Il teatro comunale in questa sera fu molto brillante. Fra i due atti s’intuonarono l’inno marsigliese, cantato bestialmente dal Noel, ed altro Inno italiano, e peggio ancora, dalla Mancini. Il tenore diede la nuova della resa di Lugo, Ferrara e Massalombarda. Poco appresso, alzatosi il sipario, il palcoscenico fu in buon ordine occupato da circa duecento Guardie Nazionali della migliore gioventù, preceduti dal tricolorato vessillo, e che presentavano tre compagnie, insieme unite, di Romagnoli, Ferraresi e Bolognesi. Il sig. Federico Pescantini, fattosi avanti ad ognuno, recitò un veemente discorso sui pregi della libertà ed onore del nome italiano e l’abbassamento di ogni altro dispotico governo. Fu questi interrotto da giudiziose sospensioni, e dal generale applauso di ogni buon italiano. Compiuto il discorso, recitò egli la scena della Francesca da Rimini e con quel fuoco e verità che deve essere in ogni libero petto110.
Così il Conte Francesco Rangone, ferrarese di nascita e bolognese d’adozione, registrò nelle sue memorie ciò a cui assisté nel più importante teatro felsineo la sera del 7 febbraio 1831. Tre giorni prima, nella notte tra il 4 e il 5, una manifestazione di piazza aveva ottenuto che il prolegato in carica, cardinal Bernetti, lasciasse i propri poteri a una commissione provvisoria composta da notabili cittadini di tendenze moderate. Da questa commissione, nacque il Governo Provvisorio della città e della provincia di Bologna, guidato dall’avvocato Giovanni Vicini, che venne poi sostituito dal Governo delle Provincie Unite, nato dall’assemblea dei rappresentanti dei territori
109 Sui primi anni di attività di Modena cfr. ivi, pp. 17-18, 50-51. 110
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insorti, convocata a Bologna il 26 febbraio111. Il vento soffiato dalle giornate parigine di luglio era giunto anche nella penisola e a cadere furono alcuni dei più deboli governi preunitari: dai ducati di Parma e Modena, la rivoluzione si estese allo stato pontificio, specialmente a Bologna e nelle Marche112. Qui, l’avversione crescente nei confronti del governo reazionario imposto sin dal 1823 col pontificato di Leone XII si rivelò essere terreno fertile perché la popolazione bolognese rispondesse con grande adesione all’azione rivoluzionaria.
Con gli avvenimenti del 4 febbraio, prese avvio anche la cronaca del conte Rangone: una descrizione quotidiana e in presa diretta della rivoluzione cittadina, in grado di dare conto non solo del succedersi degli eventi politici, ma di immergere il lettore nel vivo di ciò che accadde a Bologna in quei giorni concitati, conducendolo per le strade, nelle piazze e nei teatri.
La puntualità del resoconto presentato in apertura, pur nella sintesi della descrizione, restituisce il sapore di una serata teatrale eccezionale, costruita attorno ad un programma che includeva una buona dose d’improvvisazione, e in cui racconto drammatico e cronaca insurrezionale si avvicendavano. Dal canto della Marsigliese e di un non meglio precisato Inno italiano, il tenore protagonista passò ad annunciare la resa dei centri vicini; Federico Pescantini, lasciate temporaneamente le scene medievali della Francesca da Rimini, si lanciò in un appassionato discorso sulla libertà e l’onore italiano, interrotto dall’approvazione del pubblico; ma fu quando comparvero sul palco i duecento uomini della Guardia Nazionale che il presente politico irruppe sulla scena: questa volta in carne ed ossa, e guidato dal verde dal bianco e dal rosso del nazionale vessillo. Ripresa e compiuta la rappresentazione della tragedia di Silvio Pellico, lo stendardo tricolore condusse i giovani militari per le strade, fino a giungere al teatro del Corso, dove calcarono nuovamente il palcoscenico prima di presentarsi anche al pubblico del teatro Contavalli113. Senza una testimonianza diretta, si può solo immaginare ciò che si svolse in queste sale, e non sembra inopportuno presumere che, per composizione e contenuto, si compirono trattenimenti analoghi a quello descritto. Nel corso di quella sera, ciò che si mostrò ai bolognesi accorsi a teatro era un intreccio tra rappresentazione scenica e realtà presente, tra tempi organizzati ed altri estemporanei: una combinazione, anche di generi, che avrebbe contraddistinto l’impianto di ogni momento teatrale del periodo rivoluzionario; una combinazione senza dubbio efficace nell’innescare la partecipazione
111
Sulle fasi iniziali della rivoluzione nelle Legazioni cfr. M. Caravale, A. Caracciolo, Lo stato pontificio da Martino V
a Pio IX, vol. XIV, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, UTET, Torino, 1986, pp. 617-618. Sull’insurrezione
bolognese si veda, anche se datato, G. Natali, Intorno ai moti del 1831 in Bologna, Stabilimenti poligrafici riuniti, Bologna, 1931.
112
Sulla rivoluzione del 1830 e sul suo valore periodizzante (ha scritto Soldani che il 1830 si presenta come «punto di non ritorno», p.52), si rinvia a S. Soldani, Il ritorno della rivoluzione, in Storia Contemporanea, Donzelli Editore, Roma, 1997, pp. 49-54, e a E. Morelli, Note sul biennio 1831-1832, in Studi storici in onore di Gioacchino Volpe, vol. II, C. G. Sansoni Editore, Firenze, 1958, pp. 665-677.
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attiva del pubblico, poiché, come ha scritto Carlotta Sorba, «combinando modalità di espressione diverse, narrative, musicali e performative oltre a un’interazione molto particolare tra soggetti sociali, la scena risulta luogo impareggiabile di emersione del discorso politico»114. Certo, episodi di emersione del discorso politico non furono una prerogativa della rivoluzione bolognese, al contrario, si trattò di un fenomeno di lungo periodo che percorse tutta l’Italia: dagli anni Venti agli anni Sessanta molte furono le azioni di protesta politica messe in atto nei teatri115, le quali toccarono punte di maggior diffusione e coinvolgimento in concomitanza dei periodi più caldi del Risorgimento.
Nel 1831, a Bologna, gli eventi politici varcarono la soglia delle sale di spettacolo ben prima che l’insurrezione divenisse fatto compiuto: lo affermava «Il Precursore», periodico che nacque e morì insieme alla rivoluzione, il quale nel suo primo numero scrisse «erano mesi che le voci di libertà quasi apertamente si manifestavano nei pubblici caffè, nei teatri, nelle strade»116. Risale al settembre precedente un episodio di cui si resero protagonisti Giacomo e Gustavo Modena, all’epoca capocomico e primo attore della Compagnia Modena e Socj. Un rapporto117
compilato dal Cavalier Ispettore del teatro del Corso e inviato al Presidente della Direzione degli Spettacoli, informava che la sera del 2, Gustavo era stato multato per aver «ripetuto un discorso» durante una scena del primo atto della Francesca da Rimini e che al termine dello spettacolo si sarebbe levato dal pubblico «un prolungato e indecentissimo fracasso». Dall’atrio del teatro poi era stato tolto il cartello che annunciava per l’indomani la rappresentazione di una commedia e, proseguiva l’ispettore, avendone chiesta ragione al capocomico, questi aveva dichiarato di voler replicare la tragedia, intenzione che fu immediatamente impedita dal divieto posto dal funzionario. Il rapporto non rivela cosa disse Gustavo Modena durante la recita del primo atto; considerando tuttavia che la punizione non andò oltre il pagamento di uno scudo romano, si immagina che si trattò di una violazione di una qualche interdizione posta dal Revisore teatrale, con la pronuncia di parole o frasi che dall’originale pellichiano erano state modificate o eliminate; oppure, ipotesi altrettanto
114
C. Sorba, Audience teatrale, costruzione della sfera pubblica ed emozionalità in Francia e in Italia tra XVIII e XIX
secolo, in M. L. Betri (a cura di), Rileggere l’Ottocento, Carocci, Roma, 2010, p. 194.
115 Si tratta di episodi contenuti, più assimilabili a «gesti di sfida all’ordine costituito» che a veri e propri disordini (ivi,
p. 197). Si vedano: per il caso milanese G. Spaepen, «Governare per mezzo della Scala». L’Austria e il teatro a Milano, in «Contemporanea», 4, 2003, pp. 593-620; per quello catanese A. Signorelli, Catania borghese nell’età del
Risorgimento. A teatro, al circolo, alle urne, Franco Angeli, Milano, 2015, pp. 56-59; per quello pavese, un episodio di
ribellione studentesca è segnalto da A. Arisi Rota, La vita studentesca, in Almum Studium Papiense. Storia
dell’università di Pavia dal Medioevo al XXI secolo, vol. 2, D. Mantovani (a cura si), Dall’età austriaca ai primi del Novecento, tomo II, Dalla Restaurazione alla Grande guerra, pp. 747-750; una rapida carrellata di episodi accaduti in
diverse città italiane è poi offerta da C. Sorba, Teatri. L’Italia del melodramma, cit., pp. 215-216.
116 Bologna, il 4 febbraro, in «Il Precursore», n. 1, 8 febbraio 1831.
117 ASCBo, Serie Deputazione dei Pubblici spettacoli, b. 1830, Titolo III, Polizia nei teatri, f. 1, Costume e decenza
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probabile, l’attore scelse di soffermarsi, declamandolo una o più volte, su un passaggio dal significato allusivo.
Un altro episodio, inscenato da un gruppo di universitari, si verificò al teatro Contavalli118. Oreste Trebbi, che ha narrato la vicenda, ha rivelato che del fatto si diffusero per via orale diverse versioni, a causa delle quali restarono incerti la data, l’opera in scena, così come l’attore protagonista. Ciò che senza dubbio accadde fu che durante la recita di una tragedia alcuni studenti «montarono sulle panche, battendo i bastoni e inveendo contro una parte del pubblico, che forse non condivideva il loro entusiasmo». Nella versione di Trebbi, l’opera in questione era l’alfieriano Oreste, in quella raccontata dalla biografia di Luigi Carlo Farini – il futuro protagonista del Risorgimento e “dittatore” delle province dell’Emilia e della Romagna nel 1859119
– coinvolto nell’episodio, si trattava ancora una volta della Francesca da Rimini. Nella biografia risulta poi che proprio il Farini, dopo aver preso parte al chiasso, avrebbe gridato «Viva l’Italia! Morte ai tiranni!». Trebbi smentisce le urla, ritenendo che, se realmente ci fossero state, il responsabile avrebbe preso almeno quattro giorni di prigione, mentre al Farini venne imposto solo «l’arresto in casa con intimazione di raggiungere entro ventiquattro ore il suo paese d’origine». Nonostante le discrepanze e l’incertezza che le grida siano state davvero pronunciate, questa vicenda, attraverso la trasmissione orale, si è trasformata in un episodio patriottico, ed è lo stesso Trebbi a riferirlo. Le fonti non ci danno modo di conoscere né cosa determinò l’atteggiamento chiassoso del pubblico, sia del Contavalli sia del Corso, né le parole che pronunciò Modena; ciò che invece emerge, leggendo tra le righe, è come fossero sufficienti pochi elementi per provocare l’attivazione del pubblico e per trasformare un semplice atto di entusiasmo o di protesta avvenuto in sala in una manifestazione di patriottismo. Un singolo lemma o frase, una più intensa enfasi esecutiva, uno specifico elemento visivo, la presenza di un particolare interprete o, ancora, un repertorio recepito come patriottico: la reazione del pubblico poteva essere mossa da una pluralità di fattori e, a sua volta, assumere forme diverse: battere con i bastoni, rumoreggiare, lanciare grida esplicitamente sovversive, manifestare con fragorosi applausi il proprio apprezzamento, sottolineando un passaggio della pièce particolarmente significativo, o richiedendone la ripetizione120. Tutte queste forme di espressione innescavano una sorta di scambio tra palco e platea121, che andava ad annodarsi a doppio filo quando era l’interprete
118 O. Trebbi, Il Teatro Contavalli di Bologna: cronaca riassuntiva, Zanichelli, Bologna, 1939, pp. 32-33. Secondo
Trebbi, l’episodio ebbe luogo l’11 febbraio 1830, durante un’esecuzione dell’Oreste di Alfieri, in cui il ruolo del protagonista era interpretato da Federico Pescantini. Nella versione di Alfonso Marescalchi, colui che si occupò di scrivere la vita del Farini e che è lo stesso Trebbi a citare, l’episodio risale ad un anno prima, ossia al 20 febbraio 1829, durante la recita della Francesca da Rimini, nella quale il ruolo di Paolo era ricoperto dal conte Sebastiano Bologna.
119
Sulla figura di Farini si rimanda alla voce dedicatagli nel DBI, vol. 45, 1995, pp. 31-42.
120 Tutte queste pratiche sono espressione della tipica prassi dello «standing parterre», consuetudine che in Italia
persisté più a lungo rispetto ad altri paesi europei, si veda C. Sorba, Audience teatrale, cit., pp. 194-195.
121 Alla base di questo scambio sta proprio la capacità del pubblico di assumere il ruolo di «soggetto attivo» cfr. ivi,
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in scena a farsi per primo attore politico, manifestando i suoi sentimenti più o meno apertamente, come fece Pescantini nel corso della serata da cui siamo partiti, o come fece, forse in maniera più velata, Gustavo Modena al teatro del Corso. Non sembra azzardato avanzare l’ipotesi che gli stessi elementi che scatenavano la reazione del pubblico in sala giocassero un ruolo anche nel momento della diffusione di un fatto avvenuto in teatro: l’episodio narrato da Trebbi mi spinge a credere che nella trasposizione in racconto e nella trasmissione della vicenda da un bolognese all’altro, la rappresentazione di un’opera quale Francesca da Rimini o una tragedia alfieriana, insieme alla presenza di un attore quale Pescantini, considerato uomo dai sentimenti patriottici, erano forse presupposti sufficienti per ritenere che al Contavalli fosse stato compiuto un atto di manifestazione nazionale e non un semplice fracasso giovanile, pur senza avere la certezza che il grido «Viva l’Italia! Morte ai tiranni!» fosse stato realmente pronunciato.
Per comprendere come fosse possibile questo tipo di attivazione è necessario fare luce su quelli che Sorba ha definito «meccanismi di ricezione» e sui quali lei stessa ha indagato, concentrandosi sul genere melodrammatico122. Per addentrarsi all’interno di tali meccanismi è necessario considerare sia la predisposizione del pubblico, intesa come «sistema di aspettative esplicite e latenti», sia le determinazioni del contesto. Nel lungo quarantotto, arco cronologico al quale è rivolta la riflessione della storica, il presupposto indispensabile al fine di far scaturire pienamente il «potenziale di coinvolgimento politico» dell’opera fu l’allentamento del controllo censorio e poliziesco. In un tale contesto di apertura, l’interazione del pubblico con la scena, tipica del melodramma e che sfruttava i codici propri di questo genere – il genere di spettacolo più acclamato, più diffuso e, senza dubbio, più comunicativo del XIX secolo – si rivestiva di nuovo significato. La sua capacità di legarsi all’attualità, di coinvolgere ed emozionare gli spettatori, la forza esecutiva dei suoi interpreti insieme alla prassi del parterre attivo, resa ancor più viva dal sentimento di entusiastica attesa che percorreva il pubblico, fecero dell’opera un veicolo di rappresentazioni e sentimenti nazional-patriottici.
L’analisi brevemente rievocata, sebbene applicata al caso quarantottesco e al genere lirico, offre dei preziosi strumenti analitici utili a guardare con maggior chiarezza a ciò che accadde nei teatri della Bologna del 1830-1832. Nelle fasi apertamente rivoluzionarie del Risorgimento italiano, l’apertura liberale consentiva non solo una programmazione ricca di titoli che erano solitamente proibiti, ma una dilatazione dello spazio di scena, inteso sia come spazio fisico, visivo, materiale, da riempire e manipolare assegnandogli una specifica valenza, sia come spazio d’azione dell’interprete, il quale, esprimendosi liberamente, aveva l’opportunità di farsi portavoce di ideali e
122 Sulle modalità della ricezione patriottica si veda Ead., Il Risorgimento in musica: l’opera lirica nei teatri del 1848,
in A. M. Banti, R. Bizzocchi (a cura di), Immagini della nazione nell’Italia del Risorgimento, Carocci, Roma, 2010, in particolare pp. 136-149.
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aspirazioni altrimenti celati. Se a questo si aggiunge l’acutizzarsi del senso d’attesa dell’audience teatrale, che rendeva gli spettatori particolarmente sensibili ad ogni elemento visivo, testuale o esecutivo che in qualche modo potesse risultare un richiamo alla patria, si può comprendere come specifici meccanismi comunicativi abbiano potuto mettersi in funzione anche nel genere drammatico.
Nei periodi più caldi del Risorgimento dunque i teatri, quale principale luogo pubblico cittadino vennero via via coinvolti negli eventi: si trattava di un coinvolgimento in crescendo, che cominciò, come abbiamo visto, in anticipo sull’avvio vero e proprio dell’insurrezione, e che, nel volgere di breve tempo, avrebbe toccato momenti di intensa partecipazione, anche molto diversi fra loro. Volendo riconoscere un momento preciso che rappresenti, almeno idealmente, il punto d’inizio di questo percorso di coinvolgimento dei teatri bolognesi, lo si può individuare nell’arrivo della notizia della rivoluzione di luglio a Parigi, che accese le speranze e le attese di molti. L’incontro con l’entusiasmante annuncio è stato fissato nei suoi ricordi da Marco Minghetti, all’epoca dodicenne:
Eravamo in campagna […], ed ecco giungere […] un fratello di mia madre, Pio Sarti […]. Veniva in gran fretta, e agitava da lontano alcuni fogli. Erano i giornali che recavano la notizia della rivoluzione di Parigi. Questo mio zio era un liberale ferventissimo, mescolato in tutte le cospirazioni di quel tempo. Dunque fu letto, me presente, tutto ciò che i giornali narravano, esaltando quelle così dette eroiche giornate e traendone grandi speranze per l’avvenire123
.
Ma fu a partire da sabato 5 febbraio che le «potenzialità patriottiche»124 delle scene teatrali esplosero con inedita forza. Non appare una forzatura affermare che i quarantacinque giorni della rivoluzione bolognese – e gli strascichi dei mesi successivi – furono una “micro-rappresentazione”, locale e di breve durata, di ciò che si sarebbe manifestato in molte città italiane (anche nella stessa Bologna) nel corso del lungo quarantotto.
Dalla mattina del 5 febbraio, un segnale inequivocabile rese noto a tutti i bolognesi che l’insurrezione aveva avuto inizio: nel volgere di una notte, forse anche meno, la città si tinse dei colori patri e, nelle narrazioni dei contemporanei, nessuno mancò di sottolineare la presenza del tricolore. Lo scrisse «Il Precursore»: «la mattina del sabbato[sic] la bandiera tricolore italiana sventolava in piazza, le coccarde tricolore erano in tutti i cappelli, la goija su tutti i volti»125; lo segnalò il cronista Rangone126, e lo ricordò il giovane Minghetti, colpito da quanto vide in piazza Maggiore: «quivi era un mondo di gente che andava e veniva; i più parevano stupiti, altri curiosi, altri davano segni d’allegrezza […]: dinnanzi al palazzo del Podestà avevano innalzato una bandiera
123 M. Minghetti, Miei ricordi, vol. I (1818-1848), L. Roux e C. Editori, Torino-Roma-Napoli, 1888, p. 4. 124 C. Sorba, Il Risorgimento in musica, cit., p. 136.
125 Bologna, il 4 febbraro, cit. 126
41 tricolore, alla quale un giovane faceva la guardia […]»127
; un altro giovane, il diciassettenne Savino Savini, avvertito dalla propria cameriera che «la bandiera tricolorata sventola[va] in molti luoghi della città», andò ad assicurarsene di persona: «parto di casa – scrisse – e vedo che i tre colori Bianco Verde e Rosso sono in una bandiera posta in una colonna del Teatro Comunale. Subito conobbi che la rivoluzione che andava girando per l’Europa era venuta in Bologna»128
. Le bandiere tuttavia non erano l’unico segnale129
: «bello fu poi il vedere come i negozianti di stampe e di panni e di telerie cacciarono fuori tutte le incisioni riguardanti Napoleone, siccome la Carta Costituzionale e gli ultimi fatti della gran settimana di Parigi. Per ogni lato vendevansi degli inni patriottici e si distribuiva la nazionale coccarda»130, coccarde che, metteva in risalto «Il Precursore», per la maggior parte erano state fatte dalle donne131. I simboli tricolori e gli inni patriottici che si diffondevano per la città conquistarono anche i teatri: quella sera, gli attori si presentarono al pubblico ornati della fascia tricolore132, e passarono pochi giorni prima che sul palco venisse esibito lo stendardo nazionale, mentre i canti patriottici divennero colonna sonora della maggior parte dei serali intrattenimenti. L’entusiasmo era tale che bastava un emblema tricolore sul petto di chi calcava il palcoscenico perché il pubblico perdonasse serate di cattive performance: con la fascia bianco-rosso-verde, segnalò Rangone, «si trovarono applauditi quei cantanti ch’erano venuti a noia a ciascuno, e poté l’impresario lusingarsi di riparare alle gravose sue perdite»133; ed intonare l’inno francese o un inno italiano, anche se «bestialmente», faceva guadagnare consensi anche agli interpreti mediocri, quasi che farsi portavoce del sentimento nazionale fosse sufficiente per far dimenticare al pubblico la scadente prestazione, e che diventasse addirittura occasione di riscatto. Con questo non si deve pensare che la qualità di un’esecuzione fosse divenuto un elemento trascurabile, al contrario: per una platea la cui sensation d’attente era così acutizzata, assistere all’espressione di «sentimento patrio e bellezza di stile»134 riunite in un solo interprete, sarebbe stata un’esperienza innegabilmente più elettrizzante.
127
M. Minghetti, Miei ricordi, cit., p. 7.
128 BCABo, Fondo Speciale Carlo e Savino Savini, c.1, Memorie, f.1, capitolo. 3.
129 Il moltiplicarsi di segni visuali e materiali capaci di esprimere un’adesione politica o patriottica è tipico delle fasi di
maggior partecipazione collettiva agli avvenimenti politico-militari del Risorgimento: lo sostiene A. Petrizzo in V. Fiorino, G.L. Fruci, A. Petrizzo (a cura di), Il lungo Ottocento e le sue immagini, cit., p.15.