina non esistono, o meglio sono delle «silhouette vuote e in- corporee come le ombre dell’Ade, capaci di assumere un aspetto realistico solo se irrigate dal sangue di un attore»2.

Che il personaggio sia fittizio o storico non importa. La successione

1 Ray Satyajit, Ecrits sur le cinéma, Ramsay Poche Cinéma, Paris, 1985. 2 E. Panofsky, op. cit., p. 58.

delle incarnazioni, nel remake o nell’adattamento, rivitalizzano questo per-

sonaggio, permettendo all’attore - proprio come avviene a teatro - di in- serirsi nella catena degli interpreti, coltivando la distanza che separa un’in- carnazione dall’altra.

Le tre Madame Bovary più conosciute, ovvero Valentine Tessier (Renoir), Jennifer Jones (Minnelli) e Isabelle Huppert (Chabrol), rappresentano delle tipologie di casting lontanissime tra loro. Nel remake, l’interpretazione prece- dente funziona spesso come anti-modello, pronto per essere cancellato dalla nuova versione. Più il film si allontana dal modello letterario, più il personag- gio e la recitazione diventano autonomi, come si può vedere in Salva e custodisci

(Sokurov, 1989) e La valle del peccato (De Oliveira, 1993).

La dialettica prossimità/distanza è meno significativa quando si tratta di ana- lizzare differenti interpretazioni di un personaggio storico. In questo caso i film delineano una figura a tutto tondo del personaggio senza cercare un confronto reciproco. Di Giovanna d’Arco, ad esempio, il cinema offre una successione di volti femminili dai capelli corti, gli occhi grandi e lo sguardo alzato verso il cielo. Il volto è rispettivamente nudo e rude per Renée Falco- netti (Dreyer), liscio e lontano per Ingrid Bergman (Victor Fleming), smarrito per Jean Seberg (Preminger), energico per Florence Delay (Bresson), Sandrine Bonnaire (Rivette) o Milla Jovovich (Besson).

In generale, comunque, la distanza tra ruolo e personaggio filmico è qualcosa di molto variabile. Il concetto di ruolo è attivo nella serie che, dall’antico serial ai moderni sequel, è contrassegnata da personaggi ricor- renti. Confondendosi però con il tipo o lo stereotipo, questo concetto riguarda solo una minima parte delle caratterizzazioni trasferibili da un film all’altro, un insieme schematico di tratti distintivi come la fisicità e il trucco o di attitudini come l’elocuzione e la psicologia. Questi tratti si ma- nifestano in ogni racconto all’interno di contesti narrativi simili ma distin- ti. Ciò accade anche nel film di genere, dove il personaggio mantiene dei caratteri stabili. Al detective del noir, Humphrey Bogart (Il grande sonno),

Robert Mitchum (Le catene della colpa) o Dana Andrews (Vertigine) impon-

gono variazioni di statura, gestualità e dizione che però non rimettono in discussione l’archetipo. Al contrario, quando le serie e i generi evolvono, la recitazione è uno dei vettori della trasformazione: se il film gioca libe- ramente con i codici l’attore ha più facilità nel portare qualcosa di perso- nale alla costruzione del personaggio. Jack Nicholson, ad esempio, riscrive e rinnova considerabilmente la partitura del detective in Chinatown, mentre

99 Attore e personaggio Uma Thurman in Pulp fiction occupa solo in modo aleatorio la funzione

estetica e attanziale del ruolo della vamp.

Più il budget e l’ambizione dell’attore sono modesti, meno forte sarà la distanza tra attore e personaggio. Se il cinema d’autore funziona come un genere, uno dei criteri di questo genere sarà la non-interscambiabilità dei ruoli, giustificata dall’estrema prossimità tra attore e personaggio. Di fronte all’idea, così diffusa, che l’attore non sia importante nel cinema d’autore, è opportuno ricordare che molti soggetti sono stati ispirati da attrici o attori. Si pensi ad esempio a Ingmar Bergman. Nel 1966 è mala- to, annulla le riprese di un film e improvvisamente comincia la scrittura di Persona, semplicemente perché ha visto un raggio di luce su una foto

di Liv Ullman e Bibi Andersson. Dal canto suo Jean Eustache destina il ruolo principale de La maman et la putain a Jean-Pierre Léaud e, a quanto è

dato di sapere, non avrebbe nemmeno scritto il soggetto del film senza il consenso dell’attore.

La maggior parte dei personaggi di Léaud sono tagliati a sua misura, a tal pun- to che nel cinema contemporaneo è diventato uso comune utilizzarlo come un oggetto di culto. Inserire Léaud in un film - la sua voce acuta e il suo parlare a scatti, il suo sguardo allucinato, le sue malinconie e i movimenti del capo che ne agitano il ciuffo nero - significa ingaggiare molto più di un attore e nella fattispecie l’alter-ego di Truffaut. Léaud è il solo attore francese che ha potuto entrare e uscire da un personaggio in diverse epoche della sua vita per vivere la storia, fatta di numerose eclissi, di Antoine Doinel. In questo senso Aki Kaurismäki (Vita da bohème, 1992), Danièle Dubroux (Journal du séducteur,

1996), Olivier Assayas (Irma Vep, 1996) e Lucas Belvaux (Per scherzo!, 1996)

hanno dimostrato fede in una certa estetica e impegno cinefilo.

In Le pornographe (Bonello, 2001), Léaud è un regista pornografico degli anni

settanta, evocati come anni dorati. Di fatto la presenza di Léaud simboleggia sempre un’età dell’oro cinematografica, indipendentemente dalla qualità di questo “oro”.

Disfatta dei miti

Le serie che mettono in scena delle figure mitiche rivitalizzano il con- cetto di ruolo cinematografico. Nella lunga serie delle avventure di Tarzan, ad esempio, Greystoke. La leggenda di Tarzan signore delle scimmie (Hugh Hud-

cui ispirazione era stata tradita nel passaggio da un adattamento all’altro. Si trattava allora di rigenerare il mito. Dal punto di vista strettamente este- tico, inoltre, bisognava ridare vigore a una figura afflosciata dalla continua ripetizione visiva.

Tra tutte le misure intraprese da Hudson per distruggere le convenzioni dei film precedenti spicca la recitazione di Christophe Lambert, e in particolare la minuzia dell’attore nel costruire una gestualità metà umana e metà animale. Il suo corpo lungo e magro, dai muscoli definiti, si piega nella posizione tipica della scimmia per poi lanciarsi in balzi felini. I progressi del personaggio nel percorso di civilizzazione sono evidenziati, dal punto di vista plastico, tramite un raddrizzamento progressivo del corpo che sfocia in una definitiva postura verticale, simbolo di un’umanità ritrovata.

A vent’anni di distanza, questa performance appare tanto convenzio- nale quanto quella dei Tarzan precedenti. Nonostante ciò il corpo di Lam- bert, il suo modo di muoversi e la fisicità del suo rapporto con la natura fissano quelle nuove norme attraverso cui Greystoke cerca di rinnovare il

mito. Per Lambert, invece, è l’inizio di una carriera nata morta, limitata quasi esclusivamente a Subway e al primo Highlander. La colpa di ciò è do-

vuta allo statuto effimero tipico delle star degli anni ottanta.

Il caso Greystoke mostra soprattutto che la disfatta di un mito non può

coincidere con la vittoria di un attore, che l’assassinio simbolico di una gran- de figura dell’immaginario non porta nessuna aura e che, nel trattamento ci- nematografico di un mito, la relazione tra attore e personaggio deve restare sempre instabile, dinamica, aperta alle interpretazioni che verranno.

L’attore-personaggio

L’inevitabile pienezza

La relazione attore-personaggio pone questioni molto diverse tra loro all’interno del testo filmico. Il cinema, come ha scritto Francis Vanoye, «è un’arte più democratica della letteratura, in quanto distribuisce a tutti i personaggi un corpo»3.

101 Attore e personaggio Il romanzo può permettersi di sfumare all’infinito le modalità dell’ap- parizione: un semplice nome, un cognome, una forma, una voce, una mac- chia di colore. Il personaggio letterario è un segno vuoto che si riempie poco a poco mediante un’accumulazione di determinazioni che terminerà solo nell’ultima pagina del libro.

Il personaggio filmico, al contrario, quando è incarnato da un attore deve assumere la pienezza fisica dell’apparizione, immediata e inevitabile. Il film dispone di alcuni escamotage per rinviare il momento fatale (om- bre, frammentazioni del quadro, inquadrature di spalle, voce off, focalizza- zione interna), ma questo gioco non può durare in eterno. Alla fine l’attore arriva e assieme a lui affluiscono le caratterizzazioni tipiche del personag- gio. Anche se questa prima apparizione è ancora vuota e precaria, come sospesa, l’immagine dell’attore indica in un certo senso una fine, ovvero

la riduzione definitiva dei possibili. Ma indica anche un inizio, quello di una costruzione composita e paradossale, di una lotta ad armi impari tra attore e personaggio. Perché, una volta svanito il lampo dell’apparizione, anche la rassicurante semplicità della prima immagine si dissipa. È chiaro che non è l’attore in persona che noi vediamo sullo schermo (anzi, è sempre di meno lui), ma un’immagine modellata in funzione di obiettivi precisi.

Quello che vediamo è un essere iconico, una rappresentazione audiovisiva estremamente complessa, che non potrà mai né ridursi alla solo individua- lità dell’attore né fare senza di lui.

Una coppia significante-significato?

Al pari del dispositivo tecnico, anche il racconto filmico tiene l’attore sotto stretta sorveglianza, a tal punto da farne un oggetto sfuggente per l’analista. Se l’attore è mal visto dalla teoria, dice Christian Metz, questo si deve al fatto che egli è troppo visibile per dei teorici abituati a ricerca- re delle strutture più o meno soggiacenti rispetto al testo4. Costoro gli

preferiscono l’invisibilità del personaggio. L’interesse, pur breve, rivolto dalla semiologia all’attore deriva dal fatto che la struttura significante- significato caratterizza a priori il rapporto tra attore e personaggio. Ma a priori soltanto, perché nel film l’attore non appare in nessun momento

4 Marie Michel, Vernet Marc (a cura di), Christian Metz et la théorie du cinéma, in «Iris» n° 10, vol. 6,

come un tutto omogeneo. La percezione che lo spettatore ha dell’attore è

generata da una catena discontinua di elementi sonori e visivi, catena che, svolgendosi nel tempo, «trasforma la figura esteriore dell’uomo in testo narrativo» (Lotman, 2009). L’attore, che a teatro è uno degli elementi chiave della drammaturgia, diventa al cinema un elemento fondamentale del racconto, e in un modo assai paradossale. Se devo raccontare la tra- ma di un film, infatti, utilizzo più volentieri il nome dell’attore rispetto a quello del suo personaggio, anche se mi riferisco unicamente al perso- naggio.

Non è dunque di attore che bisogna parlare, ma, secondo André Gar-

dies (1980), di un’istanza attoriale della quale l’immagine dell’interprete non è che il rappresentante iconico. Questa istanza «non sarebbe in grado di ridursi all’analogon dell’attore né di confondersi completamente con il personaggio come lo definisce l’analisi strutturale del racconto». Nono- stante ciò, «essa include simultaneamente i due termini e si nutre del loro scambio. Anzi, è essa stessa questo scambio». L’attore è sempre dunque attore-personaggio. Più di recente, Gardies ha proposto la nozione di «fi- gura attoriale» (Récit filmique, 1995), in quanto essa trae origine da quattro

componenti: l’attante (nel senso in cui Greimas lo definisce nel suo sche- ma attanziale, come forza che agisce nel cuore della diegesi); il ruolo; il personaggio, incarnazione del ruolo nel quadro di un racconto particolare, e, infine, l’attore. Questi quattro elementi si arricchiscono interagendo in modo permanente con gli altri elementi del film. Suddetta interazione pro- duce un plusvalore semantico derivante ad esempio dal montaggio (l’effet- to Kulešov e la questione dell’espressività), dal rapporto con le altre figure attoriali, con la luce con la scenografia, con gli oggetti (penso al legame tra Gabin e la locomotiva in L’angelo del male).

La specificità del medium cinematografico fa allora della figura attoriale «una sorta di nodo di significati, fonte probabile della dimensione propria- mente mitica dell’attore» (Gardies, 1995, p. 65).

Allo stesso modo per Jurij Lotman (2009) l’immagine dell’uomo sullo schermo «appare come un messaggio di un’estrema complessità, la cui capacità semantica è determinata dalla varietà dei codici utilizzati, dalla molteplicità dei livelli e dalla complessità della loro organizzazione seman- tica». La necessità di elaborare un concetto di figura attoriale è motivata dal fatto che per il semiologo l’attore cinematografico non esiste: l’unico modo per prenderlo in considerazione è inserirlo in questa dimensione composita ed eterogenea.

103 Attore e personaggio

Alcuni attori-personaggi

La notorietà dell’attore non risolve questa difficoltà, ma sovrappone alla dinamica attore-personaggio una dinamica attore-persona che la com- plica e a volte la contraddice. In ogni modo, senza arrivare allo scambio tra divo e personaggio descritto da Morin (Le star), possiamo concludere che

«non esiste un casting ex nihilo» (Farcy-Prédal, 2001, p. 177). Ogni attore

conosciuto porta con sé un sottotesto composto dai personaggi che egli ha toccato o dai quali è stato toccato.

Attori di complemento

Divi e attori di complemento funzionano allo stesso modo, in quanto entrambi sono portatori di forti elementi di intertestualità. La specializza- zione dell’attore di complemento in un tipo di recitazione o in un perso- naggio è accentuata dall’effetto di moltiplicazione e dall’estrema familiarità con il pubblico, in quanto gli attori di secondo piano girano molto di più dei divi. Raymond Chirat evoca i pittoreschi eccentrici del cinema france- se, protagonisti di quei ruoli minori che animarono il paesaggio cinemato- grafico francese negli anni trenta:

«In due battute e tre movimenti, questi attori costruiscono personaggi di note- vole spessore. Gli strombazzi di tromba di Aimos o Carette, le risate perlacee di Jane Marken, la salsa vinaigrette di Pauline Carton, la voce roca di Max Dearly,

i palpiti di Fusier-Gir, i gridolini di Milly Mathis, i furori di Marcel Vallée, la sufficienza di André Lefaur, il tono perentorio di Gabrielle Fontan rallegrano i timpani. Ognuno di loro, in quanto virtuoso, interpreta la propria composizio- ne: le esitazioni timorose di Larquey, l’autorità senza appello di Marguerite Mo- reno, il ghigno aggressivo di Le Vigan, la malinconia di Jean Tissier, i balbettii di Gabriello, l’effervescenza di Marguerite Deval, l’acidità di Suzet Maïs. Di set- timana in settimana lo spettatore esplora, complice, il reparto delle farse e delle gag burlesque. Poco a poco il cliente diventa un amico di famiglia. Ogni attore mostra la sua specialità e se ne impadronisce, fiero dei propri effetti. Costoro rifiutano un’utilizzazione in contre-emploi per non distruggere la loro immagine e

preferiscono sempre cucinare le ricette che hanno assicurato la loro fama»5.

5 Raymond Chirat, Les acteurs de seconds roles dans la première décennie du cinéma parlant français, in

Questa descrizione, viva e colorata, mostra come questi attori, riducen- do il personaggio a un tratto dominante del loro fisico o del loro tempe- ramento, abbiano contribuito a costruire il tessuto del film, garantendone la ricchezza plastica e sonora. A Hollywood, negli stessi anni, la situazione è simile ma più strutturata. Negli studi hollywoodiani gli attori di comple- mento sono riuniti in un’organizzazione industriale quanto quella dei divi. Una sorta di character actor system più discreto dello star system, ma non meno

fondamentale ai fini dell’armonia della produzione.

Sotto contratto con studi che permettono loro di correre da un set all’al- tro, alcuni attori, negli anni trenta e quaranta, riescono a interpretare piccoli ruoli in più di quindici film all’anno. Una figura nota agli appassionati di western, ovvero Ward Bond, ha lavorato in circa centoquaranta film tra il 1930 e il 1959. Questa molteplicità di contributi modifica la natura del rapporto tra l’attore e il film. Se nella filmografia di un divo è possibile di- stinguere tra film minori e maggiori, il character actor è un fattore di unifica-

zione. Risvegliando unicamente il meccanismo della reminiscenza primaria, egli appiattisce fino ad annullarla la questione della qualità. La sua presenza equilibra e compensa: di fronte al divo, l’attore di complemento è colui che porta l’ordinario nello straordinario, il familiare nel meraviglioso.

Supporting Actors

Il supporting actor (o attore comprimario) invece, proposto spesso come

alter-ego del divo, intrattiene con i rispettivi personaggi relazioni più com- plesse. La sua presenza può affinare il discorso del film, modificando gli antagonismi di superficie. Così, il ruolo interpretato da Claude Rains in

Mr. Smith va a Washington (1939) rende più sfumato quello che spesso viene

definito il manicheismo ingenuo del mondo di Capra.

Supporting actor dalla grande versatilità, Claude Rains ha fama di eccellere nei

ruoli crudeli, come quello del compositore nevrotico di Il prezzo dell’ingan- no (Rapper, 1946). Per il cinefilo francese, però, la sua immagine si costrui-

sce innanzitutto sull’ambiguità: ambigui sono il ricco imprenditore ebreo di

La signora Skeffington (Vincent Sherman, 1944), il nazista di Notorius (Alfred

Hitchcock, 1946) e il controverso Renault di Casablanca (Michael Curtiz, 1942).

Rains è anche lo psicanalista di Perdutamente tua (Irving Rapper, 1942), dove

105 Attore e personaggio Di fatto Claude Rains cominciò la carriera con il ruolo essenzialmente vo- cale de L’uomo invisibile e restò sempre segnato da questo statuto impalpa-

bile. In La signora Skeffington sparisce per due terzi del film e ritorna sotto le

sembianze di un fantasma, vecchio cieco fuggito da un campo di concentra- mento e accolto dalla moglie come un’apparizione. Rains è il signor Jordan in L’inafferrabile signor Jordan (Alexander Hall, 1941), ovvero una figura divina

che interviene nel mondo senza far percepire la sua presenza. Trasposta sul piano morale, questa capacità di essere trasparente gli permette di incarnare in Mr. Smith va a Washington il senatore Joseph Payne, perfetto connubio di

vizio e virtù, ex-difensore delle cause perse passato dalla parte dei corrotti. In quest’ottica la performance di Rains consiste in un gioco di equilibri tra i due poli, lo “heavy” (Edward Arnold nel ruolo di Jim Taylor, un uomo d’affari infido e tirannico) e l’icona di innocenza delineata da James Stewart. Rains occupa in silenzio il sottile confine che separa il vizio dalla virtù e lo fa sorretto dal suo accento britannico, dalla sua postura elegante e dall’aspetto neutro dei suoi lineamenti. Notevole é il lavoro di sottrazione nella mimica. Penso alla rigidità dell’espressione, sottolineata dalle frequenti contre-plongée

che gli permettono di erigersi a simbolo dell’indignazione. Quando evoca i propri rimorsi oppure obbedisce a Taylor, abbassa gli occhi, ma è subito pronto a rialzarli con insolenza quando vuole convincere tutti della sua one- stà. Di fronte allo stile energico di Claude Rains esita, temporeggia, allon-

Nel documento Prefazione (pagine 96-116)

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