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Barbarus his ego sum quia non intelligor illis. Ovidio

a. Il mito del buon selvaggio

Accanto al mito dell'età d'oro, fa la sua comparsa in età moderna un altro mito che ha segnato il paradigma nostalgico contemporaneo: il mito del buon selvaggio.

La versione laica e antropologica del mito dell’età dell’oro, la versione laica dell’eterno ritorno, del paradiso perduto. Un sogno di eterno presente che è un archetipo430.

Analizzare la società “selvaggia” – dalla letteratura del XVI fino alle costruzioni della storiografia tra ‘800 e ‘900431 – rende agevole la costruzione dell’ipotetico uomo primitivo allo stato di natura, immune o perlomeno non ancora contaminato dallo snaturamento della “modernità”. Il buon selvaggio è, a un tempo, l’uomo naturale e l’ideale utopico432.

Michel de Montaigne, in questa lista, è uno dei primi pensatori dotati di spirito etnografico accompagnato da uno spiccato relativismo culturale, un precursore del modo illuministico di guardare al di fuori della cultura europea.

430 Cfr. L. Sozzi, Immagini del selvaggio. Mito e realtà nel primitivismo europeo, Roma 2002.

431 G. Gliozzi, Il mito del “buon selvaggio” nella storiografia tra Ottocento e Novecento, in Differenze e

uguaglianza nella cultura europea moderna. Scritti 1966-1991, a cura di A. Strumia, Vivarium, Napoli

1992, pp. 25-81.

432 Una pratica nostalgica che non accenna a finire. Basti pensare all’uso che Baudrillard fa del "primitivo" per contrapporre la società attuale a un referente arcaico e positivo, all’idealizzazione nostalgica di culture arcaiche, al concetto di selvaggio come "altro", assolutamente opposto all’Ovest. Cfr. R. J. Lane, Jean Baudrillard, Routledge, London-New York 2000, p. 62 e ss.

Nel capitolo XXXI del primo libro dei Saggi, dal titolo Des cannibales [Dei cannibali], pubblicato nella prima edizione del 1580 e nel modificato nel 1588, Montaigne si dimostra consapevole del pregiudizio etnocentrico che segna la contrapposizione – più o meno nostalgica – tra “noi” e i “barbari”:

Non vi [è] nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l'esempio e l'idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo.433

Le stranezze dei “barbari”, a volte descritte con disgusto, dimostrano soltanto l'indefinita varietà dei costumi umani. Infatti, la stranezza è relativa al punto di osservazione: «i barbari non ci appaiono per nulla più strani di quanto noi sembriamo a loro, né con maggior ragione»434. Per condannare le violenze che gli europei compiono nel Nuovo Mondo, conviene riaffermare con forza la relatività delle categorie di “barbari” e “civilizzati”.

Con Montaigne – scrive Giacomo Marramao – «la crisi di valori determinata dalla svolta copernicana, dalla scoperta dell’alterità antropologica e dalla frattura prodottasi nel cuore della res publica christiana con le guerre civili di religione, fornisca lo spunto per una radicale revoca in questione della centralità dell’uomo europeo e del suo diritto di connotare come “barbarie” tutto ciò che dal costume europeo si discosta»435.

Anche queste pagine, però, non sono immuni da un atteggiamento nostalgico. Anzi, Montaigne è attratto dal dischiudersi mitico di un nuovo mondo alternativo al presente, dall’evocazione di una “semplicità” e “ingenuità” originaria e innocente che oltrepassa «non solo tutte le descrizioni con cui la poesia ha abbellito l’età dell’oro, e tutte le sue immagini atte a raffigurare una felice condizione umana, ma anche la concezione e il desiderio medesimo della filosofia»436. La superiorità dei selvaggi, cioè,

433 M. Montaigne, Saggi, a cura di F. Garavini, Adelphi, Milano 1992, Libro I, cap. XXXI, Dei cannibali, p. 272, cfr. pp. 268-285.

434 M. Montaigne, Saggi, cit., Libro I, I-XXIII, p. 145.

435 G. Marramao, La passione del presente, cit., p. 101. Cfr. R. Koselleck, Futuro passato. Per una

semantica dei tempi storici, Marietti, Genova 1986.

è giustificata dalla nostalgia per qualcosa che – nel presente europeo – è dolorosamente scomparso437.

Questi popoli sono barbari perché «molto vicini alla semplicità originaria», perché sono governati da «leggi naturali non ancora troppo imbastardite dalle nostre» e non hanno «nessuna conoscenza delle lettere; nessuna scienza dei numeri»438. Montaigne continua con l’elenco che descrive un mondo alla rovescia: «nessun nome di magistrato, né di gerarchia politica; nessuna usanza di servitù, di ricchezza o di povertà; nessun contratto; nessuna successione; nessuna spartizione; nessuna occupazione se non dilettevole; nessun rispetto della parentela oltre a quello ordinario; nessun vestito; nessuna agricoltura; nessun metallo; nessun uso del vino o di grano»439.

Insomma, ecco di nuovo l’utilità dello sguardo nostalgico: dipinge un’alternativa al presente, dislocata in un altro mondo o in un altro tempo, da guardare con rimpianto e ammirazione.

I pensatori del razionalismo giusnaturalistico, invece, attribuiscono un preciso significato teoretico alla diversità dei “selvaggi”, considerandone le implicazioni sociopolitiche oltre che culturali.

Il ruolo dei selvaggi – come dimostra l’analisi dettagliata di Sergio Landucci ne

I filosofi e il selvaggio440 - è cruciale nell’elaborazione del concetto di “stato di natura”, nella formulazione della distinzione tra società e stato, nell’individuazione di una linea progressiva o regressiva nello sviluppo umano. Da Pufendorf a Leibniz, da Locke a Helvetius:

Le idealizzazioni moderne dei selvaggi [...] non ebbero solo la funzione di dar voce in qualche modo a quel ‘disagio nella civiltà’ che attraversa probabilmente ogni cultura ed ogni società umana [...], ma ebbero anche quest'altra funzione essenziale, di anticipare letterariamente e forse di rendere possibile e vieppiù

437 Una tesi fortemente criticata, quattro anni dopo, nello Spaccio de la bestia trionfante pubblicato nel 1584, da Giordano Bruno. Bruno, contaminando la sua descrizione dello stato di natura con quella del Lucrezio del De rerum natura, si oppone all’idealizzazione della purezza del selvaggio e afferma la superiorità morale e culturale europea.

438 M. Montaigne, Saggi, cit., Libro I, cap. XXXI, Dei cannibali, p. 273-274. 439 M. Montaigne, Saggi, cit., Libro I, cap. XXXI, Dei cannibali, p. 273-274. 440 Cfr. S. Landucci, I filosofi e i selvaggi 1589-1789, Laterza, Bari 1972.

urgente, infine di accompagnare a guisa di ridondante commento, una grande scoperta teorica come la distruzione della necessità e dell'universalità dell'implicazione società-Stato.441

Secondo Landucci «il crescere e il maturare dell'ideologia moderna del ‘progresso’ dell'umanità» ha un punto nodale «nel riferimento ai ‘selvaggi’ americani – e segnatamente, per l'appunto, attraverso la tesi di una corrispondenza del loro livello culturale con quello degli antenati antichissimi delle nazioni successivamente pervenute a civiltà»442.

Jean-Jacques Rousseau unifica i due estremi di questa parabola: il fascino arcadico dell'età d'oro – dalle metamorfosi dall'esiodea razza d'oro alla Roma repubblicana fino alla Ginevra del suo tempo – e il valore teoretico che si è consolidato intorno alla figura del selvaggio in una nuova chiave antropologica.

I miti dell'età dell'oro e del buon selvaggio svolgono una funzione metamorfica nel pensiero di Rousseau. Il tono spesso poetico e nostalgico non è solo una perorazione retorica sulla felicità perduta del passato, ma una spietata analisi critica del presente. La nostalgia, cioè, è al contempo un’esigenza personale e politica, etica e sociale.

Una connessione – quella tra sentire individuale e astrazione filosofica – che attraversa l’intero itinerario di Rousseau: è inscindibile l’intreccio tra la vita personale e il pensiero del pensatore ginevrino, tra le esperienze vissute e le svolte concettuali. Anzi «accade spesso – ha scritto Jung – che [in Rousseau] un problema fondamentalmente personale e quindi apparentemente soggettivo si dilati di un tratto a problema universale che abbraccia tutta la società»443. Rousseau, cioè, non smette di cercare un’armonia tra

l’universalità della ragione e l’individualità del sentimento.

Anche il suo primo scritto pubblicato – il Discorso sulle scienze e sulle arti – nasce come un’improvvisa illuminazione, come un’intuizione seguita alla lettura casuale sul Mercure de France della domanda proposta dall'Accademia di Digione: Il progresso delle scienze e delle arti ha contribuito al miglioramento dei costumi?

441 S. Landucci, I filosofi e i selvaggi 1589-1789, cit., pp. 173-74. 442 S. Landucci, I filosofi e i selvaggi 1589-1789, cit., pp. 312-13. 443 C. G. Jung, Tipi psicologici, in Opere, vol. VI, Torino 1969, p. 90.

L’impulso filosofico di Rousseau, cioè, è prima di tutto un sentire che scuote ogni fibra del corpo, che si riempie dei sentimenti personali, tra cui quello preminente della nostalgia. Come racconta lui stesso nelle Confessioni:

Non appena lessi questo, vidi un altro universo e divenni un altro uomo [...]. I miei sentimenti ascesero con la più inconcepibile rapidità al tono delle mie idee. Tutte le mie piccole passioni furono soffocate dall'entusiasmo per la verità, la libertà, la virtù, e la cosa più sorprendente è che questa effervescenza si mantenne nel mio cuore per più di quattro o cinque anni, a un livello così alto, come non è mai stata nel cuore di un altro uomo.444

Non è un caso, nota Ernst Cassirer, che il percorso intellettuale di Rousseau inizi con il suo arrivo a Parigi, quasi trentenne. Un’esperienza che avvolge in un crepuscolo indistinto gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza che saranno «oggetto del ricordo e della nostalgia – una nostalgia che non lo abbandonò mai, fino alla fine»445. Alla

Svizzera – non a caso terra d’origine sia di Rousseau che della malattia nostalgica – si lega il ricordo di una vita autentica e incorrotta che deve essere oggetto di rimpianto:

Quel che sempre Rousseau tornò a considerare furono le prime impressioni della sua terra d’origine, la Svizzera, da cui ricevette il sentimento, possibile solo in quel luogo, di una vita vissuta in autentica unità, in una incorruttibile interezza. La rottura tra le pretese del mondo e le esigenze dell’io non si era ancora consumata; la forza del sentimento e della fantasia non si era ancora misurata con i limiti fissi e rigidi della realtà delle cose. E quindi alla coscienza di Rousseau i due mondi, il mondo dell’io e il mondo delle cose, non si presentavano come nettamente scissi l’uno dall’altro. I suoi anni dell’infanzia e della giovinezza sono una trama particolare e fantastica, dove sogno e realtà, esperienza vissuta e immaginazione si intrecciano.446

L’arrivo a Parigi, quindi, rappresenta il trauma che dà origine alla malattia del soggetto nostalgico: scompare il ritmo della quotidianità ordinaria e la vecchia vita è sostituita dalla frenesia del ritmo lavorativo della capitale. La nostalgia di Rousseau, quindi, è prima di tutto un’esperienza personale: il mondo compresso degli affari che

444 J.-J. Rousseau, Le confessioni, Orsa Maggiore, Foggia 1991.

445 E. Cassirer, Rousseau, trad. it. di G. Bartoli, Lit Edizioni, edizione digitale 2015. Cfr. anche E. Cassirer, Rousseau, Kant, Goethe, Donzelli, Roma 1999.

normano il tempo si pone, fin da subito, come lacerazione innaturale e disarmonica di una precedente felicità.

Anzi, proprio Parigi – che lo accoglie con esagerata compiacenza – genera la sua misantropia, il carattere tipico del nostalgico e del malinconico447. Rousseau, infatti, rimane sempre uno “straniero” – un cittadino di Ginevra – che denuncia i vizi di una società che non gli appartiene.

Le pagine autobiografiche, infatti, sono indispensabili per comprendere le posizioni teoriche di Rousseau in quanto, come ha osservato Cassirer, «in un pensatore di questo genere il contenuto e il senso della sua opera non possono essere staccati dalla vita personale: essi si possono cogliere unicamente fusi l'uno nell'altro, in un ripetuto rispecchiarsi e in un vicendevole illuminarsi dell'uno per mezzo dell'altro»448.

Il riferimento all’età dell’oro e allo stato di natura, quindi, si pone come un ideale regolativo che mira al sovvertimento di una società che si crede felice, ma che è dominata solo dall’apparenza. Rousseau, in altri termini, ricerca una terapia che – per curare a livello individuale e collettivo una malattia che sta infettando il presente – si rivolge all’altrove (un altrove storico, utopico o morale).

Le ombre di Rousseau sono il simbolo di una rottura insanabile tra concezioni radicalmente diverse dell'uomo e della società. Fino a rimanerne vittima:

Jean-Jacques trasferì nella propria coscienza le più crude lacerazioni del suo tempo, tentò invano di sanarle, partecipò ai sommovimenti profondi della

447 Una misantropia che condurrà Rousseau a costruisce un mito nostalgico che, per salvare la propria natura, decide di autoescludersi dal mondo: «Prendevo, dunque, in certo senso congedo dal mio secolo e dai miei contemporanei, e davo il mio addio al mondo, confinandomi in quell'isola per il resto dei miei giorni; tale era infatti la mia decisione, ed era là che contavo finalmente di attuare il grande progetto di questa vita oziosa al quale avevo inutilmente consacrato fino ad allora tutto quel poco di attività che il Cielo mi aveva accordata». E continua Ma se vi ha una condizione in cui l'anima trovi un assetto abbastanza solido per riposarvisi interamente e raccogliervi tutto il proprio essere, senz'avere bisogno di rammemorare il passato o di anticipare sul futuro, dove il tempo presente non sia nulla per lei, dov'esso presente continui a durare, senza nondimeno far notare la sua durata e senza nessuna traccia di successione, senza nessun altro sentimento di privazione o di desiderio che quello solo della nostra esistenza, e che questo sentimento da solo possa colmarla per intero; sino a tanto che questa condizione dura, colui che vi si trova possiamo chiamarlo felice non d'una gioia imperfetta, povera e relativa, come quella provata nei piaceri della vita, ma d'una gioia bastevole, piena e perfetta, che non lascia nell'anima nessun vuoto che senta il bisogno di colmare» (J.-J. Rousseau, Dialogo III, p. 1306).

società borghese, ne interpretò le passioni e le aspirazioni: finché, rimasto vittima del suo stesso candore e della sua ipersensibilità emotiva, pagò con la nevrosi il tentativo di conciliare in sé idee e tradizioni che la storia violentemente separava.449

Il presente – con le scienze, le lettere e le arti – ha imbellettato le “catene” che opprimono gli uomini civilizzati, che soffocano il loro sentimento e la loro originaria natura. Solo lo sguardo nostalgico, quindi, consente l’acquisizione di una distanza critica dal presente e dagli sfarzosi costumi parigini che occultano la verità:

Un abitante di qualche lontana contrada, che cercasse di formarsi un'idea dei costumi europei fondandosi sullo stato delle scienze fra noi, sulla perfezione delle nostre arti, sulla decenza dei nostri spettacoli, sulla cortesia delle nostre maniere, sull'affabilità dei nostri discorsi, sulle nostre continue dimostrazioni di benevolenza e su questa gara tumultuosa di uomini di ogni età e di ogni stato, che sembrano affaccendati dal levar dell'aurora fino al tramontar del sole a rendersi servigi reciprocamente; questo straniero, dico, intuirebbe dei nostri costumi esattamente il contrario di quello che sono.450

La nostalgia, quindi, è orientata a mostrare il lato oscuro che si nasconde dietro la decenza, la cortesia e l’affabilità degli uomini civilizzati per contrasto con l’immagine «della semplicità dei primi tempi»451.

Nella prefazione al Discours sur l'inégalité, Rousseau menziona un passo del X libro della Politeia di Platone, paragonando l’uomo civilizzato al Glauco marino:

Dobbiamo invece osservare attentamente con il raziocinio quale essa [l'anima] è allo stato di perfetta purezza. Il raziocinio la troverà molto più bella e splendida e ne distinguerà le varie forme di giustizia e ingiustizia, e tutte le qualità che or ora abbiamo elencate. Però ora abbiamo detto il vero rispetto al modo in cui essa ci appare presentemente. L'abbiamo vista in quella condizione in cui si trova Glauco marino; chi lo vedesse non ne riconoscerebbe più tanto facilmente la pristina natura, perché le parti antiche del corpo sono in parte spezzate, in parte corrose e completamente sfigurate dai flutti. Altre poi vi si sono aggiunte,

449 P. Casini, Introduzione all'illuminismo, cit., vol. II, p. 446.

450 J.-J. Rousseau, Discorso sulle scienze e sulle arti, in J.-J. Rousseau, Scritti politici, vol. I, Laterza, Bari 2014, p. 8. La finzione dello straniero ritornerà nel pensiero di Rousseau. Fino a diventare lo stesso Rousseau lo straniero, l'esiliato, il nomade (cfr. J. Starobinski, Jean-Jacques Rousseau. La trasparenza e

l'ostacolo, trad. it. di R. Albertini, il Mulino, Bologna 1982, p. 83).

conchiglie alghe sassi; e così rassomiglia più a una bestia qualsiasi che al suo essere naturale.452

Lo stato di natura, quindi, non è un semplice espediente argomentativo. Il tentativo di Rousseau è molto più ambizioso: raggiungere l'«essenza intima» dell'anima umana. L’autentica nostalgia si racchiude in questo periglioso nostos: tornare presso se stessi, ritornare ad essere uomini, ritrovare la nostra autentica natura nascosta in profondità.

Il viaggio nostalgico che ricostruisce – attraverso il ragionamento, la congettura e l’esperienza – lo stato ideale primigenio è orientato a un riconoscimento. Siamo alterati, sfigurati, perfino irriconoscibili come la statua del dio marino e dobbiamo allontanarci da noi stessi – nel tempo antico e nello spazio selvaggio – per riuscire a riconoscersi.

Ripulendoci dallo snaturamento dell'uomo civilizzato, attraverso materiali storici, etnografici e letterari, possiamo risalire tanto temporalmente quanto ontologicamente al “puro stato di natura”.

Tutti i filosofi, scrive Rousseau, «hanno esaminato i fondamenti della società hanno sentito la necessità di risalire fino allo stato di natura, ma nessuno di essi ci è arrivato»453. Per questo, il filosofo ginevrino miscela l’analisi delle spedizioni geografiche settecentesche che forgiano l’antropologia dell’illuminismo, il dibattito del giusnaturalismo sullo stato di natura, le fonti poetiche e letterarie dell’antichità e la propria personale “immaginazione filosofica”.

Rousseau, però, denuncia anche le carenze “scientifiche” circa la raccolta e l'organizzazione del materiale etnologico, cui pure attinge a piene mani. Non a caso Lévi-Strauss454 ha ascritto al pensatore ginevrino il merito di avere non solo prefigurato, ma addirittura fondato l'etnologia e più in generale le scienze dell'uomo.

Rousseau scrive, in una lunga nota del Discours sur l'inégalité:

452 J.-J. Rousseau, Discorso sull'origine della disuguaglianza, cit., p. 43. 453 J.-J. Rousseau, Discorso sull’origine della disuguaglianza, cit., p. 98..

454 Cfr. C. Lévi-Strauss, Jean-Jacques Rousseau, fondatore delle scienze dell'uomo, in Razza e

dopo tre o quattrocento anni che gli abitanti d'Europa inondano le altre parti del mondo, e pubblicano incessantemente nuove raccolte di viaggi e di relazioni, sono persuaso che noi non conosciamo di uomini che i soli Europei [...]. Gli individui hanno un bell'andare e venire, sembra che la filosofia non viaggi: così quella di ciascun popolo è poco adatta per un altro [...]; non hanno saputo scorgere, all'altro capo del mondo, se non ciò che sarebbe toccato loro d'osservare senza uscir dalla loro strada, e che i veri caratteri distintivi delle nazioni, che colpiscono gli occhi fatti per vederli, sono quasi sempre sfuggiti ai loro.455

Il processo nostalgico che conduce allo stato di natura, cioè, insegue un tempo che non è individuabile nella memoria, che è al di là dei confini del ricordo: l’età dell’oro a cui si anela ritornare deve essere, prima di tutto, ricostruita e riconosciuta nell’immaginario.

E Rousseau, per farlo, costruisce una stringente “logica emozionale” che mostra a tutti gli uomini «una bella riva, adornata dalle sole mani della natura, alla quale si volgono incessantemente i nostri occhi, e dalla quale ci sentiamo allontanare con rimpianto»456, facendo appello al loro desiderio più intimo di rétrograder, di allontanarsi da un presente insoddisfacente ritornando in un tempo più propizio:

I tempi di cui mi accingo a parlare sono remoti: quanto sei cambiato da come eri! È, per così dire, la vita della tua specie che io descriverò, secondo le qualità che tu hai avuto, e che la tua educazione e le tue abitudini hanno potuto corrompere, ma non hanno potuto distruggere. Vi è, lo sento, un’età nella quale ciascun individuo vorrebbe fermarsi; tu cercherai l’epoca nella quale desidereresti che la tua specie si fosse fermata. Scontento della tua condizione attuale per delle ragioni che preannunciano alla tua infelice posterità cause di malcontento ancora più grande, forse tu vorresti tornar indietro; e questo sentimento sarà l’elogio dei tuoi primi antenati, la critica dei tuoi contemporanei, e il terrore di coloro che hanno la sventura di vivere dopo di te.457

455

456 J.-J. Rousseau, Discorso sulle scienze e sulle arti, cit., p. 12.

Rousseau, quindi, fa appello a un desiderio collettivo, a una nostalgia antropologica che non è statica e paralizzante, ma attiva e vitale, orientata verso una

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