polemica civile, satira di costume
3.3 Momenti di una drammaturgia
3.3.2 Un caso clinico (1953)
26 Y. PANAFIEU, Thanatopraxis, «Cahiers Dino Buzzati», n. 1, 1977, p. 130. 27 N. GIANNETTO, op. cit., p. 92.
Un caso clinico è la pièce più nota e forse più apprezzata di tutta la
produzione; summa di temi e luoghi peculiari, contiene spunti surreali, inglobati in una struttura in cui l’elemento assurdo è la chiave di lettura di una vicenda presentata con una veste linguistica a tratti straniante. La bibliografia in merito supera quella di altri drammi, e molti dei significati e dei meccanismi drammaturgici sono stati variamente messi in rilievo.28 In questa
sede, dunque, vorrei fermare brevemente l’attenzione su quei richiami al contesto sociale dell’epoca (ma attualissimi anche nel nostro secolo, in cui determinati fenomeni hanno visto un’ulteriore accentuazione) che intrecciano la parabola esistenziale di Giovanni Corte, vittima della malattia e della morte, con la perversione di una società “globale” che tende a schiacciare l’individuo all’interno di un processo di “massificazione” per trasformarlo in mero oggetto di mercato.
La storia di Giuseppe (poi ribattezzato Giovanni) che entra in una rinomata clinica per «una leggera forma incipiente»29 convinto di uscirne presto e viene
trattenuto dai medici con menzogne di cui si renderà conto troppo tardi, fino ad essere travolto e stritolato dai meccanismi di questo luogo singolare (in cui i malati sono disposti nei sette piani a seconda della gravità del male), era già al centro della novella Sette piani.30 La malattia, di fronte alla quale la
28 Si possono confrontare, tra gli altri, i seguenti contributi: S. D’AMICO, “Un caso clinico” al
Piccolo Teatro di Milano, «Il tempo», 22 maggio 1953; [R. DE MONTICELLI], “Un caso
clinico” di Dino Buzzati, «L’illustrazione italiana», giugno 1953, n. 6, p. 49; G. Marcel, Le théâtre. Un cas intéressant, «Les Nouvelles Littéraires», 24 marzo 1955. Io ho scritto invece
una recensione sullo spettacolo Sette Piani (realizzato nel 2006 dal Teatro Stabile di Verona, protagonista Ugo Pagliai), in cui ho tentato di porre in evidenza alcune sfumature del testo. Cfr. S. MAZZONE, “Sette piani”: un esempio di riscrittura teatrale in chiave moderna, «Studi
buzzatiani», XII, 2007, pp. 169-178.
29 D. BUZZATI, Sette piani, in ID., I sette messaggeri, Milano, Mondadori, 1942, p. 33.
30 Si noti la ricorrenza del sette presente nei titoli Sette piani, I sette messaggeri o nella novella Cevere, della stessa raccolta, in cui il protagonista ogni sette anni risale il fiume a prendere i morti e a condurli nell’oltretomba. Il numero, emblematico, ritorna in diversi momenti pregnanti della produzione narrativa e drammaturgica: si pensi al doppio sette che il protagonista di Un amore riconosce nella crepe del soffitto; o ancora alla prima battuta della pièce La telefonista: «Sìssignore, sette caffè, uno macchiato, uno lungo, gli altri
posizione sociale, il denaro, l’astuzia non hanno alcun senso e non riescono ad eludere il tragico destino dell’uomo, viene mostrata in entrambe le versioni come condizione che distrugge la libertà, lasciando l’individuo in balia della sofferenza e degli inganni di altri individui. L’assurdo costume sociale che tende a nascondere la realtà per un frainteso senso di pietà, si coniuga alla satira sulla categoria dei medici, portatrice non di conforto o aiuto, ma di inganno: sembra quasi lo strumento assoldato dalla morte, il carnefice che esegue, fingendosi amico o burlandosi apertamente del malato, una volontà superiore.
CLARETTA Lei è un ragazzo veramente! Un ragazzo che si spaventa per i nostri camici bianchi!... Su su, dov’è l’uomo d’azione? Il capitano d’industria, il generalissimo nelle battaglie della vita?... Il generalissimo è pallido… il generalissimo vuole scappare! Il generalissimo fa i capricci come un bambino… [...] Guardi guardi che giornata splendida… È una giornata questa da chiudersi in ospedale?... Ascolti ascolti il rombo della città che lavora e si affanna… le automobili, i tram, le sirene, i macchinari, i treni, le turbine, le gru, i camion… e in mezzo anche le voci dell’uomo, le grida, le canzoni i pianti le risate…31
normali» (D. BUZZATI, La telefonista, cit., p. 592). La ricorrenza del sette rappresenta in
Buzzati il retaggio degli studi classici e della passione per l’egittologia (insieme all’amico Arturo Brambilla si divertiva a comporre poemetti dedicati agli dei egizi) e costituisce uno di quei “luoghi” concreti della scrittura che aprono ad una dimensione fantastica e fortemente evocativa. Presso gli antichi egizi il sette era il simbolo di vita eterna, rappresentava un ciclo completo, la perfezione dinamica; lo ritroviamo nella tradizione greca a partire da Pitagora fino ad arrivare a quella giudaico-cristiana, in cui incarna la totalità dello spazio e del tempo, unione del pari e dispari: è cielo ma anche Trinità, totalità dell’universo. Secondo un topos della letteratura spirituale rappresenta i gradi della vita mistica per raggiungere saggezza, equilibrio, felicità. Ippocrate scrive che «La forma del cosmo e delle sue singole parti è ordinata in questo modo: tutto deve esprimere necessariamente, nella forma e nelle determinazioni, il numero sette; anche l’embrione assume forma umana in sette giorni e il sette determina le malattie ed ogni corruzione che avvenga nel corpo. Così anche le altre cose si configurano, per natura, forma e perfezione secondo il numero sette» (IPPOCRATE, Sul
numero sette, in I presocratici. Frammenti e testimonianze, a cura di A. Pasquinelli, Torino,
Einaudi, 1958, p. 59).
L’elaborazione teatrale (che costituisce uno «sviluppo un po’ pedante della ben più fulminea e sincopata novella»),32 produce una dilatazione della storia
con l’inserimento di nuovi ambienti, personaggi e temi, in cui appare palese la volontà di una “riscrittura” attualizzante per il teatro più che una semplice trasposizione (che avrebbe potuto svolgersi nella misura dell’atto unico). Il racconto si apre con l’ingresso del protagonista nella misteriosa clinica, la commedia scava invece a ritroso nella vita del protagonista per mostrare la sua febbrile attività, il suo piglio leonino, la sua famiglia, e per lasciare che lo spettatore possa udire la “voce”: il terribile il richiamo della morte, che si manifesta in ufficio sotto le sembianze di una donna sconosciuta, poi in una figura che cuce «con estrema rapidità» nascosta dentro l’armadio di casa, infine nelle misteriose e indecifrabili ombre che compaiono in sogno. Proprio questa voce indurrà Giovanni a consultare uno specialista, e da lì avrà inizio il surreale calvario descritto nella novella. Dalla stesura del racconto, nel 1937, alla versione teatrale sono passati del resto sedici anni, ed il tema esclusivamente esistenziale della prima versione si coniuga con una satira sociale che rimarca apertamente le “crepe” del mondo contemporaneo: il dramma dell’uomo qualunque, vittima della malattia che lo porterà alla morte, viene inglobato all’interno di una diversa prospettiva e si trasforma nel dramma di una società che tende a stritolare l’individuo nel terrificante calderone del forsennato dinamismo e omologante anonimato. La trasformazione del titolo si rivela sintomatica. Nel ’52 Buzzati utilizza Sette
piani solo come punto di partenza per mettere in scena la storia che si sta
facendo: il protagonista rappresenta infatti per i suoi medici non un essere umano ma soltanto un «caso clinico», un oggetto da studiare.33 Il grande
32 P. PUPPA, Il teatro di Buzzati: modelli vecchi e stimoli nuovi, in Il Pianeta Buzzati, Atti del Convegno Internazionale (Feltre-Belluno, 12-15 ottobre 1989), a cura di N. Giannetto, Milano, Mondadori, 1992, p. 312.
33 «Corte qui, il y a quelque temps, se comparaît à un touriste (3°tableau), perd de fil en aiguille son individualité psycologique puor devenir un malade anonyme, un case cinique (5° tableau) et en fin de compte un homme angoisse» (C. SECK, Le theatre de Buzzati est il un
«capitano d’industria» che si crede immune alla sofferenza e padrone del proprio destino, nella nuova società tecnocratica non è che un tassello come lo sono tutti gli altri e anche lui, tanto sdegnoso dell’ingresso in clinica, dovrà piegarsi ed accettare di dissolversi nella massa, diventare un oggetto nelle mani dei medici. Lo stesso Strelher, che mise in scena questo agghiacciante quadro del mondo contemporaneo, volle leggervi «la storia della sconfitta di un uomo perché inesorabilmente travolto dall’ingranaggio di una società che mira soltanto a disumanizzare l’uomo, a fargli perdere i suoi connotati».34
Giovanni Corte, inserito con piena adesione all’interno di una società in cui l’imperativo categorico della produttività sembra aver cacciato ogni altra priorità, raffigura allora una delle tante vittime del “complotto” che sta colpendo tutta l’umanità e di cui egli stesso è paradossalmente uno degli artefici. Esslin definisce la pièce una «satira politica sulla rivoluzione totalitaria» e sottolinea come Buzzati ricrei
un’immagine terrificante della società nell’ospedale, con la sua rigida struttura, un’organizzazione impersonale che spinge l’individuo, facendogli fretta, sulla strada della morte, occupandosi di lui, provvedendo a tutti i servizi, ma nello stesso tempo un’organizzazione distaccata, obbediente alle regole, incomprensibile e crudele.35
34 G. STRELHER, Ricordo di Buzzati in D. BUZZATI, Teatro, pp. 588-589
35 M. ESSLIN, The Theatre of the Absurd, London, Anchor Books, 1961 (trad.it. Il teatro