• Non ci sono risultati.

4. Rilevanza fisiopatologica dell’autofagia 31

4.1 Autofagia e apoptosi: cross-talk tra “self-eating” e “self-killing” 32

La capacità dell’autofagia di proteggerle contro il da della stessa come mec suggeriscono che l’autofa In risposta a molte form knockdown/knokout dei g

2005). Tuttavia, in cond

’autofagia nella malattie umane.

gire come un meccanismo citoprotettivo per prevenire que, l’autofagia può essere deleteria (ad esempio, alcun ravvivere) (Mizushima et al., 2008).

apoptosi: cross-talk tra “self-eating” e “se

ofagia di permettere alle cellule di adattarsi ai camb o il danno causato dagli insulti tossici, hanno porta

meccanismo di sopravvivenza cellulare. Tu autofagia agisce sia nella citoprotezione che nella m e forme di stress l’autofagia gioca un ruolo cito

dei geni ATG accelera piuttosto che ritardare la condizioni di attivazione incontrollata dell’aut

ire varie malattie. In lcuni microbi sfruttano

self-killing”

i cambiamenti ambientali e portato alla classificazione e. Tuttavia, diversi dati nella morte cellulare.

lo citoprottetivo, perché il are la morte (Levine & Yuan, ell’autofagia (ad esempio,

l’overespressione di Beclin 1 nelle cellule di mammifero o di Ag1 in Drosophila), l’autofagia può portare alla morte cellulare, potenzialmente attraverso l’attivazione dell’apoptosi (Pattingre et al., 2005; Scott et al., 2007) o come risultato dell’incapacità delle cellule di sopravvivere alla degradazione non specifica di grandi quantità di contenuti citoplasmatici.

L’autofagia interviene come meccanismo alternativo di morte soprattutto nelle cellule apoptosi-deficienti (Shimizu et al., 2004; Levine & Yuan, 2005), suggerendo che come via di morte è scelta dalla cellula quale ultima risorsa. Al contrario, l’apoptosi è promossa quando l’autofagia è inibita (Hara et al., 2006).

L’interazione tra l’autofagia e l’apoptosi è comunque molto complessa, le due pathway sono regolate da fattori comuni, condividono componenti comuni e ciascuna può modificare e regolare l’attività dell’altra (Mizushima et al., 2008). La funzione citoprottetiva dell’autofagia è mediata in molte circostanze dalla modulazione negativa dell’apoptosi. Sebbene i meccanismi che mediano la complessa regolazione crociata di autofagia e apoptosi non siano ancora completamente conosciuti, importanti punti di cross-talk includono l’interazione tra Beclin 1 e Bcl-2/Bcl-xL, l’interazione tra FADD e Atg5, il clivaggio caspasi- e calpaine-mediato di proteine autofagia-correlate, e la degradazione autofagica delle caspasi (Maiuri et al., 2007; Gordy & He, 2012).

4.2 Autofagia e neurodegenerazione

Il mantenimento dell’omeostasi cellulare è essenziale per i neuroni, un tipico esempio di cellule differenziate che non si dividono. L’esistenza di un’autofagia basale nei neuroni e del suo contributo al mantenimento della sopravvivenza neuronale è stata confermata da studi condotti su modelli di topi transgenici sottoposti al knockout nel sistema nervoso centrale di geni essenziali per l’autofagia (Hara et al., 2006; Komatsu et al., 2006). Questi animali, anche in assenza di altri stress, presentano una marcata neurodegenerazione associata all’accumulo di corpi d’inclusione intracellulari di natura proteica.

Come molte altre cellule, i neuroni up-regolano l’autofagia in risposta ai più comuni stressogeni, ma anche in difesa a danni neurone-specifici, come l’axotomia, l’ischemia neuronale o l’eccitossicità (Midorikawa et al., 2010; Piras et al., 2011; Russo et al., 2011; Rodriguez- Muela, 2012). La compromissione dell’attività autofagica precipita la morte neuronale dopo il danno (Liu et al. ,2010).

Alterazioni della pathway autofagica sono state descritte in diverse patologie neurodegenerative, come alcune forme di malattia di Parkinson, di Hungtinton e di Alzheimer (Rubnisztein et al., 2005; >ixon, 2006). Queste condizioni patologiche condividono la presenza di proteine alterate che si accumulano all’interno dei neuroni, organizzandosi in forma di strutture oligomeriche o multimeriche. Sia la perdita di funzione della proteina patogena, sia la tossicità associata alla presenza di aggregati proteici, contribuiscono allo sviluppo della malattia. Una prima correlazione tra neurodegenerazione e autofagia origina dall’osservazione che questi aggregati proteici possono essere eliminati mediante autofagia (Ravikumar et al., 2002; Yamamoto & Simonsen, 2011).

Nella malattia di Alzheimer la macroautofagia contribuisce all’eliminazione del prodotto tossico del precursore della proteina amiloide (APP), la proteina β-amilodie (A-β). Tuttavia, la clearance della proteina A-β è compromessa con la progressione della malattia, a causa di difetti nel processo autofagico (Yu et al., 2005). Nella malattia di Parkinson la proteina patogenica più comune, la α-sinucleina, nella sua forma solubile è un substrato sia per il sistema del proteosoma che per l’autofagia chaperone-mediata (CMA); tuttavia, la macroautofagia è l’unica via per l’eliminazione delle varianti patogene di questa proteina una volta aggregate (Webb et al., 2003). La macroautofagia è stata dimostrata essere un meccanismo efficace anche nella rimozione degli aggregati di huntingtina, la proteina mutata nella malattia di Huntington e il principale componente dei corpi di inclusione osservati nei neuroni affetti dalla patologia (Ravikumar et al., 2004; Iwata et al., 2005).

In queste patologie l’autofagia gioca, generalmente, un ruolo protettivo grazie alla sua funzione degradativa, che permette la clearance delle forme potenzialmente tossiche delle proteine patogene.

L’attivazione farmacologica dell’autofagia in un modello animale sperimentale di malattia di Huntington riduce la tossicità cellulare e rallenta la progressione della malattia (Ravikumar et al., 2004). Gli effetti benefici della up-regulation dell’autofagia sono stati dimostrati anche in modelli sperimentali di altre condizioni neurodegenerative (si veda: Harris & Rubinsztein

2012). Queste osservazioni suggeriscono la possibilità di utilizzare modulatori dell’autofagia come base per l’approccio terapeutico a questo tipo di malattie e, infatti, sono in corso screening mirati ad identificare composti chimici con una maggiore selettività e potenza

(Fleming et al., 2011).

Tuttavia, ci sono delle limitazioni riguardo l’uso dell’upregulation dell’autofagia a scopo neuroprotettivo (Wong et al., 2010). Ad esempio, non tutti gli aggregati proteici sono riconosciuti dal “macchinario” autofagico (Wong et al., 2008); inoltre, la funzione protettiva dell’autofagia può essere ristretta a particolari stadi della malattia, mentre in altre fasi può essere inefficace (Kegel et al., 2000) o addirittura dannosa (Cheng et al., 2011).

Una condizione in cui indurre l’autofagia potrebbe non essere efficace contro la neurodegenerazione è quando il macchinario autofagico stesso è compromesso e quindi la formazione o la clearance degli autofagosomi non sono garantite. In varie condizioni neurodegenerative sono stati descritti difetti a carico di uno o più step del processo macroautofagico, dalla fase di inizio (Lim et al., 2011), al riconoscimento del carico (Martinez- Vicente et al., 2010), al trafficking vescicolare (Ravikumar et al., 2005), alla fusione con i lisosomi (Lee et al. 2010b). Alterazioni in ciascuna di queste fasi hanno come conseguenza l’accumulo intracellulare degli autofagosomi, che in alcuni casi può contribuire alla conversione della proteina precursore nelle sue forme tossiche (Yu et al., 2005). In più, recenti studi hanno dimostrato che, in certe condizioni, gli autofagosomi possono diventare una risorsa di specie reattive dell’ossigeno e aggravare la neurotossicità (Kubota et al., 2010).

Anche difetti nel compartimento lisosomiale possono rappresentare una limitazione per la modulazione dell’autofagia a scopo terapeutico, dato l’impatto negativo che questi possono avere sulla degradazione degli autofagosomi nei disordini neurodegenerativi (Settembre et al., 2008; Lee et al., 2010a).

In conclusione, in ogni tentativo di manipolazione terapeutica della autofagia è importante prendere in considerazione la natura dinamica dei cambiamenti a carico del sistema

autofagico durante il corso della malattia e conoscere gli effetti dell’autofagia nei differenti stadi della patologia, al fine di evitare trattamenti arbitrari potenzialmente dannosi per il paziente.