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Ne bis in idem : il concorso di sanzioni secondo Strasburgo

di Daniele Paolanti

1. – Oggetto della pronuncia della Corte è la presunta violazione dell’art. 6 § 1 CEDU (diritto ad un equo processo entro un termine ragionevole), nonché dell’art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione medesima, ossia il diritto a non essere giudicati e puniti due volte per lo stesso fatto. Il caso portato all’attenzione del giudicante verte sulla responsabilità penale per manipolazione del mercato, causata dalla diffusione al pubblico di una serie di falsi comunicati emessi dal gruppo Exor e Giovanni Agnelli & C. s.a.p.a.

Nell’anno 2002, la società FIAT (di cui Exor era azionista di maggioranza) sottoscrisse un accordo finanziario con otto banche, consistente in un prestito di tre miliardi di euro, con scadenza 20 settembre 2005. L’accordo prevedeva, tra l’altro, che il debito, qualora non fosse stato rimborsato entro la scadenza prevista, sarebbe stato automaticamente convertito in azioni. Le stesse banche avrebbero in questa evenienza acquisito circa il 28% del capitale di Fiat, divenendo azioniste di maggioranza, mentre il gruppo Exor avrebbe subito una decurtazione nella percentuale di partecipazione dal 30% al 22%. Exor e Giovanni Agnelli & C. si rivolsero al sig. Gabetti che, in qualità di Presidente della società Exor S.p.a., per scongiurare la riduzione in minoranza, contattò un avvocato specialista in diritto

societario, Franzo Grande Stevens. Il legale contattato propose una rinegoziazione del debito con una delle banche, Merryl Linch International Ltd., così da permettere ad Exor di conservare la quota di maggioranza. Grande Stevens, formulando una domanda tecnica circa le disposizioni per la rinegoziazione del contratto, diede contestualmente inizio alla procedura con la banca inglese Merryl Linch. La CONSOB, ex art. 114, co. 5 del d.lgs. 58/1998, chiese ai gruppo Exor e Giovanni Agnelli di diffondere un comunicato contenente oltre ad altre informazioni indicate in maniera dettagliata, ogni eventuale procedura di rinegoziazione. Il comunicato reso da questi ultimi, tuttavia, non conteneva alcuna indicazione circa operazioni di rinegoziazione con la banca inglese; nel mentre, l’avv. Grande Stevens procedeva con l’operazione.

Nel mese di febbraio 2007 la CONSOB, dopo essere stata precedentemente informata circa i fatti e ritenendo che la condotta tenuta dai ricorrenti costituisse una manipolazione del mercato, impose sanzioni amministrative di tipo pecuniario ed interdittivo. Nel novembre 2008 fu altresì instaurato un processo penale per i medesimi fatti, in relazione alla presunta violazione delle norme di cui al d.lgs. n. 58/1998. Il Tribunale di Torino, con sentenza del 21-12-2010, assolse gli imputati dall’accusa di manipolazione del mercato per insussistenza del fatto. La Corte di Cassazione, tuttavia, accogliendo il ricorso della Procura, annullò in seguito detta sentenza. Il 28-2-2013, la Corte d’Appello di Torino pronunciandosi in sede di rinvio condannava Gabetti e Grande Stevens per il reato loro ascritto. Questi, avverso detta pronuncia, proponevano ricorso in Cassazione sollevando, in detta sede, questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. il quale prevede espressamente che l'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto. Questo procedimento penale non è tuttavia arrivato a conclusione nel merito per intervenuta prescrizione del reato.

Rivoltisi alla Corte di Strasburgo a causa dell’esercizio dell’azione penale, avviata successivamente ad una condanna amministrativa divenuta definitiva (e non più impugnabile), e ritenendo che il procedimento che ha condotto a quest’ultima fosse viziato, ma non più ricorribile attraverso i rimedi interni, i ricorrenti segnalavano la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione europea nonché dell’art. 4 del Protocollo n. 7.

2. – Con riferimento al procedimento svoltosi davanti alla CONSOB, i ricorrenti invocavano la violazione dell’art. 6 § 1 CEDU, sostenendo che detto procedimento non era stato caratterizzato da sufficiente imparzialità. Non vi sarebbe stata, infatti, un’udienza pubblica nel corso dell’intero procedimento; inoltre i poteri di indagine e di giudizio sarebbero stati affidati ad organi che, sebbene diversi, dipendevano comunque dallo stesso soggetto, e cioè il Presidente della CONSOB. I ricorrenti adducevano ancora la violazione del par. 3 del medesimo articolo, ritenendo di non essere stati adeguatamente informati circa le accuse loro rivolte. Veniva altresì portato alla cognizione della Corte il fatto che i ricorrenti, già sottoposti ad un procedimento di natura amministrativa conclusosi con una sanzione considerevolmente incisiva, venivano ancora assoggettati ad un procedimento penale sui medesimi fatti, in pieno conflitto con il diritto a non essere sottoposti a giudizio due volte per i medesimi fatti, disposto dell’art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione.

Il Governo, costituitosi regolarmente in giudizio, eccepiva che il ricorso era da respingere, perché le informazioni fornite dai ricorrenti non erano veritiere ed erano formulate in modo tale da indurre la Corte in errore circa i fatti. Il Governo sosteneva che in applicazione dell’articolo 23 della legge n. 689 del 1981, tutte i giudizi di opposizione avverso le sanzioni amministrative sono aperte al pubblico, e che l’ufficio IT della CONSOB aveva allegato alla sua relazione istruttoria tutti i documenti dell’inchiesta, quindi anche le difese presentate dai ricorrenti. La lettera della CONSOB che contestava la violazione dell’articolo 187 ter punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998 non era firmata dal presidente della CONSOB, bensì dal capo della divisione mercati e consulenza economica e dal direttore generale delle attività istituzionali della CONSOB. Il presidente della CONSOB non aveva svolto alcun ruolo nella fase che aveva preceduto la decisione sull’applicazione delle sanzioni. Il Governo ricordava che era stato concesso un termine di trenta giorni per presentare eventuali osservazioni alla nota complementare dell’ufficio IT del 19 ottobre 2006, e che i ricorrenti si erano in effetti avvalsi di tale facoltà il 24-11-2006, senza lamentare la limitatezza del tempo che avrebbero avuto a disposizione. Il Governo osservava che nemmeno i ricorrenti avevano mai chiesto la convocazione e l’audizione di testimoni davanti alla CONSOB. Infine, l’Avv. Grande Stevens era stato accusato di avere preso parte alla decisione che aveva portato alla redazione dei

comunicati stampa; la menzione della sua qualità di direttore della Exor aveva come unico scopo di indicare che egli faceva parte dell’alta dirigenza della società e che quindi la sua condotta poteva essere attribuita a questa.

3. – La Corte si premura di evidenziare, con riguardo al punto controverso, che la posta in gioco finanziaria era importante. Infatti i ricorrenti sono stati condannati dalla CONSOB e dalla Corte d’Appello di Torino a pagare 3.000.000,00 €. Inoltre i sigg. Gabetti e Grande Stevens, all’esito del successivo procedimento penale, avrebbero potuto essere condannati a pagare sanzioni pecuniarie che andavano da 20.000,00 a 50.000 €, e a subire misure restrittive della libertà personale. Nei loro confronti avrebbe potuto essere altresì applicata una misura particolarmente incisiva, consistente nel divieto di assumere incarichi di amministrazione, controllo e direzione di società quotate in borsa, condizione che avrebbe potuto rivelarsi significativamente lesiva dell’onore e decoro professionale (Eon c. Francia, n. 26118/2010, § 34, 14-3-2013). L’esame del merito della causa dunque, secondo la Corte EDU, si rende necessario per il rispetto dei diritti dell’uomo (Nicoleta Gheorghe c. Romania, n. 23470/05, § 24 ed Eon, cit. 1, § 35). Precisando che si tratta della prima causa di questo tipo che la Corte è chiamata ad esaminare per quanto riguarda l’Italia, i giudici ritengono meritevole una valutazione di equità sia per il procedimento svoltosi davanti alla CONSOB sia circa alla conformità alla CEDU di un procedimento penale che si svolga dopo sanzioni emanate da quest’ultima.

La Corte, per stabilire se una norma sia di natura penale ai fini dell’art. 6 CEDU, ricorda che, secondo la sua giurisprudenza, occorre valutare la natura della pena e la severità della sanzione, mentre non ha rilievo la qualificazione della pena nel diritto nazionale (Engel et al. C. Paesi Bassi, 8-6-1976, § 82, serie A n. 22). La qualificazione delle sanzioni deve infatti avvenire in base ai parametri di Strasburgo, non della legge nazionale, e quindi alla luce dei criteri ricordati, che hanno carattere alternativo e non cumulativo. Affinché una norma possa dunque essere qualificata come penale ai sensi dell’art. 6, è necessario e sufficiente che la fattispecie sia di natura penale rispetto alla Convenzione o che abbia esposto l’interessato a una sanzione che per natura o livello di gravità possa essere considerata penale. Riconosciuto che i comportamenti ascritti ai ricorrenti sono puniti nell’ordinamento

italiano con sanzione qualificata dall’art. 187 ter del d.lgs. n. 58 del 1998 come

amministrativa, la Corte sottolinea che ciò non è rilevante ai fini dell’applicazione del profilo penale di cui all’art. 6, assumendo le indicazioni del diritto interno valore puramente “relativo” (Öztürk c. Germania, 21-2-1984, § 52, serie A n. 73, e Menarini Diagnostics S.r.l., § 39). Poiché dunque il carattere penale di un procedimento è subordinato al grado di severità della sanzione, ne emerge che le ammende irrogate erano, considerato il loro ammontare, di innegabile severità, tale da determinare nei confronti dei ricorrenti conseguenze patrimoniali particolarmente incisive. Considerata dunque l’identità dei fatti sottoposti ai due procedimenti, consistenti nella stessa condotta illecita, ossia la dichiarazione al mercato mediante comunicato che Exor non aveva né studiato né intrapreso iniziative relative al prestito che stava per essere convertito, nonostante la conclusione dell’accordo di rinegoziazione, la Corte ritiene violata la norma di cui all’art. 4 protocollo n. 7 CEDU (ne bis in idem) e condanna l’Italia a versare a ciascun

ricorrente diecimila euro per il danno morale e quarantamila euro per le spese. La Corte indica anche che lo Stato deve altresì interrompere il procedimento penale ancora aperto nel più breve tempo possibile e senza conseguenze pregiudizievoli per i convenuti.

Il Governo aveva provato anche ad eccepire che il diritto dell’Unione europea avrebbe autorizzato il ricorso a una doppia sanzione (amministrativa e penale) nella lotta alle condotte abusive sui mercati finanziari. I giudici di Strasburgo precisano invece che la CGUE ha in un noto precedente sostenuto che in virtù del principio del ne bis in idem, uno Stato può imporre una doppia sanzione per gli stessi fatti solo

a condizione che la prima sanzione non sia di natura penale (Corte di Giustizia dell’UE (Grande Sezione), sentenza del 26-2-2013, Åklagaren c. Hans Åkerberg Franssonn, C-617/10).

La Corte Europea ha aggiunto che il procedimento innanzi alla CONSOB è altresì viziato poiché, sebbene l’illecito sia di natura amministrativa, esso si sostanzia in un’accusa di tipo penale, dovendo di conseguenza osservare le garanzie che l’art. 6 riserva ai processi penali. La Corte conviene che nel procedimento innanzi la CONSOB vi è stata assenza di contraddittorio, di un’adeguata udienza pubblica, oltre all’irrogazione di sanzioni particolarmente severe. A determinare ulteriore

contrasto con la Convenzione vi sarebbe stato anche il fatto che i poteri di indagine e di giudizio sarebbero stati affidati allo stesso organo, e cioè il Presidente della CONSOB, contravvenendo dunque a quei principi di imparzialità consolidati da un’abbondante giurisprudenza della stessa Corte (Padovani c. Italia, 26-2-1993, § 20, serie A n. 257-B; Thomann c. Svizzera, 10 giugno 1996, § 30, Recueil des arrêts et décisions 1996-III; Ferrantelli e Santangelo c. Italia, 7 agosto 1996, § 58, Recueil 1996-III; Castillo Algar c. Spagna, 28 ottobre 1998, § 45, Recueil 1998-VIII; Wettstein c. Svizzera, n. 33958/96, § 44, CEDU 2000 XII; Morel c. Francia, n. 34130/96, § 42, CEDU 2000-VI; e Cianetti c. Italia, n. 55634/00, § 37, 22-4-2004. Sulla mancanza di imparzialità di un organo giudicante in cui funzioni di indagine e di giudizio siano affidate ad uno stesso organo si veda Piersack c. Belgio, 1-10-1982, §§ 30-32, serie A n. 53, e De Cubber c. Belgio, 26-10-1984, §§ 24-30, serie A n. 86).

4. – Potrebbe essere di qualche utilità ora, ai fini di una migliore valutazione della portata della sentenza che qui si esamina, un’indagine sul significato che la Corte EDU tende ad attribuire alle locuzioni accusa e sanzione penale, poiché le valutazioni ad opera degli Stati in ordine alla qualificazione di un’accusa o di una sanzione assumono portata relativa.

Come autorevole dottrina non ha mancato di rilevare, alcune delle espressioni contenute nell’art. 6 della Convenzione, tra cui accusa penale, hanno un significato del tutto autonomo rispetto a quello proprio dei singoli Stati membri del Consiglio d’Europa (M. Allena, L’Art. 6 CEDU come parametro di effettività della tutela procedimentale e giudiziale all’interno degli stati membri dell’Unione Europea, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 2012, 2, p. 272). La ragione sottesa a detta tendenza

risiede nel fatto che la Corte mira ad evitare facili elusioni della norma sull’equo processo e ad assicurare ai soggetti interessati il pieno godimento delle garanzie previste dall’art. 6 CEDU. A partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento, la Corte ha così ricondotto al significato di sanzione penale tutte quelle sanzioni, comprese quelle di carattere amministrativo, che presentavano caratteri simili alle sanzioni irrogate dal giudice penale. Detto orientamento si consolida con la ferma posizione della Corte tesa a qualificare come penali anche le norme che, pur non prevedendo privazioni della libertà personale, prevedono incisive afflizioni patrimoniali (Talvolta la Corte ha ricompreso nella categoria norme che prevedono

un ammontare piuttosto modesto in caso di loro violazione: sul punto v. Corte Europea dei diritti dell’uomo, 2 settembre 1998, caso 26138/1995, Lauko Vs. Slovachia, § 58 ove si precisa che la tenuità della posta in gioco non determina il venir meno del carattere penale della violazione). Non vi è dubbio quindi che oggi, ai fini della Convenzione europea, possono assumere una connotazione penalistica le sanzioni amministrative irrogate ai sensi della legge di depenalizzazione n. 689/1981 (M. Allena, L’Art. 6 CEDU come parametro di effettività della tutela procedimentale e giudiziale all’interno degli stati membri dell’Unione Europea, Op. cit., p. 275).

A detta conclusione si è pervenuti a seguito di un’importante pronuncia della Corte nel caso Menarini c. Italie (Causa A. Menarini Diagnostic s.r.l. c. Italia - Seconda

Sezione – sentenza 29-11-2011, ricorso n. 43509/08). Nel caso di specie la società ricorrente era stata condannata al pagamento di una sanzione pecuniaria di 6 milioni di euro, inflittale dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato all’esito di un’inchiesta per pratiche anticoncorrenziali nel mercato dei test per la diagnosi del diabete. Anche in detta sede si segnalò la presunta violazione dell’art. 6 § 1 CEDU e la Corte ribadì innanzitutto che, sebbene fosse conferito alle autorità amministrative il compito di perseguire e sanzionare gli illeciti, detta funzione non è incompatibile con la Convenzione, poiché il soggetto interessato deve essere in grado di impugnare ogni decisione adottata nei suoi confronti davanti ad un giudice che offra tutte le garanzie di cui all’articolo 6 CEDU (diritto ad un equo processo) con cui si è stabilito che l’art. 6 CEDU era applicabile anche nei casi di sanzione emessa dall’autorità garante della concorrenza e del mercato (a seguito di un’intesa restrittiva della concorrenza). Tuttavia, il precedente che meglio consente di comprendere il carattere penale di una norma è il noto caso Engel and Others v. The Netherlands del

1976. In detta sede si arrivò a precisare come tale qualificazione si riferisse ad una

norma che presentasse un connotato “intrinsecamente penale”, indipendentemente dalla qualifica che allo stesso è attribuita dall’ordinamento interno. Ulteriore elemento rilevante per la Corte di Strasburgo è che vi sia violazione di una disposizione rivolta ad una generalità di consociati. La sanzione corrispondente a detta infrazione deve avere, sempre secondo la giurisprudenza della Corte Europea, natura deterrente e repressiva. La Corte esclude quindi quelle sanzioni che potrebbero ricondursi, ad es., alle misure disciplinari. Altro elemento utile ai fini della definizione risulta essere proprio il grado di severità della sanzione, poiché non

potrebbero considerarsi penali le sanzioni che, in ragione della loro durata o modalità di esecuzione, non sono sufficientemente incisive (M. Allena, L’Art. 6 CEDU come parametro di effettività della tutela procedimentale e giudiziale all’interno degli stati membri dell’Unione Europea, Op. cit., p. 274).

5. – Tratteggiati sinteticamente i caratteri della sanzione penale così come definiti dalla Corte Edu nei suoi precedenti più rappresentativi, resta ora da capire quali siano nell’ordinamento italiano le peculiarità della sanzione amministrativa, per meglio comprendere le ragioni che hanno indotto i giudici di Strasburgo a ritenere la medesima equiparabile ad una sanzione penale, in un certo numero di casi. In primo approccio, la sanzione amministrativa altro non è se non la manifestazione dell’esercizio di un potere amministrativo. La sua irrogazione scaturisce, principalmente, da quelle stesse esigenze generali di prevenzione che si ritrovano nella sanzione di carattere penale (P. Cerbo, Nuovi problemi in materia di sanzioni amministrative, in Diritto&Diritti, 2002, reperibile al sito

www.diritto.it/articoli/amministrativo/cerbo.html). Elementi che tuttavia potrebbero consentire di distinguere le due sanzioni, stanti i caratteri rinvenibili nella legge 689/1981, sarebbero l’impossibilità per le sanzioni amministrative di incidere sulla libertà personale; un diverso termine di prescrizione (il termine di prescrizione è di cinque anni ex art. 28 L. 689/1981); oltre alla presunzione di colpevolezza nell’accertamento (Cass. Pen., sez. I, 21-1-2000, n. 664, secondo cui per effetto della presunzione di colpevolezza l’elemento soggettivo dell’illecito si presume sino a quando il destinatario del provvedimento non dimostri l’assenza di colpa; si veda al riguardo anche G. Nacci, Appunti in tema di violazioni amministrative e prova dell’elemento soggettivo, nota a Trib. Pordenone, sentenza 23-12-2009 n. 1061/2009 - estensore

Clocchiatti, reperibile presso il sito internet

www.forumnaonis.it/files/304/nota%201061.pdf), rigorosamente esclusa per gli illeciti penali, siano gli stessi delitti o contravvenzioni (Cass. pen., III, 15 -4-1997, n. 4511).

Le sanzioni amministrative irrogate nel caso di specie, trovano la propria fonte nel d.lgs. 58/1998, cioè il Testo Unico delle disposizioni in materia di mercati finanziari.

Detta normativa è stata inserita nell’ordinamento italiano affinché fossero tutelati interessi di primaria importanza per il corretto funzionamento dei mercati finanziari,

ma anche per l’introduzione di adeguate misure sanzionatorie volte a garantire l’osservanza di una serie di obblighi funzionali (A. Valenti, D.lgs. 58/1998. Il sistema delle sanzioni penali ed amministrative, in Le Società, 1998 n. 5, p. 566). La condotta

censurata dalla CONSOB, e poi oggetto di ulteriore procedimento penale, consiste in un’omissione di comunicazioni ritenute necessarie per l’adeguato funzionamento del mercato. La norma posta a presidio dell’interesse ritenuto leso dal comportamento dei ricorrenti è l’art. 187 ter del testo unico citato, il quale

espressamente prevede che «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro ventimila a euro cinque milioni chiunque, tramite mezzi di informazione, compreso internet o ogni altro mezzo, diffonde informazioni, voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari». Ne emerge dunque come la sanzione prevista sia particolarmente severa, tale da incidere considerevolmente sulla sfera patrimoniale del soggetto sanzionato. La Corte pertanto ha ritenuto opportuno, alla luce della sua natura e grado di severità, equiparare tale misura ad una sanzione penale.

6. – La dottrina sostiene che, nonostante l’enunciazione nelle carte internazionali e nelle norme costituzionali, è piuttosto difficile ammettere l’effettività del principio del giusto processo (B. Piattoli, Ne bis in idem europeo, in Cassazione Penale, 2007, n. 6, p. 2642). Tuttavia la Corte Europea con la sua giurisprudenza ha

fornito sempre più contenuto concreto a questo diritto, arrivando, in un noto precedente (Stoichkov c. Bulgaria, Prima Sezione, no. 9808/02, 24-3-2005), a sollevare il problema dell’eseguibilità di una pronuncia considerata non equa. Detta posizione è stata accolta dalla Corte di Cassazione italiana, la quale è arrivata ad ammettere che il giudice dell’esecuzione debba dichiarare l’inefficacia del titolo esecutivo formatosi a seguito di un processo per il quale la Corte europea abbia rinvenuto una violazione dell’art. 6 della Convenzione (B. Piattoli, Ne bis in idem europeo, Op. cit., p. 2642).

Posto l’impegno dello Stato di assicurare adeguata applicazione alle norme della CEDU, rimane ora da valutare la controversa questione circa l’esistenza di due procedimenti per i medesimi fatti dai quali scaturiscono, o avrebbero potuto scaturire, sanzioni qualificate dalla Corte entrambe come penali. Nella sua costante

giurisprudenza al riguardo, come si è già notato, la Corte di Strasburgo ha qualificato una sanzione come penale in presenza di uno dei tre caratteri ricordati. Nel caso che qui si commenta, la Corte ha ritenuto che vista la severità delle sanzioni della Consob e la ripercussione delle medesime nella sfera di interessi dei ricorrenti, le

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