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Calvino e i novellator

Le Fiabe italiane e le altre antologie

4. Calvino e i novellator

Nella Introduzione alle Fiabe italiane Calvino spiega come la sua opera risponda a criteri soltanto in parte scientifici, intendendo come tali esclusivamente quelli adottati dai folkloristi che avevano raccolto su carta il materiale su cui si basava la sua antologia. A questo impagabile lavoro preparatorio, seguì l’elaborazione dello scrittore che, in conformità con la parte meno scientifica dell’operato dei Grimm, aveva scelto dalle molteplici versioni delle fiabe quelle «più belle, originali e rare»28, le aveva tradotte dal dialetto usando «un italiano mai troppo personale e mai troppo sbiadito»29, raccontate nuovamente con l’inserimento di alcune varianti, cercando di rispettarne l’equilibrio interno.

Rinarrando le fiabe, Calvino entra a far parte di quel mondo di novellatori da cui è tanto affascinato. L’interesse dell’autore per i racconti favolistici si lega in particolare alla loro struttura interna, a come riescano attraverso elementi semplici e primitivi a raccontare delle verità sempre attuali. Egli è irresistibilmente attratto da ogni versione, cogliendone la capacità di divenire nuovo racconto. Attraverso narrazioni lineari, racconti semplici, istintuali ed antichi, modelli di libertà inventiva, facilmente immaginabili e prevedibili, le fiabe ottengono innumerevoli risultati con il minimo dispendio di mezzi. Sono infatti caratterizzate da una grande economia di espressioni, da una logica ed un ritmo semplici, racchiudono infinite possibilità narrative poiché,

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Ibidem.

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attraverso le loro molte variabili, trattano argomenti universali in modi sempre diversi. Possono rappresentare schemi e funzioni primitivi in modi differenti a seconda del narratore, dell’epoca e del luogo. La maggior parte di esse si forma attorno ad una trama principale, in cui un protagonista segue il suo destino, combattendo contro avversari malvagi, con l’aiuto di fedeli assistenti.

I narratori delle fiabe sono il più delle volte protagonisti anonimi, distanti dai letterati e dagli studiosi, e compiono nel loro piccolo un lavoro di conservazione. Non sono dotati di particolari capacità critiche, ma nel riferire le fiabe colgono gli aspetti più importanti, sfrondandole da ciò che non serve, instillandovi qualcosa di diverso, combinano gli elementi in una forma nuova.

Nel tentativo di capire le strutture elementari che danno vita alla pluralità narrativa, Calvino approfondì gli studi di Propp, Todorov, e Greimas. La ricerca dell’archetipo da cui scaturiscono tutte le fiabe si trasformò nello studio appassionato di ciascun racconto che, sommato ad altri, conduce ad un insieme organico.

Nell’operare sulle fiabe lo scrittore si mimetizzò con innumerevoli anonimi narratori. Benché abbia cercato di nascondere i rimaneggiamenti, aderente all’idea armoniosa d’insieme, o di dissimulare il suo contributo alla tradizione orale di cui era trascrittore, i suoi interventi sono comunque riconoscibili.

In questa antologia di racconti perfezionati letterariamente, rimase fedele alla materia narrata, ridusse le deformazioni dovute alle espressioni dialettali e agli interventi dei raccoglitori, conservò le peculiarità di ciascun luogo, epoca e narratore.

Nonostante abbia combinato liberamente le infinite variazioni possibili della materia fiabistica, Calvino ha operato secondo uno schema prestabilito all’inizio del lavoro di raccolta: ritmo e stile, come le espressioni linguistiche, dovevano rispettare la resa d’insieme. Egli dedusse dalle fonti i tratti principali, lasciò perlopiù inalterate le formule proposte, accolse gli elementi caratteristici di alcune isolate varianti, rielaborò le versioni più diffuse, adattò il particolare all’universale per costruire un insieme armonico, avvicinandosi al mondo della fiabistica in veste di lettore appassionato, non di professionista o studioso.

Il rapporto di Calvino con le fiabe attraversa il suo lavoro di romanziere, la sua vita letteraria e quella reale. Alle fiabe ha dedicato svariati scritti, tra cui le prefazioni ad

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alcuni volumi della collana i Classici della fiaba, che testimoniano un interesse mai spento per il mondo favolistico.

Nel saggio La tradizione popolare nelle fiabe, scritto per la Storia d’Italia Einaudi, Calvino afferma che «il racconto di meraviglie magiche, dal “c’era una volta” iniziale alle varie formule di chiusura, non ammette d’essere situato nel tempo e nello spazio»30

. Egli non considera la fiabe esclusivamente come contenitori di saperi universali, ma ne coglie il valore di documenti storici capaci di raccontare tradizioni, usanze, costumi, fedi, ovverosia di ritrarre il popolo. Gli studi incentrati sulla struttura primitiva delle fiabe e sull’archetipo universale da cui tutte parrebbero scaturire contribuiscono a suo parere alla loro indagine storica:

«Il processo di formalizzazione comune a queste indagini sembrerebbe allontanare ancor di più la fiaba dalla sfera d’interessi dello storico. È vero invece il contrario: ridurre la fiaba al suo scheletro invariante contribuisce a mettere in evidenza quante variabili geografiche e storiche formano il rivestimento di questo scheletro; e lo stabilire in modo rigoroso la funzione narrativa, il posto che vengono a prendere in questo schema le situazioni specifiche del vissuto sociale, gli oggetti dell’esperienza empirica, utensili d’una determinata cultura, piante o animali d’una determinata flora o fauna, può fornirci qualche notizia che altrimenti ci sfuggirebbe, sul valore che quella determinata società attribuisce loro»31.

Le fiabe viaggiano incessantemente e ogni narratore influisce, in diversi modi, sulla loro struttura, contribuisce ad aggiungere, eliminare o modificarne alcuni tratti. Per quanto si impegni a rispettare il racconto, così come gli è arrivato, non può sfuggire all’incanto del mondo fiabesco, all’immedesimazione e a fare propria la narrazione, coinvolto «nell’antico gioco tra chi narra e chi ascolta»32. Resta dunque traccia dei narratori, delle epoche e dei luoghi. Per alcune delle Fiabe italiane è ancora possibile tratteggiarne le personalità, ma nella maggioranza dei casi le novelle sono ricondotte ad un narratore immaginario, un ‘quasi protagonista’ con una propria fisionomia. Queste

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Italo Calvino, La tradizione popolare nelle fiabe, in Id., Sulla fiaba, cit., p. 117.

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Ivi, pp. 121-122.

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figure, come la contadina di Kassel dei fratelli Grimm, o Agatuzza Messia nei racconti di Pitrè, sono in parte vere ed in parte idealizzate.

Calvino si lascia trasportare dal mondo fiabesco e, come i novellatori delle sue fiabe, lascia un segno, nascosto o apparentemente visibile. Nella nota a Salta nel mio sacco!, ultima fiaba della raccolta, ci fornisce un esempio del suo personale intervento:

«Nel testo c’era una battuta che ho saltato (…) Altro cambiamento mio: il Diavolo non chiedeva esplicitamente la vendita dell’anima (…) Io ho aggiustato un po’ (…) In principio, nella prima apparizione della Fata, il farla stare in cima a un albero è arbitrio mio»33.

In una nota alla fiaba La vecchia dell’orto, tratta dalla raccolta di Pitrè, scrive: «La ragazza che si vergogna a dire: “Sono ancora piccolina” è una mia aggiunta»34

.

Attraverso il ricco apparato di Note alle Fiabe italiane Calvino lascia traccia dei suoi interventi e, allo stesso tempo, induce anche a pensare che non tutto sia stato rivelato e che altri elementi si nascondano nelle narrazioni, legati da un filo sottile che attraversa l’intero corpus e che ci conduce al suo autore.

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Italo Calvino, Note, in Id., Fiabe italiane, cit., p. 1003.

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Capitolo III