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Carlo Rossetti, Il teatro della giustizia, Edizioni Goliardiche, Trieste 2008, (I ed 2001), pp 124.

Nel documento ISLL Papers Vol. 3 / 2010 (pagine 195-198)

La storia di Giovanni Falcone e la sua morte sono un paradigma di una vicenda che si presta particolarmente all’analisi dei nessi tra Diritto e Letteratura.

Falcone, Borsellino, Rocco Chinnici, Gaetano Costa. Sono i nomi di giudici uccisi perché non hanno voluto tradire il giuramento di fedeltà alla Costituzione che il magistrato deve formulare. Il giuramento ha in sé un elemento di sacralità legato ai valori morali, all’impegno etico, ed assume un significato collettivo, fondato sulla solidarietà e la fiducia. Questi magistrati, come tanti altri loro colleghi, hanno affrontato la morte senza abbandonare il dovere d’ufficio e il proprio impegno, fino all’estremo sacrificio della vita. Hanno seguito l’ordine della giustizia secondo il modello pax, ordo, justitia, un ideale antico oltre che un principio etico, regolatore e normativo. In questo modo la narrazione dell’opera dei magistrati palermitani assomiglia a un dramma pirandelliano. I personaggi seguono precise regole inflessibili e la loro vita non è fantastica ma l’espressione della difficoltà di trasformare la realtà quotidiana in ideale morale. Da qui l’origine del titolo scelto per la monografia: Il teatro della giustizia.

Come un dramma, il libro è diviso in atti, non in capitoli. Si apre con un “Preludio”. È il richiamo pubblico del magistrato alla supremazia della legge e della Costituzione, di fronte alla terribile potenza di Cosa Nostra, dichiarando in tal modo la superiorità dei principi del diritto e negando il potere della criminalità che, nelle sue forme, si regge sul presupposto contrario. Non è un caso che la mafia oltre a colpire fisicamente i magistrati cerchi di spogliare il pubblico ufficiale della sua dignità, tentando di dimostrare in pubblico che il dovere, l’ufficio, e la devozione agli ideali civili sono inutili. Il magistrato che sfida la mafia viene condannato a morte dal tribunale supremo della mafia, e uno o più sicari vengono incaricati di assassinare il giudice. Il tribunale mafioso è l’organo deliberativo di Cosa Nostra e si riunisce in tre specifiche occasioni: per valutare le azioni da compiere, per formulare la condanna a morte di un nemico, e infine per decidere il tipo di esecuzione.

Nel primo atto vengono poste in risalto le difficoltà quotidiane che i giudici incontrano anche all’interno delle Procure, dove, purtroppo, molto spesso aleggia la diffidenza, alimentata dal preoccupante fenomeno dell’infiltrazione mafiosa. Più volte Falcone e Borsellino espressero il loro rammarico, soprattutto in riferimento alle indagini che gli uffici investigativi trascurarono di eseguire

su esponenti di spicco di Cosa Nostra, come Ciancimino, Riina, Badalamenti, Inzerillo, Spatola e Vitale. La stessa mafia era a conoscenza dei dissidi esistenti tra l’Ufficio Istruzione e la Procura, e cercava di trarne vantaggio alimentando i sospetti tra i componenti. Addirittura alcuni magistrati giunsero a cancellare le prove e ad annullare le richieste della Procura, impedendo in tal modo che i processi arrivassero all’Ufficio Istruzione. Le indagini portarono a conoscenza di un giro di affari, tra l’Italia e gli Stati Uniti, di droga, armi, riciclaggio di denaro sporco attraverso l’acquisto di immobili, insomma una vera e propria holding internazionale gestita dalla criminalità organizzata.

Il secondo atto si apre con la decisione del tribunale supremo della mafia di colpire l’integrità morale dei magistrati ma, essendo Costa, Chinnici, Falcone e Borsellino figure integerrime, questa operazione non portò alla mafia nessun risultato. Una volta fallito questo tentativo, la risposta della criminalità organizzata furono le bombe del 1993, esplose nei luoghi simbolo della tradizione culturale italiana e occidentale, un avviso lanciato dalla mafia ai vertici dello Stato e della Chiesa. L’inchiesta della FBI denominata Pizza Connection evidenziò i legami tra le associazioni a delinquere americane, italiane e sudamericane, individuando in tal modo una vera organizzazione internazionale criminale. L’inchiesta italiana portò alla luce finanziamenti occulti anche ai maggiori quotidiani italiani, e rilevò come già negli anni ’80 l’indipendenza del sistema della comunicazione fosse in gran parte compromesso. Purtroppo il comportamento dei media italiani in quel periodo fu una delle pagine più nere della vita repubblicana, nondimeno tutti i partiti politici da destra a sinistra furono estremamente ostili all’azione dei magistrati, questo perché una parte del loro finanziamento ebbe origini illegali.

Il terzo atto è la pronunzia della sentenza di morte da parte del tribunale supremo della mafia nei confronti dei magistrati palermitani, resa ancora più inquietante dal senso di abbandono che essi provarono durante gli ultimi momenti di vita. Sostenuti solo dalle rispettive famiglie videro allontanarsi uno ad uno prima gli amici, poi i colleghi, infine lo stato, fino a giungere al drammatico epilogo della morte, quando la vittima indifesa venne consegnata al proprio carnefice, la mafia. Ma è una vittima che, nella morte, scrive una sua storia: l’indistruttibilità dell’ideale morale, del senso della dignità umana, nonostante il sangue e l’inganno. È la storia di un mito. E, per questa ragione, Carlo Rossetti, cercando di comprendere la vicenda, esplora anche il mondo del mito e del sacrificio. La morte di Falcone è un sacrificio moderno. Il sacrificio non è scomparso dalla nostra società.

L’originalità de Il teatro della giustizia sta nell’aver utilizzato il paradigma della tragedia per rappresentare il significato dell’opera di un giudice, e i valori fondamentali che l’hanno guidata. Una visione tragica, che ricorda i profeti ebraici della Legge, morti per non tradirla, e che si fonda, in Falcone, nella religione costituzionale, una visione laica e non negoziabile, per la quale il giudice accetta anche la morte. La Legge suprema assume un significato messianico, suggellato dal sacrificio della vita, dalla Bewärhung, dalla “prova”, come direbbe Max Weber. La morte non è la fine di un

individuo: come il mito greco, essa genera una tradizione, un’epica che diventa patrimonio collettivo, nel ricordo o memoria.

Alberto Bernini Università di Parma

Nel documento ISLL Papers Vol. 3 / 2010 (pagine 195-198)