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L'AZIONE È AFFERMAZIONE DI DIO

L'innegabile legame mostrato tra libertà e necessità è stato pretesto per proporre una prospettiva in cui la contraddizione non voglia essere fuggita o risolta, ma che venga attentamente osservata al !ne di disvelarne il profondo signi!cato. Non possiamo dire di cogliere pienamente il signi!cato della libertà se non lo poniamo a confronto col suo opposto, tanto da arrivare a comprenderlo come sodale e connaturato ad esso sin dall'origine. Si è voluto procedere sul !lo del paradosso, per mostrare che la pienezza del reale si rivela solo se riusciamo ad accogliere le contrarietà senza volerle risolvere. Gentile e Weil hanno sempre tentato di confrontarsi con questa dinamica, tentando di sottolineare come la piena realizzazione di sé passi attraverso l'autocreazione, anche se questa giunge a delinearsi in maniera paradossale come un decrearsi, ossia spogliarsi della presunta completezza della propria !nitudine.

Attraverso la nozione di valore e il concetto di mediazione, i nostri due autori sono più che mai vicini nel proporci un progetto esistenziale il cui cardine è l'obbedienza: innanzitutto a se stessi, intendendo con questo un rivolgere lo sguardo verso di sé - portando a pieno compimento la rivoluzione kantiana - e in questo riscoprirsi soggetti percepire la traccia divina e arrivare pienamente a comprendersi solo come creatura.

L'accento posto sull'azione serve a sottolineare la questione della responsabilità, punto di tangenza tra trascendenza e immanenza, in cui la prima non si traduce in atteggiamento contemplativo privo di effettività sul reale, ma si rivela “riconoscimento del limite dell'uomo e del bisogno che egli ha di superarlo una volta che lo avverta”429; mentre la seconda è da intendersi come sviluppo nel reale

428 Cfr. S. Weil, Il bello e il bene, p. 30.

della libera attività dell'autocoscienza. Solo riconoscendo entrambi i termini si ammette la libertà, solo scoprendone il legame si prende parte alla vita dello spirito, che è la realtà vera.

L'azione crea, poiché lo spirito agisce facendo il bene o facendo il male, e produce

valore. Il valore è quindi il prodotto dell'azione, e l'azione è prodotto di se

medesima, quindi libera. Il valore è perciò libertà, poiché libera produzione di sé, intesa come scelta consapevole di contribuire alla creazione, riconoscersi creatura imitando il creatore. Il concetto di valore – quindi ciò che è bene per noi – porta con sé il ritrovamento di Dio in noi stessi man mano che assumiamo su di noi la consistenza di quel valore. È la “realtà propria di Dio che ritroviamo in noi stessi e che implicitamente affermiamo in ogni nostra affermazione. […] Dio è l'atto libero che pone il valore”430. Il pensiero realizza Dio nel momento in cui accorda

un valore a se stesso e alle cose: cedere il posto a Dio stesso in noi è raggiungere e partecipare all'atto creatore. Questo ci avvicina al concetto di mediazione, di cui l'uomo è il fulcro. L'azione è mediazione tra essere e nulla.

Sarebbero ancora molte le cose da dire, ma per ora ci atteniamo all'analisi proposta, che altro non è se non uno spaccato su di un orizzonte ben più vasto di quello che si è riusciti a far solo intravedere. L'irruzione dello straordinario nell'ordinario si può cogliere solo se ci disponiamo verso di esso, perciò solo acconsentendo all'eternità inscritta nel tempo e alla sua legge.

Ci troviamo d'accordo con Toni Negri quando sostiene che l'etico sia punto di

rifondazione ontologica, proprio a causa del suo passaggio nel reale attraverso

l'azione431. Quest'azione, però, può dirsi libera solo se orientata al bene, solo se

dell'azione, conferenza tenuta alla sezione romana dell'Istituto di studi filosofici, nel marzo

1942. Sottolineiamo come per il filosofo siciliano il termine trascendenza non indica un uscir fuori dall'esperienza, ma un approfondirne il significato: non c'è fuga ma conoscenza.

430 R. Nebuloni, Riflessività e coscienza simbolica, a cura di F. Botturi e V. Melchionne, Vita e

Pensiero, Milano 2006; cit. p. 299. Il riferimento è al pensiero di Jules Lagneau, filosofo francese che fu maestro di Alain, di cui fu allieva Simone Weil. Interessante sarebbe approfondire ulteriormente l'intreccio con Gentile, facendo leva proprio sul pensiero di Lagneau.

431 T. Negri, Arte e moltitudo, a cura di N. Martino, Derive e Approdi, Roma 2014. Cfr. p. 34.

attraverso di essa si fa più sottile il divario tra !nito e in!nito. E assottigliandosi quella distanza ci si avvicina a poco a poco al compimento di se stessi, e cioè il farsi mediatori tra naturale e sovrannaturale. Autoctisi è fare di sé ciò che la Dea vuole, è rispondere al richiamo cui per primo cedette Parmenide; e lo stare in ascolto diventa progetto esistenziale che ruota attorno alle nozioni di obbedienza e consenso.

Amando l'ordine del mondo se ne prende parte, si diventa come le cose belle che ci offrono la loro esistenza432, che altro signi!cato non ha se non quello di essere

accolta attraverso l'azione, a tal punto da far scorgere attraverso se stessa la creazione di Dio. Farsi mediatori, scegliendo liberamente il vincolo che si contrae con la necessità nel momento in cui si acconsente a essere. Ci si appropria in questo modo del proprio valore, che altro non è se non quello di essere riverbero del silenzio di Dio.

Fare dell'esistenza un'offerta è spingere con dolcezza nell'ori!zio del labirinto chiunque vi si accosterà, è far risplendere su di sé la bellezza del mondo che è stata – come lo fu il narciso per Core – trappola che ci ha condotti all'incontro con Dio433.

quelli che chiama ultimi hegeliani – facendo diretto riferimento a Ugo Spirito. Cfr. ibidem, p. 93. Intento del nostro lavoro è stato anche mostrare come al posto dell'idolatria superomista, in Gentile ci si rivolga sì al singolo, ma sempre inteso come parte.

432 Il riferimento è a un passo di S. Weil, Forme dell'amore implicito di Dio, contenuto in Attesa

di Dio. Crediamo valga la pena trascriverlo nella sua interezza: “Una cosa bella non contiene

altro bene fuorché se stessa, nella sua totalità, così come ci appare. Noi tendiamo verso di essa senza sapere cosa domandarle. Lei ci offre la sua esistenza. Non desideriamo altro, ne entriamo in possesso, e tuttavia continuiamo a desiderare. Ma non sappiamo che cosa. Vorremmo andare al di là, ma essa è soltanto superficie. È come uno specchio che ci rinvia al nostro desiderio del bene. La bellezza è una sfinge, un enigma, un mistero, che ci esaspera in modo doloroso. Vorremmo nutrircene, ma non è altro che un oggetto da guardare, e si manifesta solo a una certa distanza. Il grande dolore della vita umana è che guardare e mangiare sono due operazioni differenti. Unicamente dall'altra parte del cielo, nel paese abitato da Dio,

costituiscono una sola e medesima operazione. Già i bambini provano questo dolore quando, dopo aver guardato a lungo un dolcetto, lo prendono e lo mangiano quasi a malincuore, senza tuttavia riuscire a farne a meno. Forse i vizi, le depravazioni, i crimini sono, nella loro essenza, quasi sempre o addirittura sempre tentativi di mangiare la bellezza, tentativi di mangiare ciò che bisogna soltanto guardare. Eva è stata la prima. Se mangiando un frutto ha dannato l'umanità, l'atteggiamento contrario, ovvero guardare un frutto senza mangiarlo, deve essere l'atto che salva”. Supra, cit. p. 125.

433 “La bellezza del mondo è l'orifizio del labirinto. L'imprudente che vi sia entrato e abbia fatto

qualche passo non sa più ritrovare l'apertura. Sfinito, sprovvisto di acqua e di cibo, nella tenebra, separato dai suoi e da tutto ciò che ama e gli è noto, cammina tentoni, privo di speranza, incapace persino di rendersi conto se avanza davvero o gira a vuoto. Ma questa sventura è nulla se raffrontata al pericolo che lo sovrasta. Perché se non si perde d'animo e

continua a camminare, è fuor di dubbio che infine giungerà al centro del labirinto. E lì lo attende Dio per mangiarlo. In seguito ne uscirà, ma cambiato, ormai divenuto un altro, giacché è stato mangiato e digerito da Dio. Si fermerà allora nei pressi dell'orifizio per spingervi dentro

BIBLIOGRAFIA

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