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CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

3. MITI DELLO SPAZIO

EVERYTHING COME UP OUT OF GROUND, LANGUAGE, PEOPLE, EMU,

KANGAROO, GRASS. THAT'S LAW. -HOBBLES DANAIYARRI,MUDBURA DI

YARRALIN

Ogni luogo, spazio e territorio costituisce per lo scrittore una costruzione letteraria ed al tempo stesso un rimando a qualcosa di fisico e presente, un ponte che unisce tempo e spazio, ciò che è visibile ed esperibile all’immaginabile. Nel riferirsi all’influenza dei miti antichi sull’interpretazione e sulle rappresentazioni dello spazio Luciano Lago spiega che:

Quando, poi, alla metà del secolo XIII, l’Occidente inizia a solcare le strade del Mondo sono dunque miti antichi, ai quali impropriamente attribuiamo il sapore di favole, a fornire un quadro di lettura e di interpretazione della realtà. Perché prima di conoscere direttamente, prima di toccare con mano, scoprire ed osservare, l’Occidente ha vissuto per un lunghissimo arco di tempo in mezzo alle rappresentazioni che dell’altro e delle sue cose una tradizione secolare e dottissima aveva elaborato (Lago, La questione

geografica del Paradiso terrestre102).

Nato e cresciuto in Australia, David Malouf ha sempre dimostrato un forte interesse per l’Europa, la sua cultura e la sua influenza sull’identità australiana. Il problema della posizione dell’Australia e del suo rapporto con la madre Europa è spesso presente sia in ambito poetico che nei suoi romanzi e storie brevi, al punto che An Imaginary Life, la sua prima opera ad ambientazione totalmente europea, è stata letta come un rimando diretto alla questione australiana ed al mito dell’esilio.

Come dichiarato nel corso di svariate interviste, a parere di Malouf l'Australia non dovrebbe essere considerata come “a second-hand Europe”, ma piuttosto andrebbe analizzata in quanto traduzione, una nuova versione dell'Europa in grado di offrire, grazie alle sue peculiarità ed ai cambiamenti che l'hanno caratterizzata, una prospettiva del tutto innovativa. Non dunque “clumsy variants”, ma “critical variants” (Intervista rilasciata a Davidson 267) nate dall'incontro dei coloni con un territorio ostile ed incapace di rifletterne le caratteristiche, territorio segnato poi dall'evoluzione postcoloniale, la quale avrebbe portato a risposte ambivalenti: da un lato una mitologia nazionale apparentemente solida e sicura, dall'altro una dimensione individuale spesso

descritta in termini di esilio e spaesamento. Nella breve ma acuta riflessione ad opera di Malouf, stampata in apertura del volume celebrativo successivo al conseguimento da parte dello scrittore del prestigioso Neustadt International Prize for Literature, possiamo individuare tutte le caratteristiche tipiche del rapporto problematico tra gli australiani ed il territorio: un paesaggio che non rimanda immagini di ordine e controllo, ma si configura come una presenza ostile che non necessita della presenza umana, ma sembra a malapena tollerarla. Nelle parole di Malouf:

In Australia what we mostly have before us is unmade nature, a landscape that gives back no comfortable and reassuring visions of the centrality of humans and their works. This makes Australian attitudes toward nature, and Australian writing about it, very different from the ones that appear in other forms of English. Nature in Australian poetry and fiction is seldom the source of moral reflections on order and industry.[...] What the vastness of Australian spaces evokes is anxiety. This is a landscape that has no need of human presence or a shaping mind or hand to complete it. It is already complete.[...] It is a challenging and forbidding presence, and its beauty, its resistance, its hostility [...] raises questions about man's place in the scheme of things that do not arise, or not so sharply, elsewhere (Malouf, A Writing Life 1).

Una riflessione simile viene offerta da Malouf anche all'interno del saggio The States of the Nation, nel quale suggerisce che nel suo essere uno spazio aperto, quasi infinitamente tale, l'Australia abbia portato i coloni a considerarla una terra quasi magica, dotata di una capacità trascendente o mistica di ampliarsi indefinitamente, sfuggendo in questo modo al controllo umano e portando alla produzione di mappe inevitabilmente destinate a rimanere incomplete.

Nell'analizzare la letteratura e la storia postcoloniale del suo nativo Canada, Northrop Frye suggerisce che la ricerca di una “casa”, ovvero di una identità individuale e nazionale, non si basi sulla domanda “Who am I?”, ma piuttosto sulla domanda “Where is here?” (Frye, Literary History of Canada 830); allo stesso modo l'Australia di Malouf sembra non poter trovare una identità propria prima di trovare una definizione del luogo in cui questa si esprime. Neilsen propone una riflessione assai simile nell'affermare che “nationality” ed “Australian-ness” sono tra le più evidenti preoccupazioni di Malouf, in quanto l'Australia è “a place we are still in the process of constructing culturally” (Neilsen, Imagined Lives 182).

Centrale alla costruzione dell'identità australiana è, secondo Malouf, la creazione e riscrittura di miti legati allo spazio, poiché attraverso il mito è possibile organizzare e diffondere una determinata concezione di identità culturale ed una peculiare visione del

mondo; “you don't just describe a place”, dichiara Malouf, “you mythologise it, turn it into a symbolised place that your work can exist in” (Neilsen, Imagined Lives 6).

Nel portare all'interno della storia australiana le sue storie personali Malouf include spesso i paesaggi come elementi significativi che, al pari dei personaggi, fungono da misura dell'essere. Amanda Nettlebeck identifica un “consistent interest in the processes of mapping, of history-making, of identity and place”, mettendolo in relazione ad una cultura, quella australiana, “still deeply concerned with its own form” (Nettlebeck, Provisional Maps i).

An Imaginary Life offre un perfetto richiamo al mito australiano dell'esilio, nato dall'idea tipicamente postcoloniale di essere stati separati del centro ed essere giunti al margine estremo del mondo conosciuto. Nel narrare la difficile accettazione ovidiana della sua terra d'esilio Malouf evoca il senso di straniamento dei suoi concittadini, suggerendo, attraverso la ridefinizione del mito, una maggiore fiducia nelle possibilità offerte dagli spazi antipodei. Così come a Tomi e nelle terre selvagge che la circondano, anche in terra australiana è possibile giungere ad un vero senso d'appartenenza, tema celebrato spesso anche nell'opera poetica maloufiana. È stato già esplicitato in questo studio come l'esilio ovidiano descritto in An Imaginary Life sia stato letto dalla critica come una riflessione tipicamente australiana94, nonostante questo non fosse l'originario intento dell'autore, il quale ha dichiarato di essersi sorpreso nello scoprire che il suo romanzo veniva percepito, in ambito europeo, come un'opera “[which] could only have been conceived by someone who had in the back of his mind the Aborigenes […]. Certainly, from a European perspective, this is recognizably a non-European book” (Intervista rilasciata a Copeland 435, mio corsivo). Rispetto all'esilio autoimposto di Johnno nel romanzo omonimo, dapprima una fuga nell'esotico Congo ed in seguito una spasmodica ed instancabile ricerca della perduta identità in svariati paesi d'Europa, la cacciata di Ovidio permette una riflessione più profonda sulla riconciliazione psicologica e spirituale con uno spazio altro ed inospitale.

Nella sua intervista a Davidson, riflettendo su come la percezione critica di An Imaginary Life in Europa fosse stata quella di un romanzo di matrice chiaramente australiana, Malouf commenta che la polarità tra centro e margine, siano essi Roma e Tomis, l'Europa e l'Australia, “really only exists for those who are at the edge; the                                                                                                                

94 Mi riferisco in special modo alle letture offerte da Peter Lewis e Michel Fabre. Lewis soprattutto arriva ad associare il viaggio finale di Ovidio alle spedizioni dei grandi esploratori australiani.

people at the centre just think of the centre” (Intervista con Davidson 267).

Nella sua analisi del linguaggio maloufiano Peter Bishop definisce l'esilio di Ovidio una discesa psicologica non dissimile dal viaggio dantesco, “a psychological journey” (Bishop, David Malouf and the Language of Exile 1) che attraverso l'immaginazione contribuisce a creare una geografia mitica, nella quale i movimenti attraverso paesi e oltre confini hanno una precisa corrispondenza psicologica e contribuiscono al superamento dei limiti della mera classificazione astratta, la quale, non ispirando nel lettore alcun senso di vicinanza, fallisce nel suscitare una risposta interiore. È proprio la distanza dall'ordinario, dalla storia presente, a garantire una prospettiva ideale: abbandonando la pretesa di identificarsi con il quotidiano e scavando al di sotto di quanto appare comune, la narrazione espone il mito così come individuato da Freud e Jung (Bishop, David Malouf and the Language of Exile 2).

Il paesaggio di Malouf è un luogo definito dal linguaggio e dalla memoria, in cui la consapevolezza di essere al mondo e nel mondo è realizzata ed esplicitata attraverso le parole. Gli spazi, nell'essere spazi narrati, divengono dunque spazi mitici, caratterizzati dall'approccio maloufiano all'identità australiana attraverso un processo di “narrative invention” (Nettlebeck, Provisional Maps ii), il quale suggerisce nuove mitologie dello spazio e della formazione culturale. Attraverso la sua capacità di suggerire “both a Romantic idealism and what might be defined as a post-colonial conception of language, world and subjectivity” (Nettlebeck, Provisional Maps iii),   David   Malouf interiorizza modalità di presentazione del paesaggio che sono unione di modelli tradizionali storici e moderne teorie critiche di stampo postcoloniale.

È bene rimarcare in questa sede che le più recenti teorie postcoloniali sottolineano come il “post” in postcoloniale non implichi affatto un superamento del colonialismo, come ben esplicitato da Giselle Byrnes nel suo saggio Boundary Markers:

The term ‘postcolonialism’ does not signal an end to colonization or imply that we have somehow left the colonial past behind; rather, it suggests a critical engagement with colonisation, a perspective that critiques and seeks to undermine the structures, ideologies and institutions that gave colonisation meaning. Claims to postcolonial status (or ‘postcoloniality’) are often motivated by the desire of the colonised (as well as the descendants of the colonisers) to restore cultural and political integrity, granted not by the colonial power, but on their own terms. Postcolonialism thus engages with ideas of plurality and the coexistence of multiple discourses (Byrnes, Boundary Markers 11-12).

L'Australia, in quanto Europa in traduzione, mostra chiaramente nella sua produzione letteraria un particolare interesse per tutte quelle poetiche che prendono in considerazione margini e sagome, chiari indicatori di limiti posti alla propria coscienza. Va immediatamente sottolineata in questo contesto l'importanza per Malouf del processo di mappatura, il quale si pone in dialogo diretto con il problema della rappresentazione dell'identità e quello della forma. In “Edges of the Self: Topographies of the Body in the Writing of David Malouf”, Leigh Dale and Helen Gilbert analizzano i testi di Malouf a partire da una serie di connessioni tra Sè e Paesaggio, i quali vengono esplorati “in terms of a metaphorical disintegration of the post-colonial body, whereby boundaries of the self and the landscape are interrupted and broken down” (Dale e Gilbert, “Edges of the Self” 86), mettendo l'accento sull'abbondanza di finali aperti in cui i protagonisti dei romanzi di Malouf finiscono per dissolversi nell'ambiente e nella natura, superando così i confini spaziali e personali nel momento della trascendenza. “Rewriting an Explorer Mythology: the Narration of Space in David Malouf’s Work” utilizza invece le teorie di Paul Carter in merito all'esplorazione ed al viaggio per inquadrare criticamente le figure di viaggiatori all'interno dei mondi maloufiani. Posti in una posizione doppia, i viaggiatori sono infatti esperti conoscitori dei limiti e dei confini, riscrittori di mitologie, ma al tempo stesso abitanti di quello che Carter chiama “mirror state”, un punto in cui “the horizon reflects back the image of their own presence: a presence which is defined against what is hidden, excluded, unspeakable” (Nettlebeck, Provisional Maps 114).

Quel che Nettlebeck suggerisce a chiusura del suo studio è che il “desired space outside of time, language, social law” (Nettlebeck, Provisional Maps 115) nella narrativa maloufiana sia problematico nella sua inclusione di aspetti del diverso quali il ruolo femminile e quello dell'aborigeno, ma ritengo che questo non renda meno valida la soluzione proposta da Malouf. Il modo in cui la sua scrittura accomoda prospettive conflittuali e diverse è certamente un tentativo, secondo le parole dell'autore, di rendere reale la concezione che “the word and the object are absolutely one [...] all my writing is an attempt to make that true'” (Intervista rilasciata a Kavanagh 18). Quello di Malouf è in sostanza un approccio sperimentale che mira a creare un equilibrio tra visioni opposte del mondo anche attraverso l'analisi dinamica dei cambiamenti del paesaggio e di coloro che rispetto ad esso si pongono storicamente.

concetto aborigeno di mappa di quello occidentale, trasformando uno strumento apparentemente oggettivo come la mappa in un mezzo che indica non solo un percorso pratico, ma anche un sentiero spirituale o d'iniziazione attraverso la narrazione mitica del territorio:

The details in the Aboriginal maps were important for survival – especially the waterholes, creeks and soaks – but there were also other details that make memorable landmarks for Aborigines travelling through the country. The mythic stories that accompanied the maps acted as aids to the memory, and this is part of their normal function. Scale, which is all-important in a non-Aboriginal map, is not so important for Aboriginal maps, which also encoded the spiritual significance of sites, and the ritual routes between them. The resulting maps were accurate enough to let you know where to go, while including, through specific distortions and transformation, the meanings that make the trip worthwhile (Barcan e Buchanan, Imagining Australian Space 61-62).

Possiamo trovare numerosi esempi delle posizioni teoriche individuate da Nettlebeck; nel racconto “A Great Day” incluso nella raccolta Dream Stuff. Nell'associare le celebrazioni per il compleanno di uno dei personaggi, Audley, ad una “larger occasion”, quella del bicentenario dell'arrivo in Australia della Prima Flotta Malouf crea un punto di contatto tra l'identità del singolo e quella dello spazio da lui abitato, tra la sua storia e la Storia del mondo. Già dai primi paragrafi Malouf ci offre un resoconto immaginario dell'Australia preistorica, costruito liricamente a partire dall'esclusione del mondo delle voci e degli orologi, a favorire l'impressione, attraverso il richiamo al silenzio, di una terra ancora vergine e disabitata:

down here on the headland, in an expanding stillness in which clocks, voices and every form of consciousness had still to come into existence and the day as yet, like the sea, had no mark upon it, it was before breakfast, before waking, before everything but the new tide washing in over rows of black, shark-toothed rocks that leaned all the way inland, as they had done since that moment, unimaginable ages ago, when the earth at this point whelmed, gulped and for the time being settled (D 131-32).

Il figlio di Audley, Clem, sembra essere l'incarnazione di questa collisione tra paesaggio, storia e coscienza personale: reduce da un incidente stradale in cui “the whole continent – the whole three million square miles of rock, tree-trunks, sand, fences, cities – came bursting through the windscreen into his skull” (D 142), Clem è l'unico a sentire il bisogno di commemorare l'anniversario nazionale, al punto da scrivere un discorso in grado di esaltare la grandezza australiana, la sua massa non solo fisica (“this land mass, this continent”), ma soprattutto la voce di una nazione in grado di proiettarsi oltre i suoi stessi confini, nello spazio profondo. Nel fare questo Clem

ritraccia il percorso australiano che dal silenzio originario ha portato al moltiplicarsi dei battiti dei cuori dei suoi abitanti: “how could anyone know how big it is with so few heartbeats scattered across it? But slowly others started to arrive, just a few at first, rough ones, rough – hearts – then a rush, till now there are millions. Us, I mean, the ones who are here tonight” (D 180).

L'interessante rimando sonoro unisce due immagini particolarmente evocative in cui l'elemento del fuoco è utilizzato per illuminare nozioni personali del passato e del futuro; nel giorno del suo compleanno Audley visita infatti il museo di famiglia, fondato dal nonno in qualità di monumento al passato coloniale, museo che nella notte viene dato alle fiamme, lasciando nella cittadina e nel cuore della famiglia un cumulo di macerie ardenti. Audley, tuttavia, lungi dall'essere affranto dalla notizia si sente invece “exhilarated, released”, quasi che la distruzione della proprietà l'avesse liberato dalla manifestazione fisica di quell' “ancient and irreconcilable argument in us between settlement and the spirit of the nomad” (D 177) che costituisce l'anima dicotomica e cangiante dell'Australia stessa. “The play of flames across the inlet and the reflected glow in the sky” (D 176) che è l'incendio del museo viene richiamato e rispecchiato dai falò sulla spiaggia, i quali ardono mentre le persone celebrano la ricorrenza nazionale e che, come l'edificio, lentamente si sfaldano, collassando in se stessi, suggerendo al tempo stesso l'immagine di una fenice che rinasce dalle proprie ceneri:

a shimmering mass, revived, threw up flames that cast a flickering redness over the sand, till one of the men, conscious perhaps of the renewed heat, sat up for a moment out of sleep and regarded it, then burrowed back into the dark. Till here, as on other beaches, in coves all round the continent, round the vast outline of it, the heat struck of a new day coming, the light that fills the world (D 185).

Il paesaggio qui diviene immagine di potenziale inespresso ed al tempo stesso di perdita; attraverso il fuoco l'Australia celebra il suo futuro e si libera del suo passato, illuminando una nuova visione del paese nel giorno dell'anniversario del suo inizio come nazione. La memoria culturale, rappresentata qui dalla celebrazione e dalla presenza museale, è fondamentale per mantenere radicato l’Io nella collettività, ma al tempo stesso imprescindibile è la creazione di un genius loci, lo spirito, l'anima, il senso e le fattezze di una cultura a cui il luogo rimanda.

Nel delineare l'interazione essenziale tra l'individuo ed il mondo, Malouf delinea la possibilità di una completa metamorfosi che permetta la totale assimilazione dell'essere all'interno della natura, così come accade per Ovidio in An Imaginary Life:

[the gods] are not outside us, nor even entirely within, but flow back and forth between us and the objects we have made, the landscape we have shaped and move in. We have dreamed all these things in our deepest lives and they are ourselves. It is our self we are making out there, and when the landscape is complete we shall have become the gods who are intended to fill it (AIL 28).

Se questi dèi, forze emblematiche del cambiamento e della vita spirituale, non sono posti né internamente né esternamente alI'individuo essi esistono in una sorta di spazio liminale, un metaforico confine che diviene per Malouf il luogo privilegiato della percezione.

In modo leggermente diverso i capitoli finali di Remembering Babylon incastonano le storie personali dei personaggi del romanzo in un contesto storico nazionale attraverso l'uso del paesaggio. Janet and Lachlan, ormai anziani, si incontrano nel giardino del convento in cui Janet vive, discutendo di Gemmy e del comune passato. Lo spazio è in questo caso un modo per determinare la distanza temporale tra passato e presente, così come risalta nell'affermazione di Janet “All that, fifty years ago. An age. They were living in another country” (RB 197). L'Australia ha ormai subito una profonda trasformazione, non è più una colonia sperduta nell'oceano, ma una nazione che invia in guerra i suoi uomini; la comunicazione tra Jane e Lachlan riesce a ristabilirsi nonostante tutto il tempo trascorso proprio attraverso la memoria di spazi condivisi. Nel ricordare il momento in cui Gemmy entrò nelle loro vite, Janet riflette su come “they would come back, as they had now, from the far points they had moved away to, and stand side by side looking up at the figure outlined there against a streaming sky. Still balanced” (RB

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