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Capire la “città infinta”

3. L'intreccio tra smart city e smart land

3.2. Capire la “città infinta”

Le profonde trasformazioni che hanno interessato la dimensione del territorio nel corso degli ultimi trent'anni si relazionano con la crisi del modello fordista come motore di sviluppo e come racconto collettivo giocata sulla dialettica capitale-lavoro. Bernardo Secchi definisce il percorso di studi dei territori un <<continuare a cercare per continuare a capire>>. L'approccio di Secchi tenta di interpretare un presente per sua natura sfuggente, che possa essere individuato nel tentativo di intervenire sulle dinamiche che producono spaesamento identitario, disintegrazione comunitaria e polarizzazione sociale. Da questa analisi si coglie che lo spazio viene concepito come un principio di governo, un dispositivo di potere e di disciplina sociale, per evocare il lessico di un filosofo come Michel Foucault, che deve essere prescrittivamente reso “poroso”, permeabile alla contaminazione, decostruibile e ricostruibile all'interno di

gerarchie che, sotto l'apparenza del continuo scomporsi e ricomporsi, nascondono tendenze di lungo periodo. Tendenze che, per restare nel nostro paese, hanno nel territorio il principale teatro d'azione in cui va in scena la drammatica dialettica tra flussi e luoghi. Su di essi si è venuta ad identificare il fenomeno della “città infinita” (A.Bonomi, 2004), che non si identifica con la produzione di “sprawl” urbano americano con il suo eterno sogno suburbano. Non è l'espansione “green field” di chi dispone di grandi spazi sorretta dall'illusione inclusiva della finanziarizzazione spinta della villetta per tutti; è piuttosto l'espansione delle comunità locali percorse dal demone della competizione nella fase della globalizzazione espansiva, venuta poi drammaticamente ad esaurimento a fine 2008, quando si credeva che l'aggancio ai flussi bastasse di per sé a produrre benessere sufficiente per tutti, dilapidando con ciò quel prezioso patrimonio che stava alla base del nostro modello di capitalismo territoriale e che i sociologi chiamano “capitale sociale”. Legame sociale che aveva ristretto pericolosamente i suoi spazi elettivi di riproduzione nelle 3C: casa, campanile, capannone. In spazi che diventano sempre più privati e al contempo sempre più vuoti, che reggevano ancora come simulacri e come strumenti elementari, ma potenti, di perimetrazione e poi di separazione dall'altro da sé. È nel crogiuolo dell'accelerazione indotta dai flussi che impattano su luoghi “impreparati”

che ha la sua genesi quella che andrà sotto il nome di “questione settentrionale”.

Una logica, quella dei flussi, che ha profondamente riconfigurato la composizione sociale dei nostri territori senza che essi avessero strumenti per tentare di governare le ricadute sociali, sia nella dimensione redistributiva (quanto mai in crisi) sull'asse diritti/doveri, sia nella dimensione distributiva sull'asse vincoli/opportunità. Flussi che hanno riconfigurato al ribasso il rapporto tra la città e le sue elité economiche,

essendo quest'ultime sempre più pura espressione di flussi (finanza, multinazionali, saperi professionali, ecc.), geneticamente poco propense a sviluppare un pensiero generale sulla città, tanto meno ad assumere un ruolo di leadership sociale. Ma i flussi sono anche le migrazioni, con tutto ciò che questo comporta, anche limitandoci all'impatto dei ''codici etnici'' nell'organizzazione sociale. Anche qui la separazione rischia di essere senza

alternative. L'altra faccia delle “gated community” dei ricchi (mix di rentier del Novecento e di borghesia dei flussi) sono i ghetti verticali

dei condomini mimetizzati nella trama urbana, in cui l'informalità dell'organizzazione economica trova poche sponde per emergere alla luce del diritto ed è più spesso attirata nel gorgo dell'illegalità trasformandosi in territorio perduti della Repubblica.

La politica urbana e sociale si trova in grandi difficoltà, a causa del fatto che la logica di analisi e di lavoro utilizzata si basi sul concetto organizzativo della città che poggia sul rapporto novecentesco di centro- periferia. La periferia, così come il centro, non esiste più come spazio omogeneo: sono entrambi frammentati, compenetrati ma separati. È questa l'anima della “città fragile” in quanto povera di risorse connettive o povera perché fatta compresenza, senza condivisione (A. Lanzani, 2011). Da questo punto di partenza torna la questione del legame sociale, del “fare comunità nella metropoli” (cosa difficile da realizzare senza un forte “commitment” politico). Dobbiamo puntare a superare le categorie del Novecento che assegnano alla politica compiti regolativi pensati per un corpo sociale omogeneo, o quanto meno riconoscibile nelle sue parti e nelle sue rappresentanze. Per ricomporre uno specchio nel quale gli abitanti delle città possono riconoscersi occorre rimettere assieme i tanti pezzettini che la compongono con una paziente opera di ricucitura che non può che essere

nel contempo altrettante soglie di dialogo che vanno alimentate dalle energie sociali e politiche che pure agiscono, più o meno visibilmente. Pensare che sia la politica nella sua dimensione del potere verticale a risolvere la complessa questione è fatale presunzione o follia autodistruttiva. In questo senso la crisi che stiamo vivendo ci costringe a rivedere il nostro modo di guardare il mondo e a ripartire dal pre-politico.

L'analisi che si sta tracciando punta la sua attenzione al

general intelellect (Karl Marx,1857-58, trad. it. La Nuova Italia, 1968-70),

attraverso il quale si potrà identificare la comunità che viene, il ''non ancora'', prendendo in considerazione pezzi di composizione sociale della città metropolitana e diffusa. Le novità in questo senso sono almeno tre: la prima è data dal radicarsi del processo migratorio. Non c'è solo schiavismo come a Prato, c'è anche un segmento di soggetti, privi di cittadinanza, che fanno impresa, innovazione, cambiamento culturale. Lavorano nei servizi nel commercio, nella logistica minuta. Poi esistono le eccedenze di saperi terziari. Sono le nuove figure del lavoro autonomo di seconda generazione che uniscono l'artigianato alla tecnologia (makers) e si associano nei

coworking, puntano sull'auto-impresa, creano comunità di mutuo-aiuto, di

cura e di relazione. È dall'intreccio di queste soggettività che bisogna ripartire per disegnare un nuovo equilibrio nei territori, è da questa composizione sociale che nascerà forse una pratica della “smart city” come “modernità sostenibile”, laddove sostenibilità indica cura nel ripristino delle premesse che reggono i processi moltiplicativi di conoscenza e valore: ambiente, ma anche cultura, paesaggio, assetti urbani, commons cognitivi, estetici, relazionali. Risorse che hanno costituito la premessa anche del nostro modello di capitalismo diffuso, in una logica sovente dissipativa, che oggi possono diventare driver della “smart land”. Nel rapido diffondersi e nel crescente successo della nozione di smart nell'agenda politica

comunitaria e delle città, vi è la promessa di una nuova stagione di crescita (armonica, equilibrata, sostenibile), in grado di trainare le economie territoriali oltre le secche della crisi.