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Le caratteristiche nazional

integrarlo in un tutto intelligibile che non è una somma di qua- lità, anche meno di vizi e di virtù, ma qualcosa di infinitamente complesso, un’ anima collettiva, che tuttavia non si compone di anime individuali, e che si può tentare di descrivere, ma non di definire in termini scientificamente chiari e distinti.

Natura e cultura

Il carattere nazionale non ha nulla d’ immutabile, di stabilito per sempre ed è il prodotto di tutta la storia di una nazione. La scienza del secolo scorso, guidata da un rigoroso positivismo, ha tentato invano di ridurlo esclusivamente all’ effetto di questa o di quest’ altra “causa”, d’ ordine antropologico o geografico. L’ appli- cazione grossolana dei metodi delle scienze naturali a un campo che appartiene essenzialmente alla conoscenza delle cose umane, ha prodotto soltanto teorie false e che hanno al massimo esercita- to un’ influenza nefasta completamente al di fuori di ogni dottrina scientifica. In fin dei conti è a questo scientismo primitivo che si deve tanto la riduzione di ogni sviluppo storico alla dinamica elementare di una “lotta di classe” quanto la sua riduzione alla lotta delle razze, culminante nell’ ideologia del sangue, del suolo e dello “spazio vitale”. Sforzarsi di dedurre il carattere nazionale da certi dati preculturali, siano essi di ordine biologico o economico e sociale, vuol dire confondere la materia e la forma, i materiali di cui dispone l’ umana creazione, e la creazione stessa.

La formazione di una nazione, e di conseguenza di un carat- tere nazionale, è certamente impossibile e perfino impensabile senza una base etica e geografica ben definita. Per fare una na- zione ci vogliono un popolo e un territorio; l’ errore comincia quando si suppone che i caratteri preculturali, cioè quelli an- tropologici e geografici di quel popolo e di quel Paese, bastino a determinare, anche solamente nelle linee generali, la fisionomia

della nazione che ne scaturirà nel corso della storia. Tale erro- re appartiene alla stessa categoria di quello dei teorici dell’ ar- chitettura e dell’ arte del secolo scorso, i quali cercavano, come Gottfried Semper, di dedurre la diversità degli stili da quella dei materiali che si impiegavano nei tempi primitivi nelle costruzio- ni, come dalla confezione degli oggetti usuali. Ed è dalla stessa filosofia o piuttosto dalla stessa mentalità, trionfante verso la metà del secolo, che ha origine quell’ altro materialismo storico che ha per idea centrale la lotta, non delle classi, ma delle razze.

La nozione di razza appartiene nettamente all’ antropologia, in quanto questa è una scienza naturale. Dovremmo proibirci una volta per tutte l’ impiego di questa parola nel senso vago che ri- veste nella conversazione, nel giornalismo e perfino in qualche opera d erudizione. Potremmo immaginarci, per esempio, che, quando si parla di “razza celtica” o di una razza che abbracciasse l’ insieme delle genti che parlano una lingua di derivazione indo- europea, sia esistita nei due casi una reale unità di razza, nel senso esatto, cioè a dire antropologico, della parola? Tale idea non si basa che sulla confusione, purtroppo molto frequente, tra i dati studiati dall’ antropologia (indice cranico, pigmentazione, eccete- ra) e quell’ altro dato di ordine affatto diverso che è il linguaggio. Sono esistiti Celti biondi, alti, dal cranio ovale; sono esistiti anche Celti bruni, di statura media e dalla testa rotonda; ma tutti i po- poli celtici parlavano lingue che appartenevano allo stesso gruppo dentro la grande famiglia delle lingue indoeuropee. Certamente, la comunità linguistica è sempre indice di una certa comunità di cultura, ma né l’ una né l’ altra hanno nulla a che fare con la que- stione delle razze. Il grande linguista Antoine Meillet credeva di poter parlare di una “nazione” indoeuropea nel senso culturale e non politico della parola; ma la comunità di credenze, di costumi, di situazioni che egli così designava non presuppone affatto una

parentela reale, la discendenza da antenati comuni. Non è la na- tura, è la storia che produce comunità di quel genere.

Tutte le grandi nazioni dell’ Europa, antiche e moderne, sono fondate su una mescolanza di razze ed è per questo che è quasi impossibile caratterizzare ciascuna delle tre razze europee se non con caratteristiche puramente fisiche. Si è detto tuttavia, con un certo colore di verosimiglianza, che la razza alpina è particolar- mente attaccata all’ agricoltura, che la razza nordica è stata sempre incline alla guerra, all’ avventura, alle grandi spedizioni marittime, alla “vita pericolosa”, e che la razza mediterranea ha dato prova di una potente sensualità unita a grandi doni artistici. Queste osser- vazioni, anche se fossero esatte, non potrebbero essere che di de- bole aiuto per colui che cerca di descrivere il carattere nazionale di un popolo d’ Europa, in primo luogo a causa della loro generalità eccessiva e poi perché si ha sempre davanti, nella realtà, non una razza pura, ma una mescolanza assai complessa di razze.

Alcuni erano inclini (prima del razzismo) a parlare con or- goglio della purezza della loro razza, ma la storia ci insegna che avremmo piuttosto diritto di inorgoglirci della sua impurità. La base etnica della Grecia e di Roma è, in questo senso, impu- ra quanto quella della Francia, dell’ Inghilterra, dell’ Italia, della Spagna o della Germania. Quanto alla dose di elementi razzia- li che formano un popolo, è impossibile calcolarla in maniera esatta e non si può prevedere il risultato di quella mescolanza o di un’ altra. L’ immigrazione negli Stati Uniti è regolata secondo certi princìpi originari del secolo passato, i quali, anch’ essi, po- trebbero essere qualificati, di diritto, come razzisti; ma per ciò che riguarda i risultati di questa regolamentazione, questi non si riveleranno che in un lontano futuro, e intanto ci saranno altri fattori che agiranno senza che abbiano nulla a che fare con l’ in- dice cranico, gli stessi che in meno di due secoli hanno creato,

in ciò che ha di particolare, la civiltà americana attuale, e il tipo umano del cittadino degli Stati Uniti.

Una mescolanza di razze nordiche e mediterranee è all’ origine sia del popolo inglese che di quello greco, ma gli effetti di questo miscuglio sono stati ben differenti nei due casi, e la cultura nazio- nale (radicata nell’ insieme dell’ Europa) che ha prodotto Shake- speare è ben lungi dall’ assomigliare, anche solo sotto certi aspetti, a quella che ha prodotto Platone. La composizione razziale non ci ragguaglia neppure sufficientemente sulla base etnica di una nazione, e ancora meno su quella nazione stessa, formatasi a poco a poco attraverso una lunga serie di opere e di avvenimenti.

È da rigettare nello stesso modo l’ altra grande tentazione scaturita dal positivismo trionfante che consiste nel volere spie- gare le particolarità nazionali con le proprietà dell’ ambiente na- turale nel quale si era formata la nazione. Ciò non toglie che questa maniera di vedere è molto più naturale e più giustificata di quella che ha servito di base alle teorie razziste.

Non si può negare l’ influenza del suolo e del clima d’ un paese sul carattere degli abitanti; ed essa fu riconosciuta già nel V secolo prima della nostra era da un medico greco, autore del trattato anonimo su le arie, le acque e i luoghi (abitati), In questa operetta si esaminano quattro fattori: il rilievo e il contorno del suolo; il gra- do di umidità; la temperatura; la stabilità o la instabilità del clima in rapporto alla frequenza dei temporali. Lo spirito combattivo e inventivo degli Europei, a paragone con i popoli dell’ Asia, è spiegato con i cambiamenti più o meno bruschi di temperatura e con il grado d’ umidità proprio del clima europeo, poiché, secondo l’ autore, «stimolano l’ intelligenza e si oppongono a ogni stagna- zione». L’ osservazione, benché un poco sommaria senza dubbio, non è priva di verità. Da allora sono state fatte innumerevoli os- servazioni di questo genere che hanno sempre l’ inconveniente di

rimanere un poco vaghe, ma che per questo fatto stesso si sottrag- gono al pericolo di diventare troppo sistematiche. Solo alla fine del XIX secolo il determinismo geografico fu elevato a principio da un brillante erudito, Friedrich Ratzel, e dalla sua scuola.

Secondo il Ratzel, la storia di un popolo, il genere delle sue occupazioni, la sua cultura sono in gran parte, se non interamente, determinati dal territorio che occupa, e che è come la materializ- zazione del suo destino. L’ isola, la steppa, il deserto, la foresta, la montagna, producono ogni volta un tipo di civiltà che resta fedele alla sua origine e che l’ uomo non potrebbe cambiare a volontà. Alcune osservazioni del Ratzel erario valide e sono rimaste fe- conde; ma nell’ insieme, il suo metodo è aberrante, come ha di- mostrato, pur traendo profitto dai suoi lavori, la scuola francese di “geografia umana”. Il Ratzel non ha tenuto abbastanza conto dello sforzo umano e dei cambiamenti che esso produce nella na- tura circostante. Le regioni industriali d’ Inghilterra, del Belgio, o della Francia del Nord, sono sempre lo stesso “ambiente naturale” che erano una volta? Il fatto che la Gran Bretagna sia un’ isola ha sempre le stesse conseguenze che aveva nel passato? Il territorio, il suolo non ci offrono in verità che delle risorse, delle possibilità delle quali noi possiamo fare usi molto differenti. Un’ isola può isolare ma essa ci può anche spingere a entrare in contatto con diversi Paesi vicini e lontani: tali sono stati i diversi destini della Sardegna e della Corsica da una parte, della Sicilia dall’ altra. Sal- vo casi estremi, non v’ è alcuna rigida relazione tra la configura- zione di un Paese e il destino dei suoi abitanti. L’ uomo è capace di cambiare la superficie della terra, e anche di cambiare se stesso, per adattarsi a quello che la terra gli offre.

Cercare un rapporto diretto tra un dato geografico qualunque e un qualunque carattere nazionale è un’ occupazione assai inutile. Considerando l’ insieme delle cose si possono scorgere certi con-

trasti elementari, l’ influenza dei quali è stata sempre riconosciuta, e tra i più importanti si potrebbero mettere quello tra la pianura e la montagna e quello tra il Nord e il Sud. I montanari sono sempre in ritardo sugli abitanti della pianura, le forme della loro vita civile sono più rozze e più vicine alla natura. Quanto al con- trasto tra il Nord e il Sud, abbiamo già visto che si traduce non nella differente rapidità di sviluppo, ma (tra l’ altro) in due tipi op- posti di creazione artistica. Tuttavia osserveremo che il rapporto di questi due grandi contrasti con i caratteri nazionali europei è molto complesso, poiché, da un lato, le nozioni di Nord e Sud, di pianura e di montagna, sono troppo estese per coincidere con le divisioni nazionali e, dall’ altro, quasi ogni Paese europeo si trova in possesso delle proprie pianure e delle proprie montagne e so- prattutto del suo Nord e del suo Sud, puramente relativi, che in qualche modo competono con il Nord e con il Sud assoluti, ma non solamente geografici, dei quali ci siamo occupati nel capitolo precedente.

La terra natale agisce profondamente sull’ uomo e sulle sue creazioni, ma lo fa mediante la sua sensibilità e la sua intelli- genza. Il carattere di un popolo è il risultato della sua storia, l’ espressione della sua cultura. Questo carattere è una realtà, ma diviene una finzione, non appena si cerca di dedurlo da un semplice dato naturale o da una combinazione di questi dati. Non vogliamo dire con questo che ogni esame dell’ ambiente naturale in cui si sviluppano una cultura e una nazione sia su- perfluo; solamente, siccome si tratta di cose umane, ci tocca distinguere tra i materiali di cui si serve la creazione culturale e le forme che essa produce, ricordando, nello stesso tempo, che non vi è arresto nella continuità del divenire e che le for- me create dall’ uomo diventano a loro volta i materiali di una nuova creazione.

La natura propone, la cultura dispone, ma la seconda non sa- prebbe fare a meno della prima, ed è per questo che esse riman- gono inseparabili e si affrontano costantemente in seno a una cultura già costituita. Questa comporta alla sua base un fondo di attitudini, di nozioni e di usanze, che si conserva specialmente tra le popolazioni delle campagne e che ho chiamato, nel mio libro sulla Russia, “cultura orizzontale”. Questa è come una se- conda natura rispetto a quella delle città e dell’ élite intellettuale, cioè rispetto a quella “cultura verticale” che è considerata come la vera cultura o la cultura propriamente detta. Ora è chiaro che un contadino rappresenta, nella maggior parte dei casi, molto meglio di un cittadino, la materia etnica, se così si può dire, di cui è fatta una nazione, e che le sue occupazioni, il suo genere di vita sono tali che lo avvincono in maniera ben più stretta al suo ambiente naturale, di cui non può evitare di subire l’ impronta. Ci si potrebbe dunque domandare se non è lui che personifica i tratti più salienti del carattere nazionale e se non si debba ricer- care l’ espressione più chiara di questo nei costumi, le credenze, le arti popolari, in tutto ciò che costituisce e perpetua la cultura orizzontale. Ora sembra che la risposta a questa domanda non possa essere che negativa.

Popolo e cultura

Il carattere nazionale è l’ insieme delle caratteristiche per le quali una nazione differisce da un’ altra ma ciò che c’ è di più par- ticolare in ognuna, non è la vita delle campagne, il folklore, la cultura contadina di tradizione orale. Un contadino francese è meno diverso da un contadino inglese o tedesco di quanto non lo siano un rappresentante di commercio o un intellettuale francese nei confronti dei loro colleghi dei Paesi vicini. È molto maggiore la diversità tra Amleto e Berenice che non tra una canzone o una

danza folkloristica del Warwickshire e una canzone o una danza del Poitou o della Borgogna. Allo stesso modo, un Celta, ai tempi di Cesare, era molto più vicino a un Germano, di quanto non somigli oggi un Bretone, per il suo modo di vivere e le sue dispo- sizioni psichiche, a un Frisone o a un Bavarese. Le differenze tra le nazioni europee, invece di diminuire, si accentuano con i secoli, e solo da circa cinquant’ anni questa tendenza è largamente com- pensata dalla potenza livellatrice della tecnica onnipotente. Se ci prendiamo la cura di distinguere, nel folklore di ogni nazione, gli elementi primitivi di quelle caratteristiche che appartenevano prima all’ alta cultura e che poi sono discese al livello della cultura popolare, non si tarderà a constatare che i caratteri propriamente nazionali di quel folklore provengono dagli elementi della secon- da categoria molto più che da quelli della prima. Non si potrebbe desiderare una migliore conferma del fatto che il carattere nazio- nale, lungi dal preesistere allo sviluppo storico della nazione, non si forma che a poco a poco, e non è lui stesso che il frutto di una lenta maturazione nel quadro di una vita nazionale.

Certo, si può ammettere, come si fa per la persona umana, un numero più o meno ridotto di tratti caratteristici “innati”; ma, dopo tutto, gli adulti non sono meglio differenziati tra di loro dei bambini, e non è forse naturale il paragonare questi ul- timi ai popoli primitivi e i primi alle nazioni evolute? La Gallia merovingica non è che un mazzetto di possibilità, in confronto alla Francia di San Luigi o a quella di Luigi XIV; tutte e due in- finitamente più articolate, più ricche di contenuto e in possesso di una personalità assai più spiccata di quella embrionale, che si sviluppa vagamente ai tempi di Clodoveo o della regina Brune- haut. Ora questo esempio suscita un nuovo problema; poiché, se si può appena parlare di carattere nazionale francese (o gallo) all’ epoca merovingica, questo carattere è forse uguale a quello

del secolo XIII o XVII? Volendo riflettere, non si risponderà a questa domanda con un sì e neppure con un no. Infatti, il carat- tere nazionale cambia, pur conservando una certa identità; alla fine di quattro secoli sarà lo stesso e non lo sarà più; un po’ come un uomo di quarant’ anni non è più lo stesso, restando però, per certi aspetti, quello che è stato a venti anni. Dire che il carattere di una nazione, come quello di una persona, è frutto della sua storia, è come rifiutare di immaginarlo diversamente che in un continuo cambiamento, perdendo una caratteristica, acquistan- done un’ altra nuova, e senza cessare, attraverso tutti questi cam- biamenti, di conservare un’ identità più o meno riconoscibile.

Il fatto che cambi, che abbia sempre cambiato, è ciò che di- strugge a priori ogni tentativo di farlo derivare dai semplici dati naturali, come anche di fissarlo in prossimità di questi dati. Il carattere della nazione può essere profondamente modificato o anche trasformato del tutto da una forte influenza religiosa (per esempio quella di Calvino nella Svizzera romanza e in Iscozia), con l’ adozione di un nuovo sistema di educazione o di propa- ganda (come abbiamo visto ai nostri giorni nei Paesi a regime totalitario), da gravi cambiamenti economici (come la rivoluzio- ne industriale, la cui influenza fu profonda sul “carattere” di tutti i popoli occidentali). Verso il 1140 il Papa Eugenio III diceva degli Inglesi che formavano una nazione «ben dotata e che si sarebbero potuti preferire agli altri se non ci fosse stato l’ ostaco- lo della loro estrema leggerezza» e due secoli più tardi Wycliffe scriveva ancora dei suoi compatrioti che avevano «la luna come pianeta, a causa della loro incostanza»; giudizio che nessuno avrebbe ripetuto all’ avvento di Cromwell, e neppure al tempo della Regina Vittoria. Ma, in realtà, come si è venuto formando il carattere nazionale inglese?

Non v’ è altra risposta a questa domanda della stessa storia del- la nazione inglese. Ora, questa non si è costituita definitivamen- te se non dopo la conquista normanna. Due secoli dopo questa conquista, la lingua inglese era già formata, nelle sue grandi linee, quale la conosciamo oggi; e il travaglio che l’ aveva prodotta fa parte di quel grande processo che, nel corso dei secoli, ha costi- tuito la nazione e il carattere inglese quali oggi ci si presentano. Si può dire che il periodo antecedente alla conquista è il periodo di raccolta dei materiali e che gli otto secoli che seguirono furono quelli della creazione delle forme. Ma, d’ altra parte, la materia prima traspare ancora oggi, sia pure attraverso tutto quello che i secoli ne hanno potuto fare, e non è impossibile riconoscere in pieno ventesimo secolo almeno qualcuno degli elementi “natura- li” sulla base dei quali venne costruita la cultura inglese.

Un popolo di rudi contadini in un’ isola battuta dai venti e dalle piogge; ecco il primo aspetto dell’ Inghilterra, ancora ri- conoscibile ai nostri giorni, un aspetto nel quale si confondono natura e cultura, ma nel quale domina la natura. Quel contadino è energico e tenace, ha gusti semplici, una sensualità franca ma rozza, ama l’ aria aperta, le bevande forti e i colori vivaci. Ora, quel contadino continua a vivere, ancora ai giorni nostri, in un gran numero d’ inglesi, anche fra quelli che abitano in città, che svolgono attività che non assomigliano affatto alle sue.

Nel romanzo di Wells intitolato Anna Veronica il padre del personaggio principale sceglie i libri che si accinge a leggere, uni- camente per il loro titolo, dando la preferenza a quelli che hanno un aggettivo che designa un colore, come l’ Uomo giallo, il Para- pioggia azzurro, o il Mostro verde, un libro dal titolo “cromatico” gli pare più degno di essere letto di un altro. L’ ironia è fondata, nel nostro caso, su un’ osservazione esatta. È commovente vedere come gli Inglesi di condizione modesta, residenti nella triste pe-

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