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2. Destinazioni, identità e comunità: una prospettiva interpretativa di natura

2.3. Metodo

2.4.2. Brand community e processi di branding

Recuperando parte della letteratura che ha permesso di inquadrare dal punto di vista del metodo l’intero progetto di ricerca, e con riferimento ai primi due punti della proposta della ANT, il modello di McCracken (1988) evidenzia quali meccanismi ‘collettivi’ e parzialmente fuori dal ‘controllo dell’impresa’ sono in gioco affinché i significati

culturali vengano catturati, trasferiti e condivisi dal prodotto per giungere al singolo consumatore. Il sistema della moda, della pubblicità e, in generale, dei mass media costituiscono macro aggregati di attori che costruiscono quel ‘serbatoio di significati culturali’ (a culturally costituted world): i) da cui lo stesso prodotto attinge in termini di fonti di significato; ii) e che, in seconda battuta, alimenta le capacità interpretative dei consumatori che vedono nel prodotto o nel brand strumenti capaci di trasferire i significati che incorporano. In questo consiste il ‘lavoro (prevalentemente) immateriale’ (Cova e Dalli, 2009) svolto dal consumatore per creare valore attraverso processi socio-culturali di cui è partecipe (Rullani, 2004a).

Rileggendo l’episodio del fortuito incontro tra Valentino e il barbone: i) rappresenta un caso di ‘evangelizzazione’ e ‘proselitismo’, «un fenomeno mediatico, costruito col meccanismo industriale delle mode, proprio di TV, case editrici, internet e giornali, ovvero del circo dei media consumisti in cui il guru ha lavorato molto stimato per anni»? (Antonio Socci, I fans di Terzani vadano un po’ in clausura, «Libero», 28 luglio 2006); ii) oppure, dietro al ‘terzanismo’ si nasconde «[…] il riconoscimento di una polarità che trasmette impulsi, affetti, curiosità […], l’opera di uno scrittore che diventa catalizzatrice di confessioni, l’occasione per ridurre la soglia delle inibizioni personali ed esprimere un’autenticità»? (Edmondo Berselli, Cos’è il Terzanismo, «La Repubblica», 1° agosto 2006).

In questa prospettiva, nel modello di McCracken sembra mancare l’effetto feedback: i processi di produzione culturale sono evolutivi, di tipo riflessivo, in quanto retroagiscono sul materiale originale che utilizzano modificando il contesto di partenza (Rullani, 2004a). Infatti, venendo al terzo suggerimento di metodo della ANT, le ricerche sulle brand community introducono un contesto di analisi di estremo interesse in cui il rapporto tra impresa e consumatore si fa immediatamente dialettico e, quantomeno, bidirezionale (Cova e Dalli, 2009; Muñiz e O’Guinn, 2001). Nelle loro ricerche, Muñiz e O’Guinn (2001), indagano le strutture costitutive della brand community considerando però come ‘dati’ gli aggregati della relazione: gruppi di consumatori da un lato; il brand e l’impresa dall’altro. Far diventare davvero ‘attivo’ il rapporto tra consumatore e impresa attraverso il concetto di brand community ha determinato uno spostamento di attenzione rispetto al ruolo del brand, di fatto non più (o non ancora) completamente ‘oggetto sociale’, ma intermediario di significati ‘pre-confezionati’ e che raramente il consumatore è in grado di ‘utilizzare’ o su cui non sempre è in grado di agire ‘interpretativamente’ (Sherry, 2005).

Basandosi sul lavoro di Susan Fournier (1998), McAlexander et al. (2002) hanno in seguito esteso il concetto di brand community proprio cercando di recuperare l’idea di «social aggregation of brand users and their relationships to the brand as a repository of meaning» (McAlexander et al., 2002, p. 39). La brand community diventa uno spazio di relazioni ‘multidimensionale’, cercando di recuperarne la natura dinamica (per l’appunto, socio-culturale). Ma un passo ulteriore resta da fare con riferimento a ciò che tiene unita, di fatto, una brand community (Allen et al., 2008): quali sono gli ‘antecedenti’ ai processi di interpretazione guidati dal brand e condivisi da una comunità di riferimento; e da dove nascono e come si sviluppano i processi di sensemaking/branding.

La creazione di una comunità non avviene attorno ad un brand (condividendo ex-ante i fini) (Jenkins, 1992): un aggregato sociale nasce più facilmente ‘attorno a mezzi comuni’ tanto che il brand diventa il significato che i membri di una comunità attribuiscono al loro stare assieme (Maclaran et al., 2009; Muñiz e O’Guinn, 2001; Parsons e Maclaran,

2009).

Il dibattito che ha fatto seguito all’intervista a Toni Capuozzo (membro dalla Giuria del Premio Terzani) richiama un elemento essenziale per completare il quadro teorico di riferimento. I processi culturali generano il materiale essenziale di ‘formazioni organiche’ determinandone la natura e i movimenti: Ferdinand Tönnies (1963, ed. it.) introduce in questi termini il concetto di ‘comunità’ nella nomenclatura sociologica, contrapponendolo a quello di ‘società’. I processi di branding hanno bisogno che i significati generati in modo collettivo attraversino una ‘zona di margine e di passaggio’ (‘liminale’): ‘attualizzare’ i significati di una esperienza culturale e farne un ‘progetto di vita’ (Thompson, in Stern, 1998) genera un momento di trasformazione e di ‘ribellione’ di nuove aggregazioni che attivano il cambiamento sociale e culturale. Parlare, ascoltare, scrivere e leggere sono tutte azioni che, collegate al quotidiano degli individui, hanno a che fare con la produzione di ciò che il senso comune chiama cultura, simboli, identità e comunità (Parsons e Maclaran 2009; Stern 1998). Victor Turner (1969) considera come l’esposizione degli individui ad una communitas, in determinate condizioni, permette di produrre miti, simboli, rituali, sistemi filosofici e opere d’arte: «queste forme culturali forniscono riclassificazioni periodiche della realtà e del rapporto tra l’uomo e la società, la natura e la cultura» (ivi, p. 145).

Il processo di branding somiglia più ad una ‘polifonia di discorsi’, un sistema di significazione a cui partecipa una moltitudine di attori, ognuno dei quali ha un ruolo di ‘creatore’ e di ‘interprete’, di ‘autore’ e di ‘lettore’ di un ‘racconto del quotidiano’ (Sherry, 2005) costruito con la logica della ‘cooperazione interpretativa’ (Eco, 1979). Ma ognuno di questi attori manifesta anche finalità molto diverse tra loro, tanto che considerare il brand come la manifestazione di ‘interazioni’ finalizzate e monolitiche può diventare fuorviante. Le strutture costitutive della brand community proposte da Muñiz e O’Guinn (consciousness of kind, rituals and traditions, moral responsibility) sono di estremo interesse per recuperare la dimensione intersoggettiva delle esperienze di consumo (Muñiz e O’Guinn, 2001; O’Guinn e Muñiz, 2009). La fenomenologia della brand community, inoltre, si arricchisce in termini di numerosità e di interattività degli aggregati sociali considerati (brand/consumer/focal consumer/marketer/product) (McAlexander et al., 2002). Ma, ciò che più conta, è l’emergere di una idea di brand quale network oriented work à la Latour: i ragionamenti sul brand come ‘discorsi collettivi’ dovrebbero tener conto del fatto che i vari attori/attanti (meaning maker), siano essi persone o cose, si trovano assieme perché ognuno svolge una qualche azione (facilitare la realizzazione dei rispettivi progetti) e ha bisogno delle altre componenti per creare le condizioni che rendano possibile tale azione/significazione (Allen et al., 2008; Muñiz e Schau, 2007; O’Guinn e Muñiz, 2009). Questa forma di interdipendenza e la priorità della convergenza sui mezzi nel formare una struttura collettiva giustificano la condivisione (solo eventuale) nel modo di vedere le cose, nelle aspirazioni o nelle intenzioni comuni che i vari attori potrebbero manifestare (Jenkins, 1992).

Quest’ultimo passaggio apre un ulteriore fronte di ricerca, molto più recente, sul fenomeno dei processi di branding, confermando il ruolo sempre più centrale della relazione ‘culturale’ (pragmatica) tra contesto socio-culturale, istituzioni, opinion leader, imprese, brand (come ‘oggetto sociale’), consumatore (individuale e collettivo) (Collodi et al., 2009). Con quest’ultimo che diventa effettivamente ‘co-generatore di significati’, in grado di contribuire egli stesso a ‘usare/interpretare’ la cultura del proprio contesto di riferimento, di cui è parte integrante il ‘progetto culturale’ che il brand rappresenta.

Gli autori del progetto di ricerca sul brand American Girl (Borghini et al., 2009; Diamond et al., 2009; Sherry et al., 2008) sintetizzano efficacemente l’obiettivo della loro lavoro: «a more complete and holistic understanding of sociocultural branding» (Diamond et al., 2009, p. 118).