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Brexit dopo le elezioni dell’8 giugno: e ora?

Nel documento Global Outlook 2017: rapporto finale (pagine 32-37)

Iain Begg1

Dopo l’avvio formale dell’iter per l’uscita dall’Unione europea, avvenuto lo scorso 29 marzo con la consegna a Donald Tusk della lettera firmata da Theresa May in cui la premier si appellava all’articolo 50 del Trattato di Lisbona, la fase negoziale è ora ufficialmente iniziata. Questa, nell’arco di massimo due anni, dovrà portare non solo a decidere i dettagli della separazione ma, si spera, a trovare anche un nuovo accordo che inquadri e regolamenti le relazioni Ue-Regno Unito sotto molti punti di vista, primo fra tutti quello degli scambi commerciali.

In vista di ciò, il 18 aprile, il Primo ministro britannico aveva scelto di convocare con una decisione a sorpresa le elezioni politiche per l’8 giugno, convinta che ciò le permettesse di aumentare la propria maggioranza in parlamento e legittimare maggiormente il suo mandato, conferendole così una forza maggiore in sede negoziale. Come è noto, l’esito è stato assolutamente differente e i conservatori hanno perso la maggioranza assoluta, facendo registrare un risultato che non può non essere letto in senso negativo soprattutto per il loro leader.

Un’analisi del voto

La certezza principale uscita dalle urne l’8 giugno è che Theresa May è la grande sconfitta di queste elezioni, nonostante l’incarico a formare un nuovo governo che da queste le è derivato. È lecito dunque chiedersi chi sia stato il vincitore, soprattutto alla luce dei deludenti risultati che hanno fatto registrare anche i liberal-democratici (Lib-Dem), il partito nazionalista scozzese (SNP) e i verdi (Green Party). Sicuramente, chi ha rafforzato notevolemente la propria immagine è Jeremy Corbyn, sia all’interno che all’esterno del suo partito. Tuttavia, l’unico grande vincitore di questa tornata elettorale è stato il Partito Unionista Democratico (DUP) che, seppure non formerà con i conservatori una coalizione formale, sarà decisivo con il suo appoggio esterno per tenere in vita il fragile esecutivo che la Premier sta costruendo. Mai prima d’ora questo partito aveva avuto un ruolo così delicato e fondamentale e, ad attribuirglielo, hanno concorso principalmente gli sbagli che il primo ministro britannico ha fatto da aprile ad oggi.

1 Iain Begg è professore alla London School of Economics and Political Science. Testo rielaborato da Simone Romano sulla base della presentazione del Prof. Iain Begg usata a supporto del suo

intervento alla conferenza Global Outlook e integrata con elementi desunti dal suo blog.

Gli errori del leader dei conservatori che hanno contributito a plasmare questo disastro sono molteplici. Anzitutto, la scelta stessa di convocare le elezioni è stata vista come un comportamento opportunistico che l’elettorato britannico, storicamente, ha dimostrato di non apprezzare. A ciò è seguita l’inclusione nel suo programma politico di punti assolutamente non favorevoli alla base elettorale dei conservatori, quali la “dementia tax”2 o alcune misure contrarie alla libera concorrenza. Altro errore di gestione nella campagna elettorale è stato quello di farne una questione strettamente personale, incentrando il voto troppo sulla figura del Primo ministro ed escludendo completamente dalla campagna tutti gli altri esponenti più importanti del partito (che fine ha fatto Boris Johnson?). In ultimo il fattore che con tutta probabilità è risultato essere il più decisivo di tutti: la chiara incapacità del leader conservatore di rispondere in modo adeguato quando è stata messa sotto pressione, rifiutandosi anche di prendere parte al dibattito televisivo, distruggendo così da sola l’immagine di comandante forte e stabile che voleva dare di sé e del suo governo. Ben presto il suo slogan “strong and stable” è diventato

“weak and wobbly”.

E ora? L’avvio del negoziato e la posizione britannica

Ora, con questo nuovo assetto interno, più fragile e complicato di prima, il Regno Unito si affaccia al negoziato, ben consapevole dell’irrealizzabilità dei suoi obiettivi nella loro pienezza. Tali obiettivi costituiscono infatti un trilemma: riduzione dei trasferimenti verso la Ue, controllo delle proprie frontiere e accesso privilegiato al mercato unico. In più occasioni l’Ue ha già fatto capire chiaramente che senza garantire la piena mobilità delle persone, l’accesso al mercato unico è semplicemente impensabile.

Da quando ha preso in mano l’esecutivo nel luglio 2016, l’atteggiamento di Theresa May è sempre stato molto deciso, ribadendo spesso il concetto che l’opzione

“nessun accordo” rappresenta una soluzione preferibile ad un accordo che non fosse vantaggioso per il Regno Unito e non tutelasse pienamente i suoi interessi.

Nel giustificare un atteggiamento del genere, contrario alla posizione di tutti i più grandi gruppi e aziende che operano nel Regno Unito, viene spesso usata l’argomentazione che la libertà di poter negoziare accordi commerciali con paesi terzi – che l’uscita dall’unione doganale regalerebbe al Regno Unito – possa consentire al paese di trovare nuovi sbocchi per le sue merci e i suoi servizi, capaci di sopperire in modo decisivo all’uscita dal mercato unico europeo. Soprattutto, giocando anche su vecchie suggestioni, si è posto l’accento sul guadagno che si potrebbe realizzare grazie a un miglioramento delle condizioni commerciali con i paesi che facevano parte del Commonwealth. Tuttavia, dati alla mano, è possibile

2 Secondo il manifesto del partito conservatore, gli anziani con una ricchezza stimata superiore alle 100mila sterline (tra risparmi e proprietà), avrebbero dovuto pagare per la loro assistenza sanitaria.

vedere come i paesi dell’ex Commonwealth non possano minimamente costituire, in quanto a dimensioni dei flussi commerciali, una valida alternativa al mercato unico europeo.

In generale, l’economia britannica ha mostrato assoluta resilienza nei mesi che hanno seguito il voto referendario, sconfessando le previsioni dei più che avevano ipotizzato grande instabilità finanziaria e una riduzione del ritmo di crescita già nei primi trimestri successivi al voto. Ciò, come evidenziano chiaramente i dati, non si è verificato. Alla tenuta dell’economia in termini reali ha certamente giovato la netta e repentina svalutazione della sterlina britannica seguita ai risultati del referendum.

Tuttavia, segnali meno incoraggianti sui possibili sviluppi futuri dell’economia del Regno Unito iniziano a trapelare. Anzitutto, una valuta costantemente debole, seppure possa incentivare la porzione estera della domanda aggregata, è in netto contrato con il ruolo di centro finanziario di rilevanza mondiale che Londra ha acquisito da tempo. Una moneta debole e che si prevede in continuo indebolimento causerà con tutta probabilità la fuoriuscita di capitali, autoalimentando un processo di deprezzamento e, a livello interno, di pressione inflazionistica. A ciò si aggiunge un argomento correlato: la possibilità, sempre più concreta, di una “hard Brexit”

sta spingendo sempre più aziende e gruppi a programmare la ricollocazione delle loro sedi fuori da Londra e dal Regno Unito. A questo proposito, chi scrive vuole mettere in guardia l’Unione europea dal voler approfittare in modo eccessivo della posizione di debolezza del Regno Unito. Questa emorragia di posti di lavoro, spesso

altamente qualificati (almeno nel settore finanziario) non è detto che si risolva a vantaggio di Francoforte, Parigi o Milano. In realtà, la dinamica che si intravede all’orizzonte porterebbe a una riallocazione massiccia in direzione dei mercati asiatici, risultando così in un esito lose-lose. In ultimo, è opportuno citare che il costo per le finanze pubbliche britanniche di una separazione dall’Unione europea, soprattutto se nessun nuovo accordo fosse trovato, è stimato essere di 12 miliardi di sterline all’anno, cifra che eccede il costo annuo per il Regno Unito dell’appartenenza all’Unione europea stessa.

La situazione appena descritta potrebbe però portare a conclusioni erronee: la debolezza di Theresa May, le prime avvisaglie preoccupanti per l’economia britannica e l’impossibilità di sostituire nel medio termine i mercati europei con quelli dell’area del Commonwealth farebbero pensare a un atteggiamento più morbido del Regno Unito nei negoziati, facilitando un accordo che assomigli di più a una “soft Brexit” su un modello norvegese. Tuttavia, un leader più debole potrebbe facilmente finire per trincerarsi sulle proprie posizioni, avendo anche scarso appoggio all’interno per trattare con la propria base politica su posizioni di compromesso con l’Ue, aumentando così le probabilità di uno strappo più violento.

Da parte sua, come anticipato, l’Unione europea deve stare attenta a non cadere nella tentazione di avvantaggiarsi in modo eccessivo della debolezza del Regno Unito, perché ciò minerebbe i negoziati rendendone più difficile una buona riuscita e finendo quindi per danneggiare entrambe le parti.

Possibili scenari

In base a quanto discusso, i possibili scenari che potrebbero aprirsi nei prossimi mesi sono essenzialmente tre. Il primo scenario è quello in cui il partito conservatore decida, almeno temporaneamente, di mantenere una debolissima Theresa May alla guida del partito e del governo, ciò allo scopo di evitare il lungo e dispendioso processo di scelta di un nuovo leader che porterebbe poi verosimilmente a nuove elezioni, offrendo dunque il fianco a un Corbyn in ascesa.

Riguardo ai negoziati con l’Ue, le posizioni dell’attuale primo ministro sono ben note, tra cui l’assoluta irrinunciabilità del completo controllo delle frontiere e la scarsa flessibilità su altre questioni quali la volontà di non essere più sottoposti alla giurisdizione della Corte europea di giustizia. In questo primo scenario il processo di separazione continuerà e i negoziati non avverranno nell’ambiente più favorevole, rendendo molto probabile l’eventualità di una hard Brexit.

Un altro scenario possibile è quello che riporterebbe in auge una “soft Brexit”. In questo secondo scenario, la caduta di consenso dell’attuale Premier e il vuoto che essa ha creato aprirebbero la strada alle richieste dalle imprese e dei principali attori del settore finanziario ed economico, le cui preccupazioni sull’uscita dal mercato unico sono note. Questo potrebbe portare ad un negoziato meno duro, con posizioni meno ideologiche e più pragmatiche, che favorirebbero un accordo in cui

il Regno Unito, pur di mantenere l’accesso al mercato unico, sia disposto a concedere un meno stringente controllo delle frontiere e a partecipare ancora al bilancio dell’Ue. Questo scenario, per quanto possa risultare affascinante o allettante, dovrebbe confrontarsi sin da subito con alcuni importanti problemi, tra cui l’opposizione aperta dei “brexiteers” più convinti, un atteggiamento ostile da parte di molti attori europei per evitare il “cherry picking” da parte del Regno Unito e il nodo in sospeso sull’unione doganale, ossia sulla possibilità per il Regno Unito di negoziare accordi commerciali con paesi terzi.

Il terzo scenario, che pare per lo meno altamente improbabile, è che i giovani, dopo un ritorno alle urne nell’ultima elezione per sostenere Jeremy Corbyn, si facciano sentire in modo decisivo fino a spingere il Regno Unito a cambiare direzione e abbandonare ogni progetto di uscita.

Tutti questi scenari vanno poi calati nella realtà europea che presenta non poche incognite nei mesi in cui si svolgerà il negoziato, dalle elezioni tedesche di settembre 2017 a quelle italiane, la cui data è ancora incerta. A questa incertezza politica europea si somma quella globale, con tensioni sempre crescenti tra Russia e Stati Uniti e una cooperazione internazionale indebolita dalla nuova amministrazione americana.

In conclusione, le possibilità che la questione della Brexit si concluda in un esito negativo per entrambe le parti ci sono e sono reali. In tal senso, sarà fondamentale che le parti agiscano in maniera pragmatica ed assicurino una soluzione quanto più vantaggiosa possibile per tutti gli attori coinvolti, che eviti disagi eccessivi. Inoltre, in un periodo di crescente e perdurante incertezza politica, per evitare che questa si ripercuota sui mercati finanziari e finisca per danneggiare la crescita che caratterizza al momento l’economia globale, è molto importante che chiari segnali in senso positivo siano dati al più presto.

P ARTE III

Nel documento Global Outlook 2017: rapporto finale (pagine 32-37)

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