IV. L’umano insegnare: un a priori situazionale possibile
1.1. Avvalorare l’inter-cultura
Educare in termini inter-culturali vuol dire dover ponderare il legame tra i
significati di valore e di cultura
742. Nel corso del nostro argomentare, l’approccio
culturalista – e il conseguente approccio narrativo centripeto da tenere su ogni
studente per coglierne la Weltanschauung – è stato segnalato proprio per il suo
essere basato «non solo su ciò che la gente realmente fa, ma su ciò che dice di fare
e su ciò che dice di essere la causa di ciò che fa»
743, in definitiva, su ciò che av-
739 La condotta: ecco un altro termine al quale lo studioso statunitense dà spazio nel suo saggio. La
condotta riguarda ciò che una persona fa «mentre l’idea di persona ci aiuta a capire l’agency – che è la potenzialità e l’abilità di agire – l’idea di condotta evidenzia patters di azione. La condotta descrive la continuità, o unità, in ciò che una persona fa» Ivi, p. 29, (trad. mia).
740 Ivi, pp. 32-33, (trad. mia). 741
La multiculturalità protagonista negli attuali setting formativi obbliga a una riflessione assiologica sulla tradizionale contrapposizione, con la quale Rohls chiude la sua Storia dell’etica, tra universalismo e particolarismo. Lo sviluppo, soprattutto in ambito politico ed economico, dell’universalismo è spiegato dall’autore con la capacità acquisita dall’uomo di alterare, fino ad annientare, l’ambiente e la propria stessa specie e quindi con la necessità di creare un ordine universale che possa essere garanzia di pace come unica possibilità per l’autoconservazione della specie umana. Nel volume si collega, invece, il particolarismo, come tendenza contraria alla rinuncia dell’idea dell’unità del mondo, quindi con la tendenza a dividere il mondo in culture, l’umanità in popoli e la storia in storie, al venir meno, dunque, di qualunque possibilità di norme e valori universalmente validi. Cfr. J. Rohls, Storia dell’etica, il Mulino, Bologna 1995, pp. 542- 543.
742 Cfr. L. Borghi, Cultura e valori in prospettiva transnazionale, cit., p. 17. 743
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valora la cultura di ognuno. Ma che cos’è un valore? La parola valore, scrive
Brezinka, è ambigua: non esiste, infatti, unanimità nell’uso del vocabolo ‘valore’.
Nel linguaggio colloquiale con il termine ‘valore’ si fa spesso riferimento semplicemente a beni […] si applica quindi a qualsiasi oggetto che può essere valutato positivamente, ossia a oggetti o a ciò che è portatore di valore. Altri, tuttavia, lo usano soltanto in riferimento ad una sottoclasse di beni: i beni culturalmente normativi, come le norme, gli ideali, i principi, le affermazioni di base, le credenze che offrono un senso, ossia beni di orientamento normativo, spesso definiti ‘valori di orientamento’. Per questi i valori equivalgono a norme – spesso circoscritti alle norme morali, ossia alla categoria valoriale dei beni morali. Nel linguaggio d’uso filosofico, al contrario, si distingue di solito tra valore e portatore di valore (il bene), come pure tra valore e norma. Un oggetto di valore, un bene, persino un bene culturale, come una norma o un ideale, ha valore, ma non è un valore. […] In psicologia e in sociologia con il termine valore si indicano qualità della personalità quali atteggiamenti, disposizioni, convinzioni, credenze relative a quei beni che gli uomini giudicano positivi per sé e all’ordine gerarchico soggettivo di questi beni. Si tratta quindi di disposizioni psichiche, di ‘atteggiamenti valoriali’ soggettivi. Quegli atteggiamenti valoriali, particolarmente vicini al sé e particolarmente importanti per la comprensione di sé e della condotta di vita dell’individuo, vengono definiti ‘atteggiamenti- disposizioni d’animo’. Oltre a ciò, tuttavia, nelle scienze umane come nella vita quotidiana pensando al termine ‘valore’ si pensa anche agli obiettivi (o mete) dell’azione, al contenuto dello sforzo. In tale senso vengono intese in pedagogia a volte le mete educative, quando si parla di valori. Tutti i significati della parola ‘valore’ sono legati naturalmente alla nostra esperienza del valore, alla nostra coscienza del valore. Il valutare è un fenomeno psicologico fondamentale. Ogni individuo valuta spontaneamente ed ininterrottamente. Chiunque faccia esperienza e agisca, valuta al tempo stesso.744
Riassumendo, nel linguaggio comune, sono tendenzialmente due i principali
significati che il termine ‘valore’ presenta: una prima accezione rimanda a tutto
ciò (materiale o meno) che è (o ha) valore, ritenuto importante e che si desidera
possedere; in un secondo senso, al plurale, i valori indicano, invece, gli ideali ai
quali gli essere umani tendono e che utilizzano per formulare giudizi
745. Ed è
questa seconda accezione che, secondo Loredana Sciolla, le scienze sociali
riprendono, il valore non viene, infatti, a indicare l’oggetto di interesse, ma il
criterio della valutazione, «il principio generale in base al quale approviamo o
disapproviamo un certo modo di agire, di pensare o anche di sentire. […] Il
744 W. Brezinka, Morale ed educazione. Per una filosofia normativa dell’educazione, cit., p. 122. 745
181
concetto di ‘valore’ si distingue quindi da quello di preferenza (e di
atteggiamento); mentre la preferenza indica ciò che è desiderato, il valore indica
ciò che è desiderabile; mentre la preferenza dice ciò che vogliamo, il valore dice
ciò che dovremmo volere. Esso ha, pertanto, una dimensione normativa»
746.
Argomentazione, quest’ultima, che ci riporta alla distinzione di Rogers tra valori
operativi, ovvero «la tendenza di ogni essere umano a preferire, sul piano pratico,
un oggetto o un obiettivo rispetto agli altri»
747, valori razionali, intesi come «la
preferenza accordata dall’individuo a determinati oggetti simbolici»
748e valori
oggettivi, ovvero «ciò che risulta oggettivamente preferibile, a prescindere dal
punto di vista soggettivo»
749.
Illustrando il concetto di valore, Dewey sostiene che ogni «teoria del valore
è necessariamente un ingresso nel campo della critica»
750e il momento della
critica è legato, secondo il filosofo americano, al ‘pensiero e al discorso’: quando
si prende in considerazione la relazione tra mezzi e fini, quando il «pensiero
procede al di là dell’esistenza immediata verso le sue relazioni, verso le
condizioni che la mediano o verso le cose delle quali essa è a sua volta
mediatrice»
751. Cosicché, scrive Dewey, i valori sono valori; presi per sé, infatti,
«i valori possono solo essere indicati; tentarne una definizione mediante
un’indicazione completa è […] inutile»
752; i valori sono «cose che hanno
immediatamente certe intrinseche qualità. Dei valori in quanto valori,
conseguentemente, non c’è nulla da dire: essi sono quello che sono. Tutto ciò che
si può dire di loro riguarda le condizioni della loro origine e le conseguenze cui
essi danno luogo»
753.
746
Ivi, pp. 54-55.
747 C.R. Rogers, Libertà nell’apprendimento, cit., p. 277. 748 Ivi, p. 278.
749 Ibidem. 750
J. Dewey, Esperienza e Natura, cit., p. 284.
751 Ivi, p. 284. Questo «sforzo di chiarire i nostri desideri, i nostri sforzi e i nostri ideali (che sono
per l’uomo tanto naturali quanto i suoi malanni e i suoi vestiti), di definirli (non in se stessi, che è impossibile) nei termini di una ricerca volta a individuare le condizioni e le conseguenze è ciò che io chiamo critica; e quando questa viene condotta in modo elevato, essa si chiama filosofia» (Ivi, p. 297). Ogni «critica degna del nome non è che un altro nome per quella scoperta rivelatrice di condizioni e conseguenze che consente al desiderio, agli atteggiamenti, all’interesse di esprimersi in modi responsabili e strutturati, anziché in modo rozzo e fantastico» (Ivi, pp. 305-306). La critica è «un giudizio discriminante, un apprezzamento accurato e il giudizio viene opportunamente chiamato critica ogni qualvolta il contenuto specifico della discriminazione riguarda beni o valori» Ivi, p. 285.
752 Ivi, pp. 284-285. 753
182
Un invito a entrare nel ‘campo della critica’, lo si ritrova anche in Antonio
Genovese a proposito della dialettica universalismo-relativismo
754. Il pedagogista
segnala la non facilità, in chiave interculturale, di superare un binomio vizioso: se
l’inutilizzo del principio di relatività può, da un lato, determinare l’incapacità di
rappresentarsi un ‘diverso’ tipo di società, di gruppo (o di condizione
esistenziale) senza ricorrere a qualificazioni che ne evidenzino solo l’omogeneità
e la monoliticità, determinando, così, definizioni di superiorità della ‘propria’
civiltà (o condizione)
755, dall’altro lato, con la radicalizzazione del principio
relativista e della sua applicazione, si rischia di giustificare tutto senza intervenire
mai. Da questo punto di vista, continua il pedagogista, è auspicabile provare a
superare l’unilateralità implicita in entrambe le tendenze (universalista vs
relativista), individuandone limiti e potenzialità attraverso un problematicismo
critico che consenta di considerare entrambe le posizioni, cercando di sostituire
«sul piano educativo – cioè sul piano dell’analisi e della comprensione dei
processi formativi, del loro orientamento e delle pratiche conseguenti – al
principio dell’identità o a quello della contraddizione […] il principio della
possibilità che garantisce la pluralità contro l’unilateralità, l’apertura critica
contrapposta alla chiusura assoluta»
756. Un educatore non può, d’altra parte,
obbligare a delle scelte, né tantomeno può imporre soluzioni a eventuali conflitti
di matrice culturale, quello che può tentare è di stimolare le occasioni di scelta e
favorire le opportunità di cambiamento accompagnandole con una pratica critica
continua in grado di favorire un’analisi (soprattutto) dei propri atteggiamenti e
comportamenti
757. D’altra parte, in spazi educativi non si può, da se stessi così
come dagli altri, accettare tutto. Laddove il relativismo umilia, degrada,
misconosce il valore della persona, è necessario porre un limite: la stessa esistenza
della specie umana sarebbe impossibile nelle sue varietà culturali, senza alcuni
valori di riferimento come, per esempio, la garanzia dell’incolumità fisica e
morale di ognuno, qualunque sia l’appartenenza di riferimento
758. Posizione
754 Cfr. A. Genovese, Per una pedagogia interculturale. Dalla stereotipia dei pregiudizi
all’impegno dell’incontro, cit., p. 167.
755
Corsivi nostri.
756 Cfr. A. Genovese, Per una pedagogia interculturale. Dalla stereotipia dei pregiudizi
all’impegno dell’incontro, cit., p. 169.
757 Cfr. Ibidem. 758
183
quest’ultima condivisa da Desinan, secondo il quale, riconducendo quelli che sono
i valori fondamentali per la realizzazione di una nuova umanità (libertà,
democrazia, pace, giustizia) a specifici sistemi culturali, l’approccio relativista li
sottrae a qualunque principio di universalità in grado di determinare un qualunque
tipo di impegno per la loro realizzazione. Il quesito pertanto è: se culture, valori e
principi sono relativi, in nome di che cosa gli individui dovrebbero «seguire delle
regole, assumersi delle responsabilità e prendere delle decisioni»?
759In termini educativi, Cristina Allemann-Ghionda sintetizza la gestione della
pluralità delle appartenenze culturali in un movimento pendolare tra approcci
tendenzialmente universalisti e approcci particolaristi ed esorta a esercitare
l’immaginazione, basandosi sull’analisi di esperienze, delle potenzialità e dei
rischi di ognuno degli approcci indicati (fig. 13).
Approcci piuttosto universalisti Approcci piuttosto particolaristi
I stadio: strategie di assimilazione. Privo di potenzialità e gravido di diversi rischi: insuccesso scolastico delle minoranze; impostazione monolingue della scuola rafforzata; si incoraggiano l’isolazionismo, il radicalismo etnico e, quindi, i conflitti etnici. Si determina l’assolutismo etico.
II stadio: Promozione della pluralità culturale. Tra i rischi: il culturalismo e l’esotismo; si trascurano i fattori socio- economici che agiscono sulla convivenza in gruppi eterogenei e sul successo scolastico delle minoranze; si trascura il fattore uguaglianza delle opportunità; il particolarismo delle comunità può essere esasperato e il nazionalismo accentuato con conseguente nascita di conflitti etnici; l’eventuale conflitto tra tolleranza interculturale e valori ‘universali’ non si discute e quindi non si gestisce razionalmente; si impone il relativismo etico. Tra le potenzialità: Le minoranze vengono rafforzate nelle loro identità; maggioranza e minoranza imparano ad interagire con l’alterità; la xenofobia e il razzismo sono discussi; l’impostazione monoculturale e monolingue è messa in discussione.
III stadio: Critica al paradigma multiculturale. Tra le potenzialità, si dichiarano non legittimi i concetti di ‘cultura’ ed ‘etnia’; ci si focalizza sui fattori socio-economici della convivenza in
759
184
gruppi eterogenei e sul successo delleminoranze, obiettivo prioritario diventa l’uguaglianza delle opportunità; i pericoli permangono nella impostazione monolingue e monoculturale della scuola; la politica educativa richiama l’assimilazionismo; i valori dell’Europa occidentale sono dichiarati implicitamente ‘universali’; si ripropone l’assolutismo etico.
IV stadio: Paradigma dell’educazione alla diversità. Non presenta rischi. Tra le potenzialità: i ‘concetti di ‘cultura’ ed ‘etnia’ sono ridefiniti e liberati da connotazioni improprie; il fattore culturale nei rapporti sociali ed educativi è preso in considerazione con prudenza, come parte di un sistema complesso di variabili; la scuola si apre al plurilinguismo, la diversità è considerata non più come deviazione dalla norma, bensì normalità; si attuano strategie per concordare comportamenti basati su valori condivisi.
Fig. 13: Un movimento pendolare nella gestione della pluralità delle culture nell’educazione
Fonte: Cfr. C. Allemann-Ghionda, L’educazione interculturale in Francia, Germania e Svizzera. Paradigmi e strategie in mutamento, cit., pp. 114-116.
Esortazione, quella dell’Allemann-Ghionda, che non si può non considerare,
soprattutto nel rapportarsi con studenti stranieri, ma più in generale se l’inter-
cultura è intesa come creazione quotidiana di universi semantici inter-medi, là
dove la ‘cultura’ che ogni allievo/a ‘è’ diventa «pratica esperienziale di meaning-
making, di creazione, ricombinazione, reintepretazione di significati»
760sostenuta,
in termini assiologici, da una competenza etica
761dell’educatore che esclude non
solo ogni forma di neutralismo ma, nell’ottica di uno sviluppo di quella che è la
dimensione morale degli allievi, esclude anche il relativismo
762. Cosicché, pur
considerando la matrice culturale dei valori e pur riflettendo sui limiti intrinseci
sia all’approccio romantico-irrazionale, sia alla prospettiva razionale
763(entrambi
760 A. Bondioli, Il gioco, lo specchio, la cornice: oltre i confini, in “aut, aut”, 337, 2008, p. 33. 761 La competenza etica è «una deliberazione a carattere dialogico [che] mira a favorire la capacità
di prendere una decisione e di agire in dialogo con se stessi e con gli altri, in una situazine data. Essa è mirata a cercare ed a trovare la ‘migliore soluzione possibile nelle circostanze’. Non la ‘soluzione migliore’ per me, ma per noi: dove ‘noi’ è quella della comunità professionale di cui faccio parte; ma non solamente, perché guarda più estesamente al ‘noi’ delle persone che desiderano individuare la soluzione ‘più ragionevole’» E. Damiano, L’insegnante etico. Saggio sull’insegnamento come professione morale, cit., p. 329.
762 Cfr. ivi, pp. 329-332.
763 Secondo l’approccio romantico, la scelta dei valori, all’interno di una cultura, avverrebbe sulla
base del proprio temperamento e delle proprie inclinazioni. Per la prospettiva razionale, invece, l’espressione dei valori sarebbe guidata da modelli razionali come la ricerca dell’utile, le regole
185
incapaci, secondo Bruner, di riconoscere come i valori non abbiano una relazione
immediata con ogni situazione di scelta, né siano il prodotto di individui isolati
con forti pulsioni e nevrosi costrittive, ma siano sociali e conseguenti alle nostre
relazioni con una comunità culturale
764), l’assiologia interculturale sembra
richiedere, comunque, dei ‘valori condivisi’ in vista di una ‘terra di mezzo’ da
attraversare criticamente alla ricerca di una dimensione universalizzabile. È
necessario, pertanto, specificare il precedente quesito e chiedersi: quando un
valore è universale? O, meglio: affinchè un valore possa considerarsi universale, è
necessario il consenso generale? A questo interrogativo, Amartya Sen risponde
che se fosse così, la categoria ‘valore universale’ probabilmente resterebbe vuota.
Non conosco, scrive Sen, «alcun valore […] contro il quale non siano state
sollevate obiezioni. A mio parere, non è questo che conta per considerare qualcosa
universale. Al contrario, l’essenziale è stabilire se in ogni parte del mondo gli
uomini possano avere ragioni per considerarlo tale»
765. Amin Maalouf segnala
alcuni valori che, proprio perché riguardanti tutti gli esseri umani senza
distinzione alcuna, sono da considerare universali e dovrebbero prevalere su tutto:
le tradizioni meritano di essere rispettate, scrive lo scrittore di origine libanese,
solo nella misura in cui sono rispettose dei diritti fondamentali degli uomini e
delle donne
766.
Rispettare ‘tradizioni’ o leggi discriminatorie equivale a disprezzare le loro vittime. Tutti i popoli e tutte le dottrine hanno prodotto, in certi momenti della loro storia, dei comportamenti che sono risultati, con l’evoluzione della mentalità, incompatibili con la dignità umana; da nessuna parte si riuscirà ad abolirli con un colpo di penna, ma ciò non dispensa dal denunciarli e dall’operare per la loro sparizione. Tutto ciò che riguarda i diritti fondamentali – il diritto di vivere da cittadino riconosciuto giuridicamente sulla terra dei propri padri senza subire alcuna
dell’ottimizzazione o la minimizzazione del dolore. Cfr. J. Bruner, La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, cit., p. 42.
764 Cfr. ivi, p. 43. 765
A. Sen, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente, cit., p. 67. Quando il Mahatma Gandhi proclamò il valore universale della nonviolenza, argomenta Sen, «non sosteneva che i popoli di tutto il mondo lo stessero già riconoscendo, bensì che avessero buone ragioni per farlo. Analogamente, quando Tagore affermò la ‘libertà di pensiero’ come valore universale, non stava dicendo che questo principio fosse già stato accettato da tutti, ma che tutti avessero valide ragioni per farlo […]. Intesa in questo modo, qualsiasi pretesa di un valore universale implica un certo grado di contraddittorietà interna e lascia spazio ad alcune ovvie obiezioni, in particolare su come un popolo possa effettivamente riconoscere un valore in qualcosa che non ha avuto modo di valutare adeguatamente» Ivi, p. 68.
766
186
persecuzione o discriminazione, il diritto di vivere ovunque nella dignità; il diritto di scegliere liberamente la propria vita, i propri amori, le proprie credenze, nel rispetto della libertà altrui; il diritto di accedere senza ostacoli al sapere, alla salute, a una vita decente e decorosa –, tutto ciò, e l’elenco è limitativo, non può essere negato ai nostri simili con il pretesto di preservare una credenza, una pratica ancestrale o una tradizione. In questo campo, bisogna tendere verso l’universalità, e anche, se necessario, verso l’uniformità, poiché l’umanità, pur essendo molteplice, è in primo luogo una767.Quello della ‘comune umanità’ è, d’altra parte, un principio assiologico che
presenta una notevole ricorsività nell’ambito della pedagogia interculturale: come
unità o tratto comune; come impresa da realizzare o anche come identità di cui
riappropriarsi
768. Ad ogni modo, sebbene, in termini educativi, emerga l’esigenza
di universalità
769, per non rischiare di collocare sotto ‘l’ombrello’ dell’ ‘umano’
tutto ciò che si vuole, facendo sì che «la convergenza su di esso [venga] a
somigliare a certe nebbie mattutine che svaniscono dopo qualche ora di sole: nella
fattispecie, quando sono investite dalle differenze culturali o dagli interessi
economici e politici particolari»
770, il nostro intento è limitato a indagare l’umano
767 Ivi, pp. 100-101. Ritorna il concetto, citato, di umanità come unitas multiplex proposto da
Morin.
768
Cfr. C. Sirna, L’esperienza interculturale nei percorsi formativi, cit., p. 16; A. Genovese, Pedagogia interculturale Dalla stereotipia dei pregiudizi all’impegno dell’incontro, cit., p. 167; C. Desinan, Orientamenti di educazione intercultuale, cit., p. 33; D. Demetrio, Facciamo il punto. L’educazione interculturale al bivio, cit., p. 26.
769 L’universalità «è uno strumento di analisi, un principio regolatore che consente il confronto
fecondo delle differenze e il suo contenuto non può essere stabilito una volte per sempre: essa è sempre soggetta a revisione. L’elemento propriamente umano non è, evidentemente, questo o quell’aspetto della cultura. Gli esseri umani sono influenzati dal contesto nel quale sono stati generati e un simile contesto varia nel tempo e nello spazio. Ciò che ogni essere umano ha in comune con tutti gli altri è la capacità di rifiutare queste determinazioni; in termini più solenni, diremmo che la libertà è il tratto distintivo della specie umana […] Se si intende l’universalità in questa maniera, si impedisce ogni scivolamento dell’universalismo verso l’etnocentrismo o lo scientismo (poiché si rifiuta di elevare a norma qualsiasi contenuto), senza per questo cadere nella bizzarria del relativismo, che rinuncia ai giudizi, o in ogni caso ai giudizi transculturali» (T. Todorov, Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità, cit., pp. 456-457). Le culture debbono essere messe a confronto con quei principi superiori di umanizzazione che la storia dell’uomo ha elaborato (cfr. C. Desinan, Orientamenti di educazione interculturale, cit., p. 37). A tal proposito, Aldo Visalberghi scrive di un universalismo kantiano da porre come «come limite agli eccessi di relativismo antropologico che tendono alla piena accettazione di qualunque peculiarità culturale, a prescindere da eventuali aspetti disumanizzanti o barbarici» in Possibilità e ostacoli per l’educazione interculturale in prospettiva mondiale, in V. Telmon e L. Borghi, Valori formativi e culture diverse. L’interazione educativa in prospettiva transnazionale, cit., p. 27. Si veda anche M.C. Nussbaum, Women and Human Development. The Capabilities Approach (2000), trad. it. Diventare Persone, il Mulino, Bologna 2001, pp. 53-140.
770 C. Nanni, Oltre il personalismo pedagogico storico, per una pedagogia della persona, cit., p.