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La capacità «di intendere e volere » nel processo penale minorile

Nel documento qui la rivista completa (pagine 128-134)

Alessandro Salvini 1 , Michela Salvetti 2

6. La capacità «di intendere e volere » nel processo penale minorile

Quando un minore compie un reato, l'esigenza di tutela nei suoi confronti, entra per molti aspetti in conflitto con le istanze correzionali della società, volte a mantenere l'ordine sociale e a garantire la sicurezza dei suoi membri. Il nuovo processo penale minorile si caratterizza per il tentativo di trovare strategie nuove per affrontare il fenomeno della devianza minorile. La Giustizia ha infatti capito che la permanenza in carcere del minore favorisce un processo di “devianza secondaria”. La devianza secondaria si definisce quando il comportamento deviante o i ruoli sociali basati su di esso, divengono mezzo di difesa, d'attacco o d'adattamento nei confronti dei problemi manifesti o non manifesti creati dalla reazione della società. Rilevanti divengono ai fini della recidiva comportamentale, non tanto le cause originarie, quanto l’assegnazione a stereotipi di malattia, delinquenza o l'essere inseriti in un processo di disapprovazione, degradazione di sé d'isolamento ed internamento, ma anche nel divenire

PSICOLOGIA GIURIDICA Alessandro Salvini, Michela Salvetti

Inoltre va ricordato che le teorie implicite della personalità, criteri conoscitivi attraverso cui ci formiamo delle impressioni sulle persone e ce ne serviamo per fare inferenze sulle loro caratteristiche di personalità e di comportamento, spesso ci possono condurre ad errori sistematici, quali (Bruner e Tagiuri, 1958):

- la creazione di correlazioni illusorie affermando un rapporto tra eventi biografici negativi e un certo comportamento deviante;

- l'errore fondamentale di attribuzione, quando, di fronte ai comportamenti di un individuo l'osservatore addebita le spiegazioni della condotta alle disposizioni psicologiche dei soggetti che sta osser-vando. Jones e Nisbett hanno constatato che mentre l'attore è portato a spiegare il proprio comportamento in termini di azioni e di ruoli, gli osservatori spiegano lo stesso comportamento, soprattutto se considerato trasgressivo, attribuendone l'espressione alle caratteristiche di personalità dei soggetti osservati (Jones e Nisbett, 1972).

Leyens a questo proposito, osserva che se si accetta che lo psicologo tenda a collocarsi nel ruolo di osservatore, facilmente sarà portato a spiegare il comportamento deviante riferendosi alle caratteristiche di personalità più che ad altri fattori (Leyens, 1985). Se per esempio diciamo di qualcuno che è fedele, affidabile, generoso, oppure intollerante, aggressivo oppositivo, parliamo di descrizioni legate a significati relazionali, spiegabili attraverso il contesto, le norme, i valori simbolici e i significati alla luce dei quali la persona , interpreta la sua esperienza e agisce. L'errore nasce nel pensarle come entità costitutive della persona, proprietà indipendenti dalla trama narrativa in cui si collocano. In realtà le azioni, i gesti delle persone per essere capiti debbono essere configurati attraverso il linguaggio narrativo di chi le compie, attraverso le regole e i significati dello sfondo simbolico e relazionale a cui appartengono.

6. La capacità «di intendere e volere » nel processo penale minorile

Quando un minore compie un reato, l'esigenza di tutela nei suoi confronti, entra per molti aspetti in conflitto con le istanze correzionali della società, volte a mantenere l'ordine sociale e a garantire la sicurezza dei suoi membri. Il nuovo processo penale minorile si caratterizza per il tentativo di trovare strategie nuove per affrontare il fenomeno della devianza minorile. La Giustizia ha infatti capito che la permanenza in carcere del minore favorisce un processo di “devianza secondaria”. La devianza secondaria si definisce quando il comportamento deviante o i ruoli sociali basati su di esso, divengono mezzo di difesa, d'attacco o d'adattamento nei confronti dei problemi manifesti o non manifesti creati dalla reazione della società. Rilevanti divengono ai fini della recidiva comportamentale, non tanto le cause originarie, quanto l’assegnazione a stereotipi di malattia, delinquenza o l'essere inseriti in un processo di disapprovazione, degradazione di sé d'isolamento ed internamento, ma anche nel divenire

Scienze dell’Interazione, n. 2, 2011 oggetto d'assistenza, cure, giustificazione, attenzioni pietistiche, esortazioni morali, compartecipazioni emotive, ecc. (Lemert, 1967).

Uno degli effetti del processo di deviaza secondaria è la ricostruzione del sè e, quindi, dell'identità da parte del deviante, in modo da farli coincidere, più o meno stabilmente, con il comportamento riprovato e stigmatizzato. In altre parole il mondo della Giustizia si è reso conto che il carcere, come misura di rieducazione, finiva per istituire ciò che si proponeva di cambiare e correggere: l'identità deviante. Nel momento in cui il sistema sociale attribuiva al condannato l'identità di deviante, infliggendogli una pena detentiva, con il fine di allontanarlo da quel ruolo e far sì che non commettesse più reati, si otteneva invece che la persona aderisse a tale identità. Si creava una sorta di “effetto Pigmalione” alla rovescia, il cui risultato era il rischio di una recidiva della condotta deviante.

Come ha scritto Bernard Shaw: “La differenza tra una signora e una fioraia non consiste nel modo in cui si comporta, ma nel modo in cui è trattata “. Il procedimento penale minorile tuttavia nel mantenere la categoria della “capacita di intendere e volere” come criterio discriminante dell'imputabilità del minore, induce dei processi di deresponsabilizzazione del reo poco funzionali con la prevenzione del crimine. Con l'introduzione del Codice Rocco (1930) si innalza la soglia di non imputabilità del minore dai 9 ai 14 anni, sostituendo la categoria giuridica del “discernimento” con quella della “capacita di intendere e volere”. Per il nostro ordinamento rientrano nella cosiddetta fascia di rilevanza penale soltanto i giovani la cui età compresa fra i 14 e 18 anni, atteso che ai sensi art. 97 c.p. non si può procedere penalmente nei confronti di un soggetto quando non abbia compiuto i 14 anni. Vi è presunzione di legge assoluta che i minori di 14 anni non siano in grado di comprendere appieno il significato e il disvalore giuridico delle proprie azioni, ovvero non siano capaci di reprimere l'impulso a commetterli “cause della loro immaturità e di una personalità ancora in periodo di sviluppo”. Per i minorenni appartenenti alla fascia di età tra i 14-18 anni, art. 98 c.p., prevede, invece, che la valutazione della capacità di intendere e volere venga fatta per ogni singolo caso, sia pur senza formalità di procedurà.

Vi è un nodo di ambiguità nell'uso della categoria giuridica riferita alla capacità di intendere e volere: per rassicurare la società civile, infatti, la Giustizia deve mostrare di punire il minorenne ma deve farlo in modo da rassicurare anche le istanze che derivano dalla cultura della tutela. Per far questo deve riconoscere il minore sia come “capace” che come “immaturo”. Il minore stesso, quando si confronta con la Giustizia penale, può scoprire che se vuole essere riconosciuto come persona con una sua intenzionalità deve accettare di essere punibile, mentre se vuole evitare la pena deve tentare di dimostrare di essere incapace di intendere e volere (De Leo, 1996).

In altre parole, per fare uscire l'adolescente dal carcere ed evitare di potenziare i processi di devianza secondaria, si fa riferimento ad una nozione, quella di capacità di intendere e volere, che reintroduce un concetto di persona la cui intenzionalità non viene riconosciuta. Si aderisce così ad un modello sanitario che induce, facendola rientrare da

una porta di servizio, una deresponsabilizzazione del minore a cui non viene riconosciuta una capacità di autogestione consapevole del proprio comportamento. Quando interviene un proscioglimento per immaturità si crea una sorta di frattura nell’esperienza del minore imputato, dal momento che si annulla il senso di autoresponsabilità verso una norma, che sposta l'intervento della giustizia dal reato alla personalità. Il senso del nesso soggetto-azione diviene quello di un'estesa incapacità di controllo delle proprie espressioni comportamentali. La conseguenza è che il minore viene privato della capacità di riconoscersi agente, da cui l'impossibilità per il sistema penale di chiedere conto per il reato commesso (Patrizi; 1995). Si crea, inoltre, una contraddizione interna alla Giustizia stessa, data dalla contemporanea necessità di garantire la tutela del minore quando vittima di reato commesso da un suo coetaneo.

Una seconda contraddizione dell'uso della categoria di capacità di intendere e volere è quella derivata dalla discrepanza tra il riconoscimento, nel procedimento civile, della capacità di scelta del minore e del suo diritto a manifestare le proprie opinioni, in riferimento alle decisioni che lo riguardano, e la presunzione di “ incapacità di intendere e volere” al di sotto dei 14 anni, propria del procedimento penale.

La psicologia giuridica, impegnata in questi ultimi anni a tracciare un giusto punto di equilibrio tra capacità, sviluppo e protezione del minore, ha affermato la necessità di riconoscere il diritto e la fondatezza della volontà dei minori (Dell'Antonio, 1990). Questo riconoscimento della capacita del minore di esprimere una volontà fondata, è già presente nella nostra legislazione, la legge 184, per esempio sottolinea l'importanza, di ascoltare il minore che ha: compiuto gli anni 12 per decisioni che riguardano il suo affido eterofamiliare o l'adozione. Questa linea di tendenza è stata ribadita da sentenze di vari Tribunali dei Minori, anche quando la volontà del minore contrastava con quella del genitore. Inoltre, anche nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell'infanzia approvata dall'Assemblea Generale dell'ONU nel 1989 e ratificata dall'Italia con la Legge 176 del 24 maggio 1991, si ribadisce il diritto del minore ad esprimere le proprie opinioni su ogni questione che lo interessa, in particolare, il diritto ad essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria ed amministrativa che lo riguarda (art. 12).

Un ulteriore passo in avanti è stato fatto con la recente Convezione Europea per l'Esercizio dei diritti dei bambini (European Convention on the Exercise of Children's Rights) emessa dal Consiglio d'Europa il 25 gennaio 1996, nella quale si afferma che la Giustizia deve garantire al minore la possibilità reale di partecipare direttamente, da solo o attraverso la mediazione di persone od organismi competenti, a tutte le procedure che lo riguardano davanti all'Autorità giudiziaria. Questa tendenza della legislazione nazionale ed internazionale, parte dall'assunzione, ormai quasi unanimemente riconosciuta, della capacità del minore di esprimere un'opinione fondata in merito alle scelte che lo riguardano, al di là dei condiziona:menti ambientali che può eventualmente subire e delle sue caratteristiche d'identità e di sviluppo.

una porta di servizio, una deresponsabilizzazione del minore a cui non viene riconosciuta una capacità di autogestione consapevole del proprio comportamento. Quando interviene un proscioglimento per immaturità si crea una sorta di frattura nell’esperienza del minore imputato, dal momento che si annulla il senso di autoresponsabilità verso una norma, che sposta l'intervento della giustizia dal reato alla personalità. Il senso del nesso soggetto-azione diviene quello di un'estesa incapacità di controllo delle proprie espressioni comportamentali. La conseguenza è che il minore viene privato della capacità di riconoscersi agente, da cui l'impossibilità per il sistema penale di chiedere conto per il reato commesso (Patrizi; 1995). Si crea, inoltre, una contraddizione interna alla Giustizia stessa, data dalla contemporanea necessità di garantire la tutela del minore quando vittima di reato commesso da un suo coetaneo.

Una seconda contraddizione dell'uso della categoria di capacità di intendere e volere è quella derivata dalla discrepanza tra il riconoscimento, nel procedimento civile, della capacità di scelta del minore e del suo diritto a manifestare le proprie opinioni, in riferimento alle decisioni che lo riguardano, e la presunzione di “ incapacità di intendere e volere” al di sotto dei 14 anni, propria del procedimento penale.

La psicologia giuridica, impegnata in questi ultimi anni a tracciare un giusto punto di equilibrio tra capacità, sviluppo e protezione del minore, ha affermato la necessità di riconoscere il diritto e la fondatezza della volontà dei minori (Dell'Antonio, 1990). Questo riconoscimento della capacita del minore di esprimere una volontà fondata, è già presente nella nostra legislazione, la legge 184, per esempio sottolinea l'importanza, di ascoltare il minore che ha: compiuto gli anni 12 per decisioni che riguardano il suo affido eterofamiliare o l'adozione. Questa linea di tendenza è stata ribadita da sentenze di vari Tribunali dei Minori, anche quando la volontà del minore contrastava con quella del genitore. Inoltre, anche nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell'infanzia approvata dall'Assemblea Generale dell'ONU nel 1989 e ratificata dall'Italia con la Legge 176 del 24 maggio 1991, si ribadisce il diritto del minore ad esprimere le proprie opinioni su ogni questione che lo interessa, in particolare, il diritto ad essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria ed amministrativa che lo riguarda (art. 12).

Un ulteriore passo in avanti è stato fatto con la recente Convezione Europea per l'Esercizio dei diritti dei bambini (European Convention on the Exercise of Children's Rights) emessa dal Consiglio d'Europa il 25 gennaio 1996, nella quale si afferma che la Giustizia deve garantire al minore la possibilità reale di partecipare direttamente, da solo o attraverso la mediazione di persone od organismi competenti, a tutte le procedure che lo riguardano davanti all'Autorità giudiziaria. Questa tendenza della legislazione nazionale ed internazionale, parte dall'assunzione, ormai quasi unanimemente riconosciuta, della capacità del minore di esprimere un'opinione fondata in merito alle scelte che lo riguardano, al di là dei condiziona:menti ambientali che può eventualmente subire e delle sue caratteristiche d'identità e di sviluppo.

La capacità di intendere e volere trova inoltre due accezioni diverse alla

luce delle conoscenze giuridiche e di quelle psicologiche Quando il quesito in merito ad essa è posto ad uno psicologo, per rispondere alla domanda “se l'imputato sia o no capace che intendere e volere”, spesso si ricorre ad un modello eziologico che configura la normalità come salute. Il minore allora può essere assimilato ad un malato e come tale sottoposto a procedimenti e pratiche diagnostiche di tipo sanitario. Se la risposta viene affidata al giudizio del magistrato essa verrà data in funzione delle sue teorie implicite, del criterio di normalità a cui farà riferimento, delle caratteristiche del reato e di quelle che attribuirà al minore. De Leo cita una ricerca del Consiglio Superiore della Magistratura, in cui si evidenzia che in aree geografiche diverse vi erano forti differenze nelle attribuzioni di imputabilità ai minorenni. Le differenze più evidenti erano quelle tra Torino e Napoli. A Napoli dove l'allarme sociale per gli alti tassi di criminalità minorile era molto alto, i giudici tendevano ad usare una strategia più punitiva, addebitando la capacità di intendere e volere alla maggior parte dei minori. A Torino dove il tasso di criminalità era meno alto, i magistrati tendevano invece ad attribuire l'incapacità, per favorire la de-istituzionalizzazione del minore e il suo reinserimento sociale (De Leo, 1996).

Il giudice esprime un giudizio psicologico quando deve valutare se il minore al momento del compimento del reato abbia pienamente presente il valore antigiuridico della sua condotta. La capacita giuridica, di intendere e volere, è riferita alla consapevolezza addebitabile al minore del contrasto tra il suo comportamento e i valori della società in cui vive, ragione per cui la sua condotta può essere rimproverata e si può pretendere da lui un comportamento diverso.

In generale, da un punto di vista giuridico, si definisce capacità di intendere l'attitudine del soggetto ad avere consapevolezza del disvalore sociale della sua condotta, dell'antigiuridicità di un determinato comportamento integrante una fattispecie di reato, da cui l’ordinamento giuridico fa derivare una sanzione penale. Per capacità di volere si intende invece la possibilità del soggetto di determinare liberamente la propria volizione in relazione a quel determinato comportamento. Non esistono schemi per tale valutazione potendo il giudice decidere senza ricorre alla consulenza di un professionista. L' indagine, tuttavia, se affrontata da un punto di vista sociologico, appare molto pita delicata, vanno infatti prese in considerazione variabili la cui valenza, ai fini del giudizio, è il frutto dell'impostazione ideologica di chi è chiamato ad affrontare la valutazione stessa.

In caso di partecipazione ad associazione criminale, per esempio, non si può negare in via di principio che il minore, in quanto tale, sia in grado di rendersi conto dei connotati, delle modalità operative e dei fini che l'associazione persegue. In larghe fasce della società meridionale la “mafiosità” è parte integrante della cultura della popolazione più. disagiata, quasi l'essenza stessa. In tale ipotesi è molto difficile ritenere che il minore non sia consapevole dell'antigiuridicità del suo operato. Va accettata la considerazione che la sua messa a disposizione dell'organizzazione criminale per omicidi o altre azioni criminali, lo gratifica, per l'approvazione sociale che suscita, per i vantaggi economici e il riconoscimento di un

potere sociale che gli offre (Randazzo, 1997). Tuttavia il condurlo, imputato di reati, in carcere, se pur con la capacità di intendere e volere, non consente la possibilità di determinare un cambiamento nel suo sisterna d'identità, ovvero nell'immagine di sè.

Un altro limite, quindi, dell'utilizzo della capacità di intendete e di volere, oltre a quello dalla deresponsabilizzazione del deviante, è quello di non riuscire a tener conto degli aspetti interattivi e contestuali dell'azione deviante, finendo così per utilizzare il carcere come l’unica misura d'intervento nei casi di condotta deviante recidiva. I ragazzi, collocati all'interno degli Istituti, vengono definiti “lo zoccolo duro” della delinquenza minorile, plurirecidivi imputati di reati gravi contro la persona, nomadi che propongono una cultura della violazione della norma difficile da contrastare, gli stranieri privi di quelle risorse familiari e sociali che rappresentano una garanzia per una decisione di percorso non detentivo. Le statistiche ufficiali della giustizia minorile inoltre mostrano al centro-nord una presenza massiccia di stranieri che, nonostante imputazioni meno gravi rispetto agli italiani, sono prevalentemente detenuti per custodia cautelare, non riuscendo ad accedere alle possibilità extra-murarie: previste dalla legge.

Sembra quindi importante, nella riflessione sul nuovo modello d'intervento penale minorile, una rivalutazione critica dell’utilizzo della categoria della “capacità di intendere e volere”, mirata ad evidenziarne limiti e conseguenze alla luce degli obiettivi di responsabilizzazione del minore che si vogliono perseguire. Per questo fine sembrano più efficaci i più recenti modelli interazionisti, perchè più adeguati e pertinenti alla complessità del problema della devianza minorile e alla sua prevenzione.

Riferimenti bibliografici

Arcuri L.,(1985) Conoscenza sociale e processi psicologici, Il Mulino, Bologna. Beck er H.S.,(1963) Outsider, The Free Press, New York .

Bruner, Tagiuri, The perception of people, in LINDZEY G., Handbook o, Social Psychology, Mass, Cambridge, 1958.

Casalinuovo A., Orientamenti e prospettive del nuovo processo a carico di imputati minorenni, in Giustizia penale, III, 1990.

De Leo G.,(1981) L'interazione deviante, Giuffrè, Milano.

De Leo G.,(1987) Responsabilità, definizioni e applicazioni nel cameo della giustizia minorile, in PONTI G.L. (a cura di), Giovani, responsabilità e giustizia, Giuffrè, Milano.

De Leo G., Categorie psico-sociali e interazioni operative nel nuovo processo penale minorile, in PALOMBA F., II sistema del nuovo processo penale minorile, Giuffrè, Milano, 1991.

De Leo G.,((1996) Psicologia della responsabilità, Universitò Laterza, Bari, De Leo G., PATRIZI P., (1999) Trattare con adolescenti devianti, Carocci, Roma. Dell’Antonio A.,(1990) Ascoltare il minore, Giuffrè, Milano.

Di Nuovo S., Grasso G.,(1999 Diritto e procedure penale minorile, Giuffrè, Milano. Fiora E., PedrabissiI L., Salvini A.,(1088) Pluralismo teorico e pragmatismo conoscitivo in psicologia della personalità, Giuffrè, Milano.

potere sociale che gli offre (Randazzo, 1997). Tuttavia il condurlo, imputato di reati, in carcere, se pur con la capacità di intendere e volere, non consente la possibilità di determinare un cambiamento nel suo sisterna d'identità, ovvero nell'immagine di sè.

Un altro limite, quindi, dell'utilizzo della capacità di intendete e di volere, oltre a quello dalla deresponsabilizzazione del deviante, è quello di non riuscire a tener conto degli aspetti interattivi e contestuali dell'azione deviante, finendo così per utilizzare il carcere come l’unica misura d'intervento nei casi di condotta deviante recidiva. I ragazzi, collocati all'interno degli Istituti, vengono definiti “lo zoccolo duro” della delinquenza minorile, plurirecidivi imputati di reati gravi contro la persona, nomadi che propongono una cultura della violazione della norma difficile da contrastare, gli stranieri privi di quelle risorse familiari e sociali che rappresentano una garanzia per una decisione di percorso non detentivo. Le statistiche ufficiali della giustizia

Nel documento qui la rivista completa (pagine 128-134)