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Building national identity in opposition to otherness in liberal Age Racial prejudices in trademark images in Central State

Nel documento View of Vol. 7 No. 1 (2020) (pagine 101-117)

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Domenico Francesco Antonio Elia Università di Chieti G. D’Annunzio, Italia

E-mail: domenico.elia@unich.it

Riassunto. Il presente contributo intende analizzare la genesi della costruzione di un’i-

dentità nazionale italiana fortemente contrapposta a quella rappresentata dall’«alterità», costituita dalle popolazioni delle colonie conquistate tra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento. La presente analisi, tenendo conto degli studi in campo storico- educativo, tra gli altri, di Gabrielli (2013, 2015), e degli indirizzi più generali nel campo della storia coloniale tracciati da Del Boca (1988) e Labanca (2002), intende esplorare una serie di stereotipi razzistici sviluppatesi in contesti non scolastici, costituiti dalla diffusione e conseguente ricezione da parte dei consumatori delle immagini dei «mar- chi» delle aziende italiane attive in quell’arco temporale, che hanno fortemente influen- zato la rappresentazione italiana dell’«alterità» negli anni compresi fra la costituzione della prima colonia italiana (Eritrea, 1890) e l’avvento del Fascismo (1922).

Parole chiave. Marchi, immagini, Italia, colonialismo, Ottocento, alterità.

Abstract. The paper analyses the origins of Italian national identity in opposition to

the «otherness» of the African peoples subject to colonization between the end of the 19th century and the 1920s. The paper takes into consideration background studies in the history of pedagogy, among which, Gabrielli (2013, 2015) and colonial stud- ies as Del Boca (1988) and Labanca (2002) in order to investigate the development of racial stereotypes outside the school. Racial stereotyping increased in advertising and emerged in trademark images of Italian companies so that it influenced the idea of otherness between 1890 – i.e. the conquest of Eritrea – and 1922 – i.e. the advent of Fascism.

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LA COSTRUZIONE DEL SENSO DI ALTERITÀ NELL’ITALIA LIBERALE

Un recente volume di Bassi conferma l’interesse della storiografia italiana coloniale nei confronti degli studi culturali «affiancando la ricostruzione cronologi- ca dell’esperienza coloniale con lo studio dell’immagine pubblica del suddito e quindi la percezione del coloniz- zato nel colonizzatore» (Bassi 2018, 7). Sulle suggestioni euristiche emerse dalla connessione fra gli studi cultu- rali e coloniali, già accennate nell’opera di Nicholas B. Dirks, Colonialism and Culture (1992), si segnala il fon- damentale studio di Labanca, Imperi immaginati (2000, 145-168): alcuni elementi attinenti alla storia culturale, ad ogni modo, erano già apparsi negli studi condotti a partire dalla fine degli anni Cinquanta del Novecento (Battaglia 1958; Rochat 1972; Del Boca 1988), «contri- buendo a narrare non solo ciò che era accaduto in Afri- ca, ma anche ciò che si osservava in Italia, nella cultu- ra italiana, a proposito delle colonie». (Bassi 2018, 25). L’obiettivo degli studi culturali in relazione all’oggetto di ricerca coloniale si caratterizza dunque per privile- giare non solo l’aspetto militare che sottostà alla con- quista delle regioni africane da parte del Regno d’Italia, ma anche le rappresentazioni, le forme, le idee e i mec- canismi dell’immaginario, seguendo in questo modo le indicazioni euristiche indicate nell’opera di Edward Said

Orientalism (1991), il quale ha valorizzato il fondamen-

tale ruolo ricoperto dalla cultura all’interno della storia coloniale. La letteratura coloniale, come evidenziato da Bassi, ebbe l’incarico di svolgere da preparatore cultura- le non solo per i coloni, ma anche per l’opinione pubbli- ca italiana metropolitana, legittimando così la necessità di una missione di civiltà da parte della potenza colonia- le italiana nei territori africani sulla base della loro pre- sunta inferiorità sociale e culturale. L’insistenza su questi stereotipi, intesi come «una serie di informazioni su una categoria di oggetti o di persone che consente la riprodu- zione e la trasmissione sociale inalterata del pregiudizio» (Comberiati 2010, 184) fu resa necessaria per assicurare la tenuta dell’impresa coloniale prima e dell’ammini- strazione dei territori sottomessi in seguito, assicuran- do, come conseguenza non trascurabile, una visione semplicistica della storia dei popoli assoggettati. In Ita- lia è doloroso constatare come ancora oggi, a distanza di oltre un secolo dall’attuazione delle prime politiche espansionistiche in Africa, «prevalgono gli immagina-

ri costruiti e sedimentati nel periodo coloniale» (Triulzi

1999, 167). La rivisitazione del colonialismo italiano e il sorgere di un nuovo interesse per le «comunità imma- ginate» (Anderson, 1996) hanno portato a rivitalizzare il dibattito sulla cultura coloniale italiana e in partico-

lare sul «ruolo che la rappresentazione dell’alterità ha incarnato nella costruzione dell’universo iconografico coloniale» (Triulzi 1999, 167), come dimostrano gli studi sul fondo fotografico della Società africana d’Italia (Pal- ma 1995, 199-212). Le riflessioni euristiche che Triulzi solleva nel suo saggio si articolano in due punti princi- pali tra loro interconnessi. L’autore si domanda, infatti, se in Italia sia mai esistita una cultura coloniale diffusa e quale ruolo abbia tenuto «l’altro» nel costruirla attra- verso stereotipi perdurati nel tempo sino all’attualità. La costruzione dell’alterità coloniale aveva certamente lo scopo di depotenziare quella interna alla nazione stessa: da qui la necessità di immagini forti e immaginari col- lettivi da sottoporre all’attenzione della società post-uni- taria «capaci da un lato di annullare l’alterità interna – l’altra Italia [quella meridionale] e dall’altro distanziarla da quella esterna – l’altro coloniale – riconoscendo in ciò stesso una pericolosa vicinanza di fondo che occorreva esorcizzare e trasformare in differenza» (Triulzi 1999, 169). Le fotografie del primo periodo ritraggono solo i soldati: l’Africa è sullo sfondo, ha una sorta di valenza virtuale e non tangibile, come lo era stato nei primi anni post-unitari il Meridione. L’Africa si trasforma nel nemi- co, implacabile e vile, dopo le prime sconfitte di Dogali (1887), e Adua (1896), lasciando così lo spazio alla rimo- zione dell’evento stesso. Nella successiva fase di espan- sionismo coloniale, culminata nella guerra del 1911-12 contro l’Impero ottomano per il possesso delle sue pro- vince africane, i mezzi di comunicazione rappresentati da stampa illustrata e fotografia si sforzarono di creare consenso intorno alla conquista militare: in particolare, si evidenzia quella che Triulzi definisce «alterità a con- trasto», ossia la contrapposizione fra le truppe colonia- li africane fedeli all’Italia e i ribelli arabo-senussiti, che ha ancora oggi effetti sulla crisi identitaria prodotta dal colonialismo in Libia. La ricerca storico-filologica sulla fotografia coloniale ha permesso così di iniziare a inda- gare «le strutture mentali e i molteplici spazi di recipro- ca invadenza che hanno accomunato creatori e fruitori di immagini coloniali nella formazione del vasto patri- monio iconografico di fine secolo» (Triulzi 1998, 257). L’Africa di fine Ottocento assume sembianze idealizza- te ovvero demonizzate per l’opinione pubblica europea, mentre dell’Africa reale e del suo difficile intreccio fra popoli e culture diverse si ignora quasi tutto. Si potreb- be sostenere, dunque, l’esistenza di una vera e propria invenzione iconografica dell’Africa (Triulzi 1998, 258). L’analisi storica, d’altra parte, non può fare a meno di osservare che mentre l’impresa coloniale italiana in Afri- ca non fu adeguatamente preparata a livello istituzionale e militare, lo fu invece da un movimento di idee che, ali- mentatosi attraverso la stampa e la letteratura di consu-

101 La costruzione di un’identità nazionale contrapposta all’alterità in Età liberale

mo – strumenti di divulgazione efficaci – fu in grado di rendere le ambizioni espansionistiche nazionali «appe- tibili e accettabili anche all’opinione pubblica» (Surdich 1992, 6). Gli esiti del processo costruttivo dell’alterità perdurano ancora oggi: a distanza di oltre centocin- quant’anni dalla nascita dello Stato unitario, Neri Ser- neri notava come il concetto di italianità risulti essere maggiormente incentrato su un sentimento di repulsione nei confronti dell’alterità, piuttosto che su una rappre- sentazione, per quanto sommaria e abbozzata, di sé, sot- tolineando in questo modo lo stato di condizione duali- stico esistente tra noi e gli altri allo scopo di «normare a proprio vantaggio le pluralità socio-culturali» (Neri Serneri 2010, 104). Nel ricostruire le ragioni del conflitto – latente o meno – che si pone alla base della costruzio- ne di un’identità occidentale, e dunque italiana, è indi- spensabile recuperare gli studi di Said per comprendere «le forme e le modalità di trasmissione del pregiudizio» (Labanca et al. 2005, 726). La mancata attribuzione di una specifica rilevanza ricoperta dalla fase coloniale nel processo di nation-building nel caso italiano, secondo Labanca «continua ad essere motivata con il fatto che il colonialismo italiano […] sarebbe stato incapace di dare quel rilevante contributo alla costruzione di un’identità nazionale degli italiani che invece ha dato: e che nono- stante tutto continua a dare» (Ivi, 717). L’alterità – ricor- da ancora Nani – svolge un ruolo primario nella rappre- sentazione della nazionalizzazione «per contrasto» (Nani 2004, 95-119), un tema sul quale solo recentemente gli studiosi italiani si sono soffermati, maggiormente pre- si, in precedenza, dall’«ossessione di lungo periodo del- la cultura politica italiana per l’identità nazionale [che] ha portato gli storici alla ricerca degli ammanchi e delle loro cause» (Nani 2006, 19-20). Nella visione imperiali- sta che sarà adottata dall’Italia, l’autorità della potenza coloniale avrebbe dovuto reggersi su una rappresenta- zione dei popoli locali assoggettati in grado di esaltarne un’alterità sulla quale gravava sinistra, tuttavia, l’inferio- rità nei confronti degli Europei.

LA CULTURA COLONIALE NELL’ESPERIENZA ITALIANA: TRA RAZZISMO E NATION-BUILDING

La ricostruzione delle vicende inerenti al coloniali- smo italiano di Età liberale – oggetto di questo contribu- to – si baserà sulla fondamentale opera di Nicola Laban- ca, Oltremare (2002), definita come «l’unico lavoro di sintesi di recente pubblicazione e di eccellente qualità» (Pergher 2007, 61). L’autore, nella sua premessa, invitava gli studiosi ad approcciarsi a questo argomento con uno sguardo che non privilegi più esclusivamente il profilo

politico dell’espansionismo italiano: «come comprendere se il caso italiano fu un caso di socioimperialismo, cioè di espansionismo esterno volto ad integrare all’interno ceti e classi sociali, senza farne una storia sociale e cul- turale?» (Labanca 2002, 12). La cultura coloniale – pro- dotta all’interno degli Stati colonizzatori – svolse infatti un ruolo di primo piano nell’offrire slancio al processo imperialistico di conquista, affermando, con un processo parallelo, la negazione dell’esistenza della civiltà indige- ne (Nani 2006, 47 e segg.). La costruzione dell’«alterità» nei confronti dell’Africa e delle sue numerose etnie fu intrinsecamente connessa con la nazionalizzazione delle masse italiane in Età liberale, come dimostrano le ricer- che intraprese da Gianluca Gabrielli, che ha approfon- dito, in particolare, il ruolo svolto dalle istituzioni sco- lastiche nel contribuire alla formazione di un’identità coloniale italiana: «abbondanti tracce di questo potente agente di nazionalizzazione – scriveva nel 2013 – le pos- siamo trovare, ad esempio, proprio nei testi scolastici, che fin dagli anni Ottanta dell’Ottocento […] [nutriro- no] la costruzione didattica dell’orgoglio nazionale con la descrizione degli eroismi esotici dei militari bianchi e con la stigmatizzazione di nemici selvaggi e votati al tra- dimento» (Gabrielli 2013a, 324).

I paesaggi africani furono in un primo momento caratterizzati da un’aurea di fascino esotico strettamen- te connesso alla natura primordiale di quei luoghi; in un secondo tempo, invece, in virtù dei processi di conquista da parte delle potenze europee occupanti dei quali furo- no vittime, tali peculiarità si fusero irrimediabilmente con quelle di un mondo naturale reso, tuttavia, addome- sticato dalla mano laboriosa dei colonizzatori (Gabrielli 2014, 19-21).

Nel processo di costruzione dell’alterità Gabriel- li nota come due concetti fondamentali siano presenti: «il sottinteso “razziale” e l’attribuzione di un’inferio- rità strutturale. […] Accanto alla lente «razziale», ogni immagine di un africano porta come sottinteso il segno della propria alterità e inferiorità». (Gabrielli 2015, 224). L’analisi di Gabrielli, che si concentra sullo studio dei programmi e dei libri di testo adottati in Italia dall’Uni- ficazione sino all’età repubblicana, evidenzia l’evoluzio- ne di una cultura coloniale che, irrobustita dalle teorie sviluppatesi in quegli anni a proposito dell’appartenenza degli italiani a una «razza caucasica» superiore e gene- ratrice della civiltà occidentale europea, a partire dalle guerre condotte in Etiopia durante l’età crispina (1887- 1896), «rafforzò l’idea che gli italiani […] avevano un destino imperiale collegato alla loro identità “razziale”» (Ibidem). Il razzismo, d’altra parte, aveva già svolto un ruolo di primo piano nella costruzione dell’identità cul- turale degli italiani negli anni successivi all’unificazione

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della penisola. Cesare Lombroso, considerato il fonda- tore dell’antropologia criminale e della Scuola positiva di diritto penale, sosteneva che esistesse un alto grado di affinità fra criminali e selvaggi (Veronica 2010, 155; Mosse 1980, 50); i suoi studi influenzarono profonda- mente i successivi sviluppi della scienza sociale italiana del primo Novecento che «contribuirono a fare del razzi- smo il principio fondante della legittimazione delle con- quiste territoriali, della rapina coloniale e dell’asservi- mento delle popolazioni da parte dell’imperialismo capi- talista (Miele 2012, 128). Le logiche di stigmatizzazione promosse da Lombroso e, più in generale, dall’antropo- logia criminale dell’epoca, assumono grande rilevan- za perché sono in grado di colpire sia alterità interne – costituite dai delinquenti, dagli omossessuali, dagli zin- gari e da altri soggetti considerati devianti – sia gli ele- menti ambigui e/o discontinui riscontrabili nell’alterità esterna (Nani 2009, 165-174; Nani 2019). Pur senza costi- tuire tema di ricerca in questa sede1, è opportuno ricor-

dare come nelle colonie italiane – a partire dall’Età libe- rale sino a quella fascista – siano stati attivi molteplici tipi di razzismo coloniale, integratisi in forma compiuta a partire dagli anni Trenta: il razzismo fascista, infatti, include al suo interno sia «affermazioni di tipo biologi- co che sottolineano una distanza incolmabile, sia quel- le di tipo nazionalistico che ipotizzano un’assimilazione subordinata» (Gabrielli 2013b, 371). Labanca distingue così, all’interno del razzismo coloniale, diverse caratte- rizzazioni: «nell’Oltremare italiano – egli scrive – si assi- sté ad uno specifico razzismo istituzionalizzato (per via legislativa, almeno a partire dal 1937), ad una politica del razzismo, o ad un razzismo politico (cioè legato alle grandi scelte della politica coloniale dell’Italia, liberale prima e fascista) e ad un razzismo quotidiano, diffuso e di massa» (Labanca 2002, 413).

La democratizzazione delle masse – processo avvia- to in Italia in età giolittiana – inaugurò nuovi canali di trasmissione della cultura coloniale, non limitati esclusi- vamente all’ambito scolastico: «libri, opuscoli, conferen- ze irrobustirono una pedagogia imperiale avviata sin dai banchi di scuola e rafforzata dalle esperienze visive delle grandi esposizioni» (Nani 2006, 50). Le rappresentazioni non riguardarono solamente i caratteri dell’alterità ester- na ma anche quelli dell’identità che si definisce in rap- porto ad essa, riducendo al contrario l’alterità interna, anche in ottica migliorativa dell’immagine nazionale in

1 La trattazione del tema dell’«alterità» presente nelle immagini allegate

ai marchi registrati nel periodo fascista è stata oggetto di analisi in un altro contributo dell’autore dal titolo New sources of cultural history of

education: Italian trademark pictures as veichles of colonial prejudices in the Fascist age, pubblicato sulla rivista «Pedagogia Oggi», 2020, n. 1, pp.

269-288.

Europa (Ivi, 92). Il processo di affermazione dei naziona- lismi nel corso dell’Ottocento aveva rafforzato la produ- zione e il conseguente consumo di una pubblicistica raz- ziale «da una parte rafforzando (e non di rado costruen- do di sana pianta) tradizioni nazionali e sentimenti di appartenenza comune, dall’altra – con identiche finalità – escludendo nemici e stranieri» (Burgio-Gabrielli 2012, 101-102). Attraverso le politiche identitarie portate avanti dalle élites al termine dei processi unitari in Italia e in Germania, si rafforzarono una serie di miti fondativi, molti dei quali inventati per l’occasione, come dimostra il pregevole saggio di Eric Hobsbawm e Terence Ranger

L’invenzione della tradizione (1983), allo scopo di edifi-

care un carattere nazionale fondato su diversi aspetti e tradizioni: naturali, storici, culturali e individuali.

FIGURE AFRICANE TRA STEREOTIPI E PROCESSI PRIVATIVI

La cultura coloniale sviluppava tra i suoi stereotipi quello della figura del selvaggio africano, «una costante del racconto sulle guerre coloniali» (Montino 2007, 206), nonostante – almeno per l’area etiopica – si potesse par- lare di una serie di rapporti privilegiati con gli Europei, in particolare in virtù della condivisione di un comune credo religioso (Novati Calchi 2005, 224), del riconosci- mento, almeno parziale, dell’esistenza di una civiltà etio- pica che riscuoteva un credito positivo in termini di tra- dizione storica (Polezzi 2008, 290) e per la sua posizione strategica nell’Africa orientale (Novati Calchi 2005, 225), anche se non mancavano giudizi negativi sulla persi- stenza di pratiche culturali, sociali e giuridiche ritenute pregne di barbarie (Ibidem, 227-235). La sopraffazio- ne dei popoli arabi della Tripolitania, d’altro canto, era affermata come necessaria anche negli scritti del premio Nobel per la pace Ernesto Teodoro Moneta (1833-1918), laddove egli sosteneva come fosse «una triste fatalità che anche nel presente come nel passato i popoli esuberanti di uomini e di energie non possano penetrare nei pae- si ancora barbari o semibarbari senza l’uso della forza» (Novati Calchi 2005, 240).

Allo scopo di analizzare gli stereotipi sorti in ambi- to coloniale, può essere d’aiuto esaminare le rappresen- tazioni di due differenti soggetti, sottoposti entrambi ad azioni educative formali e informali che miravano alla loro subalternità, l’uno esemplificato dall’ascaro – il soldato indigeno tradizionalmente reclutato in Eritrea – l’altro dalla donna africana. Le pratiche di subalternità, tuttavia, sortivano effetti differenti: se il primo era addi- tato «come esempio da imitare, dai manuali scolastici destinati a coloro che sempre più insistentemente veni-

103 La costruzione di un’identità nazionale contrapposta all’alterità in Età liberale

vano considerati soprattutto nella loro utilità di “futuri soldati d’Italia”» (Palma 2007, 234), alla donna era riser- vato un trattamento differente, che la trasformava in «un polo di attrazione sensoriale ed emozionale che richia- mava automaticamente motivi ed immagini di eccitazio- ne e seduzione, posto sullo stesso piano di un tramonto, di una foresta vergine, di una battuta di caccia grossa» (Surdich 2003, 48). In questa logica aberrante il possesso carnale del corpo dell’indigena – conseguito mediante lo stupro, metafora dell’espansione coloniale – equivaleva al dominio sul continente africano. La rigida stratifica- zione alla quale era sottoposta la popolazione indigena coloniale, cui non era garantito il diritto a una cittadi- nanza a pieno titolo, richiamava in modo palese le poli- tiche educative metropolitane dell’Ottocento che legitti- mavano, perciò, «sotto il profilo etico e giuridico, l’ordi- namento rigidamente classista della società e il sistema di valori propugnato dalle élites borghesi» (Ascenzi, Sani 2016, 90), irrobustite da prassi e, successivamente – in età fascista – da ordinamenti giuridici razzisti. D’altra parte, lo sviluppo di una cultura italiana coloniale fu un processo complesso, a tratto ambiguo, che non sep- pe risvegliare la medesima partecipazione emotiva che animava le classi sociali popolari di quegli Stati, come Francia e Regno Unito, che avevano alle spalle una più solida tradizione coloniale: «di ciò furono gli stessi cir- coli coloniali ad essere consapevoli, con quel loro mai essere soddisfatti della profondità e della stabilità della “coscienza coloniale” degli italiani» (Labanca 2002, 223). Questa affermazione, tuttavia, non deve indurre a ritene- re che l’opinione pubblica italiana non fosse pienamente inserita all’interno dell’età dell’imperialismo: l’«Altro» era presente in Italia da tempo, indipendentemente dal- le conquiste coloniali. La mancanza di propri possessi oltremare, tuttavia, aveva reso le masse popolari italia- ne ignoranti delle realtà africane, conosciute soprattutto a livello iconografico e narrativo, non privo di tendenze verso l’esotismo.

Un nuovo slancio si verificò dopo la sconfitta di Adua, per effetto della costituzione dell’Istituto Colonia- le Italiano nel 1906 e la formazione del Ministero delle Colonie nel 1912, che posero le basi per una moderna struttura centrale della propaganda coloniale in Italia.

Lo scopo di questa pubblicazione è analizzare la genesi della costruzione di un’identità nazionale forte- mente contrapposta a quella rappresentata dall’«alterità», costituita dalle popolazioni delle colonie conquistate tra l’Ottocento e la fine della guerra italo-turca del 1911- 1912 per il possesso della Libia: a questo fine, la ricerca perseguirà l’obiettivo di indagare le tipologie di una serie di stereotipi culturali originatesi in contesti non scola- stici, ma dalla forte pregnanza educativa, costituiti dalla

diffusione e conseguente ricezione da parte dei consu- matori delle iconografie proprie dei marchi delle aziende attive in Età liberale, che hanno contribuito a influen- zare profondamente la rappresentazione italiana del- l’«alterità» nell’arco temporale compreso fra l’acquisizio-

Nel documento View of Vol. 7 No. 1 (2020) (pagine 101-117)