• Non ci sono risultati.

II. 1 I misteri della Calabria e altri scritti ‘civili’

Gli anni della ricostruzione democratica segnano, in Italia, il ritorno della questione meridionale al centro del dibattito politico e culturale152.

152 I problemi del Mezzogiorno postbellico furono il principale argomento di

discussione del Convegno di tutte le forze antifasciste del Partito d’Azione tenutosi a Bari nel gennaio del 1944. Anche il Pci colloca il tema dell’arretratezza del Mezzogiorno fra le grandi questioni nazionali attraverso la pubblicazione delle opere di Antonio Gramsci, La questione meridionale, Torino, Einaudi, 1945, e la rivista «Cronache meridionali» fondata nel 1954.

Sul finire degli anni Quaranta e lungo la prima metà del decennio successivo, le grandi città industriali del nord furono interessate dagli scioperi e dalle occupazioni delle fabbriche, mentre le aree latifondistiche di Puglia, Calabria e Sicilia furono teatro del movimento contadino. Benché tali forme di protesta, consistenti nell’occupazione simbolica o permanente delle terre incolte, si fossero verificate più volte nella storia del Mezzogiorno, l’elemento di novità rispetto al passato da individuare nelle rivendicazioni di questo periodo storico, è l’acquisizione di coscienza politica da parte delle masse contadine che, sotto l’egida delle organizzazioni sindacali, lottarono per l’eliminazione definitiva del latifondo, indicante, in queste aree della nazione, non soltanto «la semplice connotazione fisica e geografica delle grandi proprietà», ma un «particolare sistema di rapporti agrari» che aveva favorito la conservazione nel tempo di una struttura sociale di tipo feudale. Cfr. P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad

oggi. Società e politica 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989, p. 166. Si veda anche: P.

Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale, Roma, Donzelli, 2005, pp. 133-180; sul movimento contadino in Calabria, si veda: G. Cingari, Storia della Calabria

dall’Unità ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 1982.

Anche in ambito culturale un’attenzione speciale è stata rivolta al meridione: nel 1945, il Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi, nato dell’esperienza del confino in Basilicata subito dall’autore tra il 1935 ed il 1936, ha avuto una funzione rivelatrice della civiltà contadina e ha inaugurato una nuova stagione della letteratura meridionalistica in cui l’impianto naturalistico della narrazione si lega alla sensibilità di tipo sociologico verso gli aspetti irrazionali e le credenze magiche sopravvissute presso le popolazioni subalterne, aprendo in tal modo la strada alle scienze sociali fino a quel momento ripudiate dalla culturale ufficiale italiana. L’opera di Carlo Levi convogliò verso il sud d’Italia l’interesse scientifico di uomini di cultura d’estrazione eterogenea. Nel corso degli anni Cinquanta gli studiosi statunitensi dell’Applied Sociology scelsero le regioni italiane meridionali per le loro ricerche sul campo. Cfr. F. Vitelli,

L’osservazione partecipata. Scritti tra letteratura e antropologia, Salerno, Edisud,

1989. Le polemiche sorte attorno al Cristo di Carlo Levi conferirono a quest’opera grande rilievo anche nel dibattito teorico sul realismo: la sensibilità verso gli aspetti magici e primitivi dell’universo contadino, valutati dall’autore non come fenomeni di arretratezza, bensì come un campo di valori alternativi da utilizzare per una nuova nozione di civiltà, erano considerati un’aberrazione dal terreno del realismo e una concessione a quelle discipline (etnologia, psicanalisi, linguistica, sociologia) verso le quali l’idealismo crociano e la cultura marxista avevano esercitato una netta chiusura.

60

Dal punto di visto letterario il periodo in questione è stato caratterizzato dalla stagione neorealista153 e dal dibattito teorico sul nesso tra realismo e rappresentazione artistico-letteraria154. Le nuove istanze realiste, derivanti da una condizione umana inedita dopo i recenti traumi storici, avevano evidenziato da un lato l’inapplicabilità delle poetiche naturaliste sulla scorta dei modelli ottocenteschi a una realtà avvertita come profondamente disarmonica, dall’altro avevano confermato l’urgenza di una nuova accezione dell’equazione arte-realismo con implicazioni sul piano morale e politico, di una letteratura dell’impegno, sul modello di intellettuale organico teorizzato nella riflessione gramsciana o sull’idea di engagement sartriano. La scrittura neorealista, nutrendosi di un confronto dialettico con la realtà, e in reazione al carattere artificioso e retorico del nazionalismo fascista, si è rivolta alla rappresentazione della «realtà regionale concreta», l’unica considerata in grado di poter assurgere a «simbolo dell’altra più ampia, nazionale»155

.

Gli anni Cinquanta sono stati un decennio d’intensa attività letteraria per Mario La Cava, sebbene lo scrittore sia rimasto sostanzialmente ai margini della temperie neorealistica e del dibattito teorico sorto attorno ad essa. Per ricostruire questa fase del suo percorso intellettuale, il carteggio156 intercorso fra il nostro scrittore e Leonardo Sciascia (di cui ci occuperemo più diffusamente nel prossimo paragrafo), si rivela un punto di riferimento imprescindibile nella difficile operazione di inquadramento

Cfr. E. Galli della Loggia, Ideologie, classi e costume, in L’Italia contemporanea 1945-

1975, a cura di V. Castronovo, Torino, Einaudi, 1976, pp. 379-434.

La diffusione delle scienze sociali suscitò in Italia grande interesse popolare come dimostra il successo dei volumi della «Collana di studi religiosi, etnologici e psicologici» della casa editrice Einaudi, che ebbe come programmatori Cesare Pavese e Ernesto De Martino. Cfr. C. Pavese, E. De Martino, La collana viola. Lettere 1945-

1950, a cura di P. Angelini, Torino, Bollati Boringhieri, 1991. Sul rapporto tra scienze

sociali e questione meridionale, si veda: C. Pasquinelli, Antropologia culturale e

questione meridionale. Ernesto De Martino e il dibattito sul mondo popolare subalterno negli anni 1948-1955, Firenze, La Nuova Italia, 1977.

153 Sul neorealismo ed in particolare sulle divergenti ipotesi di datazione cronologica di

tale stagione letteraria, si veda: M. Corti, Il viaggio testuale. Le ideologie e le strutture

semiotiche, Torino, Einaudi, 1978, pp. 25-110.

154 Per una ricostruzione delle polemiche letterarie del dopoguerra si veda: G.

Manacorda, Storia della letteratura italiana contemporanea (1940-1965), Roma, Editori Riuniti, 1974; sul dibattito estetico-filosofico sul realismo, si veda F. Bertoni,

Realismo e letteratura, Torino, Einaudi, 2007.

155

M. Corti, Il viaggio testuale cit., p. 65.

156

M. La Cava, L. Sciascia, Lettere dal centro del mondo (1951-1988), a cura di M. Curcio e L. Tassoni, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012.

61

della figura dello scrittore di Bovalino, così autonoma e appartata, all’interno della scena culturale italiana del secondo Novecento. Risale a questo decennio la pubblicazione di numerosi suoi testi: al 1953 risale la prima ristampa einaudiana dei Caratteri che valse allo scrittore il premio «Re degli Amici»; nel 1958 La Cava lega nuovamente il suo nome alla casa editrice Einaudi con la pubblicazione delle Memorie del vecchio maresciallo e dei Colloqui con Antonuzza (quest’ultimi già editi nel 1954 nei Quaderni di «Galleria») nella collana dei «Gettoni», mentre l’anno successivo lo scrittore tenta di superare la dimensione del frammento e del racconto breve con il romanzo Mimì Cafiero.

Ma prima ancora di dedicarsi alla revisione dei Caratteri in vista della loro ristampa aggiornata e ampliata, l’autore pubblica, nel 1952, I misteri della Calabria, una raccolta di articoli ‘civili’ precedentemente apparsi su rivista o su quotidiani, con i quali l’autore prese parte al dibattito politico-culturale d’orientamento liberale dell’immediato dopoguerra. Si tratta di quattordici articoli di ispirazione pamphlettistica di vario argomento redatti tra il 1945 ed il 1949 e assimilabili al filone della letteratura regionalistica impegnata, nei quali l’autore ripropone alcune riflessioni sulla Calabria del secondo dopoguerra157. Alle differenti epoche redazionali dei singoli ‘pezzi’ si deve la compresenza di articoli nei quali è possibile percepire un’eco del tema del ‘risveglio’ popolare della coeva poesia di Rocco Scotellaro, e di altri in cui la riflessione disincantata dell’autore sui mali congeniti della sua terra e dell’intera nazione concede poco spazio a una visione entusiastica del futuro. Ponendo l’accento sulla «natura di documento»158

di ciascun articolo di questa raccolta, Attilio Sartori riconosce all’autore il merito d’aver saputo prontamente rilevare le problematiche sociali della Calabria all’indomani della guerra e di averle indicate con spirito costruttivo all’interesse della comunità nazionale.

157 Cfr. F. Fortunato, Mario La Cava e i «Misteri della Calabria». Vito Teti e Pasquino

Crupi ricordano lo scrittore, in «Il Quotidiano», 31 gennaio 2004, p. 21.

158

A. Sartori, I misteri della Calabria meridionale, in Mario La Cava nella critica

62

Nella prefazione ai Misteri della Calabria La Cava irride il proprio tentativo di «improvvisarsi sociologo»159, ma questa dichiarazione, benché ironica, acquista valore se considerata alla luce dei contatti che in questi anni l’autore intrattiene con gli ambienti della casa editrice Laterza (in particolare con Vittore e Tommaso Fiore) e dei tentativi da lui compiuti per collocare una versione aggiornata di questa raccolta nella collana dei «Libri del tempo», accanto a testi d’analoga impostazione come Contadini del Sud di Scotellaro e Un popolo di formiche di Tommaso Fiore. Nella recensione160 di quest’ultimo al libretto di La Cava è possibile rinvenire le motivazioni per le quali esso non confluì tra i titoli di quella celebre collana. Il recensore ne apprezza la sensibilità analitica, l’insieme di «cose sottilmente vedute», indicando però nel «sano» benché «illusorio ottimismo» e nell’impostazione liberale degli articoli, «con venature di radicalismo romantico, alla Cattaneo»161 il discrimine principale tra il genere di analisi della questione meridionale proposta da La Cava e i toni di accesa denuncia politica che caratterizzavano le inchieste ospitate nella collana ideata da Vito Laterza. Il brano della raccolta di più evidente impostazione sociologica è quello finale; in esso, l’autore si cimenta in uno «sguardo d’insieme» sugli aspetti naturali, economici e culturali della Calabria, benché consapevole delle difficoltà insite nell’«astrarre dai segni particolari il carattere generale di un popolo» e del rischio di «cadere in giudizi arbitrari, che poco o nessun riscontro hanno nella realtà»162. Quanto alla definizione delle determinanti psicologiche collettive della gente calabrese, le sue osservazioni si riallacciano a una tradizione di credenze culturali e antropologiche che attribuivano ai calabresi una disposizione alla riflessione speculativa e alle attività di natura teoretica, «una natura contemplativa e non pratica»163, da cui trae origine una «percezione filosofica della vita», sulla quale «sembra essersi depositata, attraverso i secoli, quella «sofìa», [...] quella saggezza (una delle virtù dianoetiche

159

M. La Cava, Prefazione, in Id., I misteri della Calabria cit., p. 9.

160 T. Fiore, Regionalismo letterario. I misteri della Calabria, in Mario La Cava nella

critica letteraria contemporanea cit., pp. 58-61.

161

Ivi, pp. 59-60.

162

M. La Cava, I misteri della Calabria cit., p. 76.

63

secondo la classificazione aristotelica) che regola la stessa vita pratica»164. Tra gli altri elementi che concorrono a definire la fisionomia psicologica calabrese l’autore indica inoltre l’attaccamento alla famiglia, organizzata secondo una rigorosa struttura gerarchica, da cui lo scrittore fa derivare anche il rispetto per lo Stato, considerato, sulla base di una «concezione aristocratica della politica», una «famiglia più grande»165; il senso dell’onore e dell’amicizia, l’attaccamento ai beni materiali e, soprattutto, la sopravvivenza di un sistema di credenze religiose stratificato, frutto dell’incontro della religione cristiana con i culti pagani, dal quale deriva la concezione tragica e fatalistica dell’esistenza cui si è

164

G. Taffon,Un narratore calabrese e la classicità cit., p. 401. Le osservazioni lacaviane presentano molteplici punti di tangenza con quelle esposte sull’argomento da Corrado Alvaro nel suo contributo al numero monografico del «Ponte» dedicato alla Calabria. Nella sua analisi Alvaro suddivide il territorio calabrese in due macroaree sulla base delle diversità linguistiche esistenti fra gli idiomi regionali: «La Calabria, come non presenta un’unità linguistica, non rappresenta neppure un’unità etnica. [...] si può attribuire ai due tipi del calabrese un’area; quella che va da Squillace alla punta meridionale della penisola, e quella che da Squillace va ai confini settentrionali della regione. Questa è la Calabria italica, che arrivò prima a contatto coi Romani, il cui dialetto è penetrato delle parole e forme latine più antiche, il cui tipo fisico e la disposizione dell’ingegno sono italici; una familiarità e semplicità e sobrietà, una acutezza e penetrazione a servizio d’uno spirito di ricerca, un senso della natura e della vita senza idoleggiamenti giacché appaiono, in sé e nella loro umiltà, poetiche. Per la lontananza dai grandi centri, per la solitudine secolare, si può dire che coteste qualità romane d’ingegno siano conservate meglio che altrove, tra i boschi e i monti di quella parte della Calabria. Vi è conservato un tipo fisico romano. [...] L’altra parte della Calabria, da Squillace in giù, entrò tardi a contatto con la romanità, verso l’undicesimo secolo, quando essa romanità era soltanto un ricordo. La struttura dialettale lo attesta, le parole latine introdotte sono d’un latino avviato a diventare il volgare, e alcune pregnanti che sono già la lingua originaria italiana. È lo stesso fenomeno accaduto in Sicilia, dove questa tarda latinità suscitò forme linguistiche che si riudranno poi in Toscana. Per quello che si riferisce al suo vocabolo moderno, questa parte della Calabria, un vocabolario che ha molto di comune con la primitiva lingua toscana. Il linguaggio antico, delle parole pertinenti all’agricoltura, agli aspetti della terra, agli animali, è in prevalenza di parole greche, con qualche diecina di modi della più alta primitività, e a quanto dicono gli eruditi, osche. Così la popolazione ha tutt’altri caratteri dalla Calabria romana, caratteri greci, come la mobilità, una certa tendenza al vivere delicato anche se la vita è povera; ospitali sebbene diffidenti degli stranieri, molto stimanti di sé, inclini alle lettere sebbene a loro modo e con un culto estremo e pedissequo del passato, sensuali, pronti d’ingegno e adattabili. E i Cosentini, i vecchi Bruzi, patriarcali, modesti, sofferenti, poco tementi del pericolo, vendicativi, acuti di mente, curiosi degli altri e della cultura ragionanti. Caratteri, questi, da interpretare naturalmente con grande modestia, piuttosto come tendenze dell’animo e di una società che a mala pena li ha conservati attraverso tante gravi prove, e che non sono mai arrivati a contatto con una piena civiltà che li facesse brillare, né con una prosperità di vita che li rendesse fecondi». Cfr. C. Alvaro, L’animo del calabrese, in «Il Ponte», 9-10, 1950, Firenze, La Nuova Italia, pp. 969-970. Reprint a cura di G. Manfredi e P. Sergi, Cosenza, Editoriale Bios, 1994. La Cava è presente sul medesimo numero della rivista con una novella confluita nella sezione Poeti e narratori: M. La Cava, Credevano si

fosse addormentato, in «Il Ponte» cit., pp. 1280-1283, e con un altro articolo di carattere

autobiografico nella rubrica La Calabria vista da: Id., La Calabria vista da: un

calabrese che c’è rimasto, in «Il Ponte» cit., pp. 1300-1308.

64

fatto riferimento come ad uno degli elementi basilari della poetica lacaviana.

I due brani più datati166 della raccolta, risalenti all’immediato dopoguerra, sono quelli in cui l’autore tenta una definizione dei sentimenti collettivi dei calabresi in occasione della guerra civile e della lotta di liberazione, testimoniando le loro contraddittorie reazioni dinnanzi all’arrivo degli anglo-americani e al nazifascismo in fuga verso nord. E davvero singolare, in quelle drammatiche circostanze, fu la complessità di sentimenti contrastanti che l’autore va delineando: innanzitutto, l’avversità nei confronti del regime (nonostante il fascismo avesse trovato anche in questa regione numerosi sostenitori) che aveva ridotto gli italiani alla fame; il rifiuto di impugnare le armi contro l’America e «l’invincibile simpatia» nei confronti di questo «stato amico», considerato dai calabresi la terra dell’emigrazione, del lavoro e della ricchezza, al punto che «qualunque propaganda fascista cadeva di fronte alla conoscenza che il popolo calabrese [...] aveva della potenza americana»167. E inoltre il sentimento di estraneità alla lotta contro i tedeschi da parte dei meridionali, dovuto al fatto che questi ultimi, «al contrario di quanto avvenuto per le popolazioni italiane del Nord»168, non erano spinti all’azione contro l’esercito nazista dal ricordo di dominazioni subite. Ricostruendo un quadro storico in cui i calabresi appaiono «lontani dalla situazione che si venne creando in Italia all’indomani dell’otto settembre» e quindi dalle «ragioni dell’insurrezione partigiana»169

, La Cava finisce per descrivere anche lo smarrimento collettivo di tutta la nazione nelle fasi finali del secondo conflitto mondiale.

Tre dei quattordici articoli della raccolta sono dedicati al tema del lavoro. L’autore ricorre al metodo dell’inchiesta, riportando, nella forma del discorso diretto, le opinioni di contadini, artigiani e operai intervistati nel corso di un viaggio attraverso vari paesi della Calabria. Lo scrittore

166 Id., I sentimenti popolari durante la guerra, in Id., I misteri della Calabria cit., p. 49.

L’altro articolo cui si fa riferimento è Agli italiani del Nord nel 1945, in Id., I misteri

della Calabria cit., pp. 52-54.

167 M. La Cava, I sentimenti popolari durante la guerra, in Id., I misteri della Calabria

cit., p. 48.

168

Ivi, p. 49.

65

sottolinea la mancanza di coscienza di classe dei lavoratori calabresi, l’impossibilità da parte di questi ultimi di sottrarsi alle condizioni inique imposte dai proprietari terrieri e dai datori di lavoro, l’insufficienza delle attività sindacali, la precarietà del lavoro femminile: all’indomani del secondo conflitto mondiale, la Calabria restava una regione cristallizzata in una struttura economico-sociale di tipo feudale, avulsa dalle correnti del pensiero politico moderno e sostanzialmente priva di una moderna coscienza democratica, come l’esito delle preferenze calabresi e meridionali in occasione del referendum sulla forma istituzionale dello stato (commentato da La Cava nell’articolo Calabria conservatrice170) aveva dimostrato.

Nel ritratto della Calabria postbellica proposto da Mario La Cava non sarebbe potuto mancare un riferimento alla borghesia di provincia, alla quale lo scrittore aveva già dato grande rilievo nei Caratteri. Egli colloca il brano ad essa dedicato, i Canneggiatori171, al centro della raccolta, evidenziando, attraverso tale posizione di medietà, che proprio nell’inoperosità di questa classe sociale nella quale si concentrava la maggior parte di professionisti, fosse da rintracciare l’ostacolo più grande al progresso civile della sua terra. La Cava riconosce che le difficoltà oggettive presenti in una delle più arretrate province italiane abbiano impedito alla classe intellettuale locale di sfruttare le proprie conoscenze per la mancanza di opportunità, e abbiano altresì contribuito a determinare una paradossale condizione sociale per la quale il numero dei laureati è molto elevato senza che la vita culturale della regione ne abbia ricavato alcun vantaggio effettivo. Ma, nello stesso tempo, egli non dimentica di denunciare anche una forma di colpevole inoperosità da parte della borghesia. Nel titolo di questo articolo egli allude al fatto che il discredito del popolo nei riguardi dei funzionari statali adibiti alla misurazione del terreno (un’operazione ripetutasi «troppo di frequente dopo l’unificazione d’Italia, a scopo crudamente fiscale»172

), aveva portato, in Calabria, all’affermazione di un uso improprio di quel

170 Cfr. M. La Cava, Calabria conservatrice, in Id., I misteri della Calabria cit., pp. 24-

28.

171

Id., I canneggiatori, in Id., I misteri della Calabria cit., pp. 38-40.

66

sostantivo, in un’accezione fortemente ironica e dispregiativa, per indicare le vane consuetudini di vita degli sfaccendati esponenti del ceto medio che, non avendo un’occupazione stabile nel campo degli impieghi e delle professioni e ripudiando il lavoro manuale, consumano il loro tempo a passeggiare, quasi a voler misurare a lunghi passi le strade del paese, o «si soffermano nelle piazze, appoggiandosi ai muri delle case o indugiano nei caffè e nei circoli»173. La Cava si riferisce, insomma, a quella che Corrado Alvaro nel coevo pamphlet intitolato L’Italia rinunzia? aveva definito una tendenza meridionale al «funzionarismo», ovvero la «fuga dalla provincia verso gl’impieghi e il parassitismo»174

nei confronti dello Stato e del bene pubblico. La sopravvivenza di una forma di culto posticcio dell’esteriorità e l’attaccamento ad antichi privilegi di rango da parte degli esponenti del ceto medio e dei notabili decaduti, determinavano anche in Calabria ciò che Sebastiano Aglianò, nella sua riflessione sul carattere dell’uomo siciliano, aveva definito «una forma di disprezzo quasi spagnolesco per i lavori manuali»175.

All’indomani della guerra, le nuove sfide economiche e culturali imposte dal corso della storia che porteranno, nei decenni successivi, al boom economico italiano, colgono la società calabrese del tutto impreparata. Il ritratto lacaviano della propria terra d’origine coglie l’asincronia storica degli accadimenti calabresi rispetto a quelli che interessavano il resto della nazione e dell’Europa e si risolve, pertanto, sotto ogni aspetto, nella denuncia di un cronico ‘ritardo’ di modernità. Restano espunti dalla sistemazione definitiva della raccolta un articolo176 pubblicato su «Risorgimento liberale», (organo del movimento

Documenti correlati