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2.1: I canali di diffusione della canzone: oralità e scrittura

La guardia civica Giò Marasca, che abitava al secondo piano della birreria Glira a Rovereto, la sera del 18 febbraio 1866 intese provenire dai piani sottostanti alcune canzoni “antipolitiche”. Una compagnia di artigiani, composta da macellai, sarti, falegnami, pellettieri, fabbri e calzolai, mentre stava trascorrendo la serata in allegria, iniziò a cantare il ritornello de «La bandiera dei tre colori» e alcune strofe del coro dell’opera verdiana del Macbeth: «Patria oppressa! Il dolce nome \ No, di madre aver non puoi, \ Or che tutta a figli tuoi \ Sei conversa in un avel. \ D’orfanelli e di piangenti \ Chi lo sposo e chi la prole \ Al venir del nuovo Sole \ S’alza un grido e fere il Ciel». All’interno del fascicolo, aperto dal commissario di polizia, sono contenuti gli interrogatori degli arrestati; una documentazione che costituisce una fonte preziosa, poiché permette di comprendere alcune delle modalità di diffusione del testo musicale663.

La maggior parte dei fermati ammise di aver cantato il coro dell’opera verdiana e, incalzati dalle domande delle guardie di polizia, illustrarono le circostanze nelle quali vennero in contatto con questo canto, molto conosciuto soprattutto negli ambienti borghesi664. Daniele Salvetti, fabbro ferraio di 26 anni in grado di leggere e scrivere, dichiarava: «Mi trovai difatti nella sera della scorsa domenica 18 corrente nella birreria Glira con certo Bonvecchio, col garzone macellaio il sig. Smalzi, […] coi quali ho cantato le parole di una canzone: «patria oppressa, al dolce nome», canzone che ho inteso cantare più volte sulla strada, e che ritengo non proibita». Nel processo verbale del sarto Domenico Galvagni, anch’egli letterato, si leggeva: «nella scorsa domenica 18 corrente mese verso le ore dieci circa di sera mi trovavo difatti nella birreria Glira col mio cugino Clemente Bonvecchio, calzolaio di questa città, in una stanza dove si trovavano diverse persone in numero di 15 o 16, intenti a bere birra. Io ho cantato qualche parola della canzone «patria oppressa» senza sapere cosa si cantava, perché ero alterato dal vino, cogli altri che pure allegri erano, […], canzone che si sente cantare in ogni festa e che ritengo non sia proibita».

Da entrambe le testimonianze emergeva come la canzone utilizzasse dei canali di diffusione legati all’oralità; si poteva apprendere un canto senza la fruizione di un testo scritto, ma attraverso l’ascolto. La ricerca storica, quindi, deve rivolgere la sua attenzione alle occasioni e alle circostanze in cui le classi popolari potevano entrare in contatto con queste tipologie di testo musicale. A questo

663 Archivio di Stato di Trento (AST), Commissariato di Polizia di Rovereto, atti riservati, anno 1866, busta n. 6,

documento n. 64

664 Il 26 agosto 1853 una guardia sorprese in un’osteria di Pieve Tesino (un borgo ad una trentina di chilometri da

Trento, in Valsugana sul confine tra il Trentino ed il Veneto) alcuni individui, «facenti parte della media e bassa borghesia», intenti a cantare numerose opere teatrali, come ad esempio alcune aree del Nabucco, del Macbeth, dell’Adelchi, dell’Inno di Pio IX, della Marsigliese ed un pezzo del trionfo di Radetzky. AST, Capitanato distrettuale di Borgo, Atti presidiali, Anno 1847-1868, busta n. 27, documento n. 123

proposito si può facilmente ipotizzare l’importanza delle bande musicali nel diffondere le opere teatrali, soprattutto quelle legate al melodramma italiano665.

Durante tutto l’ottocento le bande e le fanfare iniziarono ad essere impiegate non solamente per accompagnare alcune delle manifestazioni ufficiali, come ad esempio, le parate, le processioni o i comitati d’accoglienza per salutare l’arrivo di qualche personalità dello stato666, ma allietavano, con piccoli concerti ed esibizioni musicali, anche le numerose forme della sociabilità popolare667.

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento le bande ricoprirono un ruolo fondamentale come forma di intrattenimento pubblico all’interno della vita sociale cittadina. Il direttore della banda era tenuto ad inviare una richiesta formale al commissario o al municipio per ottenere il permesso per potersi esibire e, in alcuni casi, si richiedeva di allegare il programma delle opere che si intendevano suonare. Da questa documentazione, depositata negli archivi di polizia, si evince la grande vitalità del fenomeno bandistico. Numerose, infatti, erano le occasioni in cui le bande cittadine si esibivano in corteo o stazionavano sulle piazze e nelle osterie. Si può citare, ad esempio, la richiesta di Giacomo Glira, titolare dell’omonima birreria, per ottenere il permesso per far suonare la banda civica nel suo locale durante la serata del 29 aprile 1866668. Più frequenti, invece, erano le richieste per effettuare dei concerti in strada e nelle zone più affollate della città, dove si poteva raggiungere un pubblico più numeroso e che apparteneva a qualsiasi classe sociale. Il 5 giugno 1865 il maestro Francesco Chiusole, direttore della banda civica roveretana, informava il municipio che «alle ore 6 (tempo permettendo) la Banda Cittadina si produrrà sul Corso nuovo per

665

Paolo Prato, La musica italiana. Una storia sociale dall’Unità a oggi, Roma, Donzelli, 2010, pp. XVIII-525, p. 39 e sgg.; Stefano Pivato, Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. XII-361, p. 54 e sgg.

666 Per comprendere l’utilizzo della banda cittadina all’interno di queste occasioni, si veda il diario redatto da Girolamo

Andrei, che percorreva la prima metà del XIX secolo. Frequenti, infatti, erano le annotazioni come la seguente: «nei giorni 14, 15, 16 del settembre 1841 soggiornò e pernottò in questa città sua eccellenza conte Clemente de Brandis, governatore del Tirolo solo da pochi mesi. […] alle 9 1\2 tornò all’albergo in mezzo a torcie e accompagnato. La musica civile a piena orchestra aspettollo e suonò in strada con gran folla di gente e allo splendore di 8 gran fiaccole»; e ancora al giorno 10 settembre 1845 si leggeva: «verso le ore 3 pomeridiane, arrivarono in questa città i tre fratelli e figli dell’arciduca Francesco […]. Alloggiarono alla locanda del caval bianco sul Corso Nuovo. Poco dopo la banda civica suonò sotto le finestre della locanda stessa l’inno nazionale con altra suonata. La sera essa ricomparve per eseguire, come eseguì, alcuni pezzi musicali durante l’illuminazione data sul Corso con un arco tutto illuminato fra il palazzo de’ conti Alberti e la caserma de’ gendarmi annessa al civico magazzino. Dopo aver eseguite alcune suonate sotto le finestre de’ tre giovani arciduchi, la banda cittadina si recò sotto quelle del loro parente duca di Modena, alloggiato sullo stesso Corso nella locanda della corona». Girolamo Andreis, Memorie scritte in ordine cronologico da Girolamo

Andreis da Rovereto per gli anni 1815-1846 diario ripubblicato in Antonio Carlini, Clemente Lunelli, I giorni tramandati. Diari trentini dal ‘500 all’ ‘800, Trento, Edizioni U.T.C., 1988, , pp. 129-186, p. 173 e 178

667 A questo proposito Antonio Carlini sosteneva che «la banda è segno distintivo di queste forme nuove della socialità,

diventando indispensabile per la moderna ritualità urbana». Antonio Carlini, Armando Franceschini e Antonio Cembran, In banda. Storia e attualità dell’associazionismo bandistico trentino, Trento, Federazione Corpi Bandistici della Provincia di Trento, 1990, pp. 3-456, p. 29

668 «Al Lodevole I. R. Commissariato di polizia di Rovereto. Vi si prega di prevenirla che lo scrivente magistrato ha

permesso al signor Giacomo Glira che nel locale di suo proprio che una parte della banda civica questa sera possa suonare purché vengano osservate le discipline di polizia in proposito vigenti. Rovereto, li 29 aprile 1866». AST, Commissariato di polizia di Rovereto, atti riservati di polizia interessanti manifestazioni d’italianità, busta n. 23, documento n. 1267

eseguire i seguenti pezzi: Maria Carlotta, Carte Div. della Norma, Duetto Marin Faliero, Aria del Nabucco e Maria Beppina»669. Durante tutto il XIX secolo, non era infatti inusuale imbattersi, mentre si passeggiava per la città, nell’ascolto delle opere verdiane670 o in quelle dei principali compositori del melodramma italiano. La musica operistica circolava ampiamente anche al di fuori delle sale del teatro. Un aspetto, questo, di particolare importanza, poiché consente di mettere in luce la funzione della banda come mezzo di diffusione, nelle classi popolari più basse, di musiche legate agli ambienti più borghesi ed intellettuali671.

La grande forza d’attrazione e l’ampiezza del fenomeno bandistico si evince anche da questo frammento del diario di Enrico Pedrotti, uno dei fondatori del coro della S.A.T., che immergeva il lettore nella vita quotidiana del capoluogo trentino a cavallo tra la fine dell’ottocento ed inizio novecento. Pedrotti scriveva:

«andavamo sempre a vedere i soldati. Soldati e pompieri erano le più belle cose da vedere, ma specialmente i soldati con la banda. La domenica mattina la mamma ci lasciava andare a vedere i pompieri, e passavano vicino, e suonavano la tromba e allora via. In piazza Fiera andavano su e giù per lo loro lunghe scale. Alle 10 passava la banda e i soldati, così addio pompieri, e poi i pompieri avevamo una tromba sola, la banda invece ne aveva tante belle lucide e i tamburi, e il tamburo grande col carrettino e quella banda aveva anche un piccolo cavallino e lo tirava lui il tamburo grosso. Andavano a messa i soldati, tutti in fila dietro la banda e il cavallino, però lui lo lasciavano fuori dalla chiesa»672.

669 AST, Commissariato di polizia di Rovereto, atti riservati di polizia interessanti manifestazioni d’italianità, busta n.

23, documento n. 88

670

Alcune arie tratte dall’opera l’«Ernani» vennero eseguite nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1865 in piazza delle Erbe a Rovereto; nella stessa piazza, due anni più tardi, il 5 gennaio 1867, vennero suonati il duetto ed il coro de «I due Foscari». AST, Commissariato di polizia di Rovereto, atti riservati di polizia interessanti manifestazioni d’italianità, busta n. 23, documento n. 76 (1865) e n. 2 (1867)

671

Nel suo articolo dedicato alla diffusione del melodramma all’interno delle classi popolari, Roberto Leydi rilevava che «si può affermare con sicurezza che la pratica bandistica ha avuto un peso importante, se non determinante, per la diffusione della musica operistica, almeno fino al periodo fra le due guerre (in particolare fino alla prima guerra). […] Il repertorio operistico trascorre così dai teatri alle piazze, in adattamenti, rifacimenti, arrangiamenti che in gran parte tendono a replicare, in una versione strumentale, la realtà degli originali, ma anche attraverso elaborazioni originali che utilizzano i materiali operistici per dar vita a composizioni concertistiche, centrate sull’esibizione solistica strumentale». Roberto Leydi, «Diffusione e volgarizzazione» in Storia dell’opera italiana, vol. 6, Torino, EDT/Musica, 1988, pp. 303-392, p. 339.

672

Enrico Pedrotti, I bambini delle Androne. Diario di Enrico Pedrotti, Trento, Società degli Alpinisti Tridentini, 2002, pp. 5-95, p. 14. Il Pedrotti, classe 1905, ricordava in questa maniera l’arrivo a Trento dei soldati italiani al termine della prima guerra mondiale: «il giorno seguente ci svegliò una banda al mattino. Erano tanti anni che non si sentivano più bande e questa suonava diverso. Dalla fretta ci siamo messi i calzoni senza mutande, e giù di corsa. L’abbiamo trovata vicino al Duomo ed erano tanti soldati nuovi che arrivavano, e quella era la loro banda. Suonava così bene come non avevamo mai sentito, e suonarono in piazza e si fermarono sotto al Municipio a suonare: “Va fuori d’Italia, va fuori stranier”. Quella la sapevamo anche noi e la cantavano gli zii, e allora non si poteva cantare perché mettevano in prigione, ma adesso sì si poteva cantare, e noi la sapevamo bene e cantavamo forte e tanti altri la sapevano vicino a noi e cantavano tutti, ma noi bambini più forte di tutti e i soldati ci guardavano e sorridevano, qualcuno non rideva e si asciugava gli occhi, e la gente anche. Suonarono anche un altro inno che non sapevamo e qualcuno della gente cantava e lo sapeva: “Fratelli d’Italia…” ed era bella. Veniva tanta gente ad abbracciare i soldati, e noi eravamo vicino alla banda per suonare, e suonavano così bene che faceva male dentro come quando suonava il cieco delle nostra baracca [il Pedrotti fa riferimento ad un suonatore cieco che allietava le serata nelle baracche dei profughi allestite durante le guerra]. Ed era un giorno così bello che non si poteva dimenticare». Ivi, p. 68 e 69. Cfr. anche Antonio Carlini, «Una

La banda, travalicando i classici luoghi dedicati alla musica, come i teatri e le sale da concerto, riusciva a portare queste nuove sonorità in piazza e all’interno delle strade cittadine; uno spazio pubblico, aperto e gratuito, dove chiunque era in grado di fruire di alcuni testi musicali con i quali, altrimenti, difficilmente poteva venire in contatto. Queste riflessioni consentono di comprendere meglio le modalità di circolazione nel milieu artigianale e operaio, di canzoni colte che, solo in apparenza potevano risultare non conformi al tradizionale patrimonio canoro popolare673. Se da un lato le bande e le fanfare tendevano a trasformare coloro i quali ascoltavano le differenti esibizioni in “ascoltatori” e “spettatori”, creando una separazione tra il pubblico e l’esecutore, scardinando così il carattere partecipativo dell’uso popolare del canto674, dall’altra permetteva di diffondere «per sentito dire»675 le principali arie del melodramma italiano.

I recenti studi di musicologia hanno messo in luce la grande importanza della banda civica in quanto «strumento di divulgazione musicale per l’Italia dell’ottocento», per citare un recente articolo di Antonio Carlini676. Attraverso le opere di riduzione e semplificazione delle partiture e degli elementi del linguaggio musicale operistico, le bande cittadine offrivano ad un pubblico più ampio le opere dei grandi compositori ottocenteschi. Essa favoriva, inoltre, l’insorgere di processi di contaminazione tra la cultura “alta” e quella “bassa”677, derivati anche dal carattere interclassista

bella storia: il Coro della SAT» in Franco De Battaglia, Floriano Menapace, Antonio Carlini, Guarda, ascolta

l’originale avventura tra musica e fotografia dei F.lli Pedrotti. A cura di Angelo Schwarz, Trento, Temi, 2001, pp. 63-

79

673 A questo proposito in un recente volume sul canto operaio torinese a cavallo tra la fine dell’ottocento ed inizio

novecento, gli autori sottolineavano che: «i canti qui raccolti documentano […] una situazione più contraddittoria o se vogliamo più sfumata: le diverse culture si parlano, si intrecciano; i rapporti tra oralità e scrittura, tra i linguaggi della canzonetta, dell’opera lirica o dell’operetta da un lato e il canto operaio dall’altro sono ampi, profondi e documentati». Emilio Jona, Sergio Liberovici, Franco Castelli, Alberto Lovatto, Le ciminiere non fanno più fumo. Canti e memorie

degli operai torinesi, Roma, Donzelli, 2008, pp. XXI-728, p. 8. Un aspetto messo in luce anche dallo stesso Leydi: «a

comporre il repertorio «sociale» entrano materiali strutturali, verbali, musicali che vengono dalla tradizione contadina, dalla tradizione artigiana urbana, dall’uso subcolto di vario carattere, dall’innodia borghese, dalla canzone di consumo, dal melodramma». Roberto Leydi, «La canzone popolare» in Storia d’Italia. Volume quinto. I documenti (2), Torino, Einaudi, 1973, pp. 1183-1235, p. 1232. Cesare Bermani, infatti, parla del canto sociale come un «fenomeno di frontiera tra culture ufficiali da un lato e culture popolari dall’altro, utilizza a volte testi e musiche proveniente dalle culture egemoni (innodia borghese o socialista, arie da romane, melodrammi, operette, canzonette di consumo, marce e arie militari, ecc.), a volta di produzione popolaresca […], a volte interni alla tradizione popolare […]». Cesare Bermani, «I canti sociali italiani» in Roberto Leydi (a cura di), Guida alla musica popolare in Italia. 2. I repertori, Lucca, Lim Editrice, 2001, pp. 149-172, p. 150 (testo ripubblicato in Cesare Bermani, “Guerra guerra ai palazzi e alle chiese…”.

Saggi sul canto sociale, Roma, Odradek, 2003, pp. 1-24)

674 Cfr. Roberto Leydi, «Diffusione e volgarizzazione», cit. p. 347 e sgg.

675 «La banda musicale», rilevava Enrico Strobino nella sua tesi, «fa parte di quei mezzi che testimoniano un altro modo

di conoscenza, cioè quello che avviene “per sentito dire”, per partecipazione progressiva a una cultura. Essa è stata dunque un ineguagliabile strumento di diffusione e di acculturazione». Enrico Strobino, Il ruolo della banda nella

cultura musicale popolare, Relatore Roberto Leydi e Lorenzo Bianconi, Università degli studi di Bologna, Facoltà di

Lettere e Filosofia, corso di Laura D.A.M.S., 1980\1981, p. 1-157, p. 61; consultata presso il Fondo Roberto Leydi di Bellinzona

676 Antonio Carlini, «La banda come strumento di divulgazione musicale per l’Italia dell’ottocento» in Antonio Carlini

(a cura di), Accademie e società filarmoniche in Italia. Studi e ricerche, Trento, Società Filarmonica di Trento, 2008, pp. 9-18

677

Nel già citato volume sul canto operaio torinese si leggeva: «il legame tra canto operaio e melodramma diventa di diverso peso e misura là dove riscontriamo l’ingresso, in un buon numero di canti, di melodie, tracce ed echi dell’opera

del fenomeno bandistico ottocentesco. Non è infatti privo di importanza, come lo dimostra lo stesso Carlini nell’analizzare la Banda Musicale di Milano nel triennio 1862-1865678, sottolineare la variegata composizione sociale dell’associazionismo musicale di questo periodo. Nel 1866 tra i ventisei partecipanti, di cui si conosceva la professione, che animavano l’orchestra della Società Filarmonica roveretana, otto facevano parte delle classi più agiate (possidenti, negozianti, medici e avvocati), otto erano della media borghesia (pittori, scrittori privati, agenti di negozio) ed infine dieci rientravano all’interno del milieu artigianale (falegnami, conciapelli e filatori). Anche per quanto riguarda il coro della Società Filarmonica, le proporzioni rimanevano sostanzialmente invariate, sui ventiquattro individui, cinque erano possidenti, otto appartenevano alla media borghesia ed i rimanenti undici erano artigiani e contadini679. In questo caso, appare evidente, come la banda abbia giocato, per molti individui appartenenti alle classi popolari più basse, anche un ruolo fondamentale nel processo di acculturazione e alfabetizzazione musicale680.

La grande vitalità delle bande all’interno della vita sociale cittadina non si riduceva solamente ad una forma di intrattenimento, ma stabiliva dei forti legami con le numerose vicende politiche che attraversarono la società ottocentesca681. Un rapporto, quello instaurato tra l’associazionismo bandistico e la sfera politica, che affondava le sue radici nella Rivoluzione

lirica, particolarmente di quella verdiana, che percorse gli anni del Risorgimento e da esso trasse più di una volta suggestioni e ispirazione, mentre i sui cori ne infiammarono le speranze e le attese». Emilio Jona, Sergio Liberovici, Franco Castelli, Alberto Lovatto, Le ciminiere non fanno più fumo, cit., p. 25. Questa circolazione tra i differenti ambiti culturali e l’influenza delle opere teatrali nella canzone operaia consente di analizzare in maniera più approfondita l’insorgere nella zona di Torino di una forma di canto, definita «cantata operaia». Numerosi, infatti, furono i gruppi musicali organizzati, alla fine dell’ottocento, nei circoli ricreati e nelle associazioni musicali dilettantistiche. Cfr. anche i seguenti capitoli dell’opera appena citata: «Il melodramma ottocentesco e la cantata operaia», «Circoli ricreativi musicali nell’Ottocento» e «Arie d’opera e canti d’operai».

678

Antonio Carlini, «La banda come strumento di divulgazione musicale per l’Italia dell’ottocento», cit., p. 11

679 Elenco presente in AST, Commissariato di polizia di Rovereto, atti riservati, anno 1866, busta n. 6, documento n. 51 680 Carlini, citando le ricerche di Dino Coltro, metteva in evidenza il contributo esercitato dalle bande

all’alfabetizzazione musicale: «Dino Coltro nel corso di una ricerca tra i braccianti agricoli del veronese conclusa nel 1973, ebbe modo di notare come nessuno degli intervistati riuscisse a scrivere, mentre tutti invece conoscevano la musica. È facile immaginare infatti, contemporaneamente al formarsi delle bande, la nascita di tutta una serie di scuole musicali, istituite con scopo chiaramente utilitaristico, cioè per sostenere l’attività della filarmonica, della banda o del coro (istruire e preparare le nuove leve), o per fornire cantanti e strumentisti all’attività teatrale». Antonio Carlini, «La banda come strumento di divulgazione nell’ottocento», cit., p. 17

681 Alcune di queste associazioni musicali furono delle coperture per delle riunioni politiche; fu il caso ad esempio di

un’associazione filarmonica avviata dal patriota Alberto Mario assieme ad alcuni studenti universitari a Padova nel 1847. Alberto Mario scriveva: «La compagnia alla quale io appartenevo, di polesani e di qualche mantovano avviò un’associazione politica travestita in società filarmonica; e, nel ’47, tolse a pigione un appartamento, in via San Bernardino, nel palazzo Spinetti, dandovi accademie musicali, ove interveniva anche il bel mondo padovano. I romanzi del Guerrazzi, le poesie di Berchet e del Giusti, qualche fascicolo della «Giovane Italia» di Mazzini, giornali di Bologna e di Roma, i «Prolegomeni» del Gioberti alimentavano quei primi fervori. Vivevano in Padova, allora l’Aleardi e il Prati, e, ogni sera, a cena, or in questa ed or in quella bettola – lo «Storione» o «Zangrossi» o il «Gambero» o lo «Storioncino» - ci declamavano i loro carmi patriottici e inediti; e noi bruciavamo d’entusiasmo e aspettavamo il gran giorno». «Alberto Mario» in Onorato Roux, Memorie giovanili autobiografiche di letterati, artisti, scienziati, uomini

politici, patrioti e pubblicisti, Vol. IV – parte prima, Firenze, Bemporad & Figlio Editori, 1908, pp. 253-372, p. 257.

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