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Il caso particolare di Hereford

Nel documento La guerra di Berto (pagine 46-54)

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Un caso particolare, all’interno di questi esperimenti democratici durante la prigionia, fu il campo di Hereford in Texas. Per una serie di concause infatti una gran quantità dei migliori intelletti dell’Italia del tempo furono riuniti laggiù. Il risultato fu un fiorire di iniziative di livello altissimo, che avrebbero avuto ripercussioni sulla vita culturale italiana post bellica.

47 […]

Nel nostro compound c’erano quattro gruppi di baracche. Ogni gruppo aveva una baracca dove c’erano le docce, i gabinetti e i lavatoi. Un’altra baracca era per la mensa che era curata da ufficiali e da soldati italiani col bernoccolo della cucina59.

Il campo era dunque pienamente attrezzato, anche se a metà ’43 risultava inutilizzato in molte delle sue parti. Questo contribuiva ad amplificare la solitudine dei prigionieri, come rileva Manzoni. Ma il 25 luglio ’43 la storia cambia, non solo in patria:

La quasi solitudine del primo mese (eravamo poco più di 100 nel compound degli ufficiali: meno di una compagnia e c’era lo spazio per quattro) si interruppe e si affollò il 25 luglio ’43.

Quella notte arrivò la seconda ondata: varie centinaia di prigionieri che – lo seppimo dopo – meno fortunati di noi avevano viaggiato su navi da carico, nelle stive, mangiando piuttosto male, e in convoglio.60

Tra questi “meno fortunati” c’era anche Gaetano Tumiati. Arrivato ad Hereford proprio il giorno della caduta di Mussolini, abbiamo riportato già in precedenza lo sgomento che la notizia portò tra i deportati. Il contraccolpo ovviamente si ebbe anche tra i prigionieri già in Texas.

Il pieno del campo coincise colla nascita della politica nel campo.

La sera del 25 luglio ’43 (in Italia era già il mattino del 26), i nuovi arrivati portarono i giornali che annunziavano la caduta di Mussolini. L’Italia e gli italiani cominciarono a dividersi e la divisione divenne un abisso coll’8 settembre ’43. Anche nel campo spuntarono gli “ante-marcia” dell’antifascismo, quelli “che l’avevano sempre detto”, anche se, fino al 24 luglio, ti facevano le scenate se, per distrazione, ti dimenticavi di gridare a pieni polmoni, “viva il duce”, quando qualcuno dava il saluto al duce.

Spuntarono anche, e fu peggio, gli “informatori” degli americani.61

59Giulio Bedeschi, Prigionia: c’ero anch’io. Volume primo, Mursia, Milano 1992, pp. 107-108.

60 Ibidem, p. 109.

61 Ibi.

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Gli informatori degli americani svolsero un ruolo fondamentale. Come abbiamo visto gli Alleati erano soliti portare avanti interrogatori ed indagini per accertare la fede politica dei vari prigionieri.

In un simile contesto la delazione dilagò. Alcuni ufficiali in particolare si affrettarono ad indicare agli americani i soldati fedeli e quelli sovversivi, nel tentativo di allestire al più presto un personale esercito per tornare in patria a combattere i tedeschi. Naturalmente queste segnalazioni risentivano di simpatie personali e avevano poco di obiettivo, ma tracciavano comunque un perimetro di privilegio che escludeva i cosiddetti non collaboratori. Questi erano, come già detto, un gruppo composito e molto variegato. Ad accomunarli però, il trattamento ostile degli americani. Basti per tutti il racconto di Manzoni:

Le spie. Qualcuno di costoro, di cui sospetto, anzi so, il nome, assunto “in forza” dal Comando americano per questa attività di spia, ce l’aveva particolarmente con me, considerandomi “Un duro”.

Mi creò una “fama” al Comando americano, per cui credo di essere stato uno dei pochissimi a cui gli americani non sottoposero mai, per la firma, la scheda per la collaborazione. Sapevano in anticipo la risposta. Un “vantaggio” che mi evitò perdite di tempo, purtroppo compensato dal fatto che costui, andato a finire al controllo della nostra posta, non mi fece mai arrivare, in tre anni, neppure una cartolina dall’Italia. L’unica lettera che ricevetti, il 15 gennaio ’46, alla vigilia del rientro in Italia, fu la lettera di un’amica, che mi parlava, tra l’altro, della morte di mio fratello Lucio nel bombardamento di Zoagli, e di mio padre, come di un fatto di molto tempo prima. Era, infatti, avvenuto il 27 dicembre

’43, oltre due anni prima. Seppi, così, della cosa.

Non so se l’unica lettera mi fu fatta arrivare apposta per la notizia che conteneva, o se, come collaboratore, il mio controllore postale era già entrato in Italia, prima del gennaio ’4662.

Questo aneddoto aiuta a comprendere il clima in cui arrivavano ad Hereford i “non collaboratori”.

La scelta ricadde sul campo texano per una ragione squisitamente geografica: Hereford si trovava nel cuore degli Stati Uniti, una zona molto isolata e facilmente controllabile. Così gli americani riunirono qui i non collaboratori, quanti avevano rifiutato di firmare o quanti erano stati indicati come sovversivi dagli informatori. Come detto, il campione presentava una grande varietà.

C’erano i “collettivisti”, un nucleo qualificato di intelligenze, che si iscrisse al partito comunista, al ritorno, senza rinnegare mai il “no” di allora.

62 Ibi.

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Tra essi, un giornalista di grande qualità, Giosuè Ravaglioli, due futuri deputati del PCI, Dello Jacovo e Selva, un giudice-scrittore come Troisi.

[…]

C’erano dei fascisti convinti, che poi aderirono alla Repubblica sociale, provenendo da altri campi di prigionia, come Gianni Roberti, poi deputato del MSI, e Luigi Deserti.

C’erano dei coraggiosissimi in guerra, come Mieville, sempre oscillante tra la rivoluzione proletaria e l’aristocrazia con venature di antisemitismo63.

Di certo non è facile immaginare il formarsi di assemblee, conferenze colte, giornali, spazi di arte contemporanea, artigianato, tra personalità così politicamente distanti. Ma tutti questi non collaboratori erano accomunati da uno spirito che trascendeva le velleità di partito.

Il sentimento che ci unì certamente tutti – soldati, sottoufficiali e ufficiali – al di là della politica e delle singole fedi, fu il rispetto di se stessi e degli ideali che, per tanti anni, ci avevano insegnato e avevamo imparato.

Non si poteva accettare che fosse “spazzatura” l’amor di Patria, un ideale per cui avevamo combattuto ed erano morti tanti fra noi. Una guerra perduta, dicevamo, è un episodio della vita di una Nazione, ma la perdita della dignità, il servilismo, il vilipendio degli ideali, distrugge l’anima di una Nazione e l’anima morta non si può più “recuperare”64.

Ma Hereford non sarebbe diventato una fucina culturale se non fosse stato per i tanti intelletti che lì furono ammassati in quei pochi anni. Manzoni ne fa una rapida panoramica:

Ci fu anche un fenomeno particolare di “sincronità acausale” per cui ad Hereford finirono alcuni dei più begli intelletti italiani del nostro tempo: Augusto Marinoni, che non è stato solo il principe dei leonardisti, ma è un fine uomo di lettere;

Mario Baldassarri, matematico geniale, di livello mondiale; Alberto Burri, un artista che ha segnato la nostra epoca;

Mario Medici musicista, poeta e narratore, che ha creato dal nulla l’Istituto di Studi Verdiani, in cui sono stati presenti i più grandi musicologi del mondo; Giuseppe Berto e Dante Troisi, che hanno tracciato, con fortune diverse, due vie della nostra letteratura; Dino Gambetti ed Ervardo Fioravanti, due maestri geniali, dal segno inconfondibile; Gaetano Tumiati, che fu anche il “maestro” di Berto65.

63 Ibidem, p.110.

64 Ibi.

65 Ibi.

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Lo stesso Tumiati racconta con perizia maggiore l’attività di quelli che nel campo furono definiti “gli intellettuali”:

Infine ci sono gli “intellettuali”, che hanno formato piccoli gruppi letterari, artistici o politici. I più felici sono i pittori, sempre intenti a schizzare i loro disegni su cartoni, pezzi di carta o addirittura sulle pareti interne delle baracche, come se quella fosse l’unica loro realtà. C’è Gambetti che disegna mazzi di fiori e promontori affacciati sul mare della sua Liguria; Alberto Burri, un medico umbro, schivo e malinconico, che popola colline e uliveti di personaggi piccolissimi;

Gioriz, un architetto ferrarese, che disegna sagome surrealiste di donne nude con grandi occhi spalancati al posto dei capezzoli; Ervardo Fioravanti, un sottocapomanipolo della Milizia, diplomato alla scuola di Urbino, che traccia grandi sagome di braccianti padani, pieni di rughe e coi pantaloni larghi e cascanti.

È unico, Fioravanti. Oltre a disegnare, scrive poesie e difende cause impossibili, utopie egualitarie, tesi campate in aria con un vocione profondo, in netto contrasto col suo fisico minuto, da fraticello francescano. Ha trent’anni – cinque più di me – ma per il suo candore e per il fatto di essere prigioniero fresco fresco – lo hanno catturato a Pantelleria – noi

“africani” lo consideriamo un fratello minore.

Insieme con Dante Troisi, un sottotenente dei reparti sahariani, ha addirittura fondato una rivista, “Argomenti”, che esce in unico esemplare, con i vari articoli stesi in bella copia da volontari amanuensi. Al contrario di Fioravanti, Troisi incute soggezione, anche se ha soltanto ventidue anni. Barba bionda, occhiali, fronte perennemente corrugata, che parli della guerra o della mensa, di filosofia o della sua famiglia contadina a Tufo, in provincia di Avellino, ha sempre il tono pensoso e grave di chi si interessa soltanto ai massimi sistemi.

[…]

C’è poi il “Giornale parlato”, forse l’iniziativa più azzeccata per vincere la noia delle giornate sempre uguali. Chi conosce bene un argomento tiene una specie di conferenza e gli altri lo ascoltano seduti in massa sull’erba. Il primo esperimento ha ottenuto un successo strepitoso a causa del tema: un capitano medico ha illustrato il metodo anticoncezionale Ogino-Knaus, di cui ignoravamo perfino l’esistenza66.

Fino a qui è omesso il nome di Berto, che degli ospiti di Hereford fu certo quello più ricordato. Il suo successo, dopo il rimpatrio, oscurò quello degli altri. Già durante la reclusione però in molti si accorsero del suo potenziale, anche se all’epoca non lo aveva ancora del tutto dimostrato. Manzoni cita giustamente Tumiati come il suo “maestro”. Di certo il loro rapporto fu profondo e

66 Ibidem, p. 51.

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fondamentale per la crescita di Berto innanzitutto come uomo e poi come scrittore. L’esperienza del campo fu decisiva per far nascere in lui lo scrittore, è vero, ma il segno di una personalità fuori dal comune era in lui già presente. Questo si evince piuttosto chiaramente dal racconto che Tumiati fa del loro primo incontro, avvenuto appunto in occasione di un “giornale parlato”.

La seconda edizione ha avuto come protagonista un capomanipolo biondo, dal viso scavato, che recitava alcune poesie di D’Annunzio. Dato che si trattava di un ufficiale della Milizia, pensavo che avrebbe recitato e commentato poesie di guerra, per esempio Ode a una torpediniera, che faceva luccicare di compiacimento gli occhi di mio padre quando me la provava per assicurarsi che l’avessi imparata bene , ai tempi del ginnasio. «Naviglio d’acciaio, dritto veloce guizzante, bello come un’arma nuda…» Invece il capomanipolo ha parlato di Alcione, del Poema paradisiaco, poi ha letto alcune poesie garbatamente, senza eccedere, con una voce un po’ nasale, da adenoideo, e ha concluso in bellezza con Novilunio di settembre. Era tanto suggestivo che mi è venuto di alzare gli occhi, per vedere se anche in questo immenso cielo del Texas – siamo quasi in settembre, ormai – ci fosse una falce di luna sottile «come il sopracciglio di una fanciulla». Alla fine applausi non dico da Ogino-Knaus ma quasi.

«Chi è quel capomanipolo?» ho domandato a Troisi.

«Lo conosco appena. Si chiama Giuseppe Berto. Battaglione del console Ariano».

Quando la folla si è diradata è rimasto un gruppetto di sette od otto prigionieri che discutevano animatamente se fosse meglio il D’Annunzio delle poesie epiche o quello del Poema paradisiaco. Un capitano di fanteria con il pizzo, che evidentemente preferiva le poesie di guerra, si è messo a recitare con voce tonante:

Siamo trenta d’una sorte E trentuno con la morte Se non torna uno dei trenta Torna quella del trentuno Quella che non ci spaventa.

Ho guardato Berto. Sorrideva, anzi quasi rideva scoprendo le gengive, gli occhi azzurri gli scintillavano di pagliuzze ironiche. Quando il capitano ha finito, lui a bassa voce, in contrappunto, ha cominciato:

Vieni, usciamo

Il giardino abbandonato…

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Quasi scoppiava un litigio. Ha messo pace un tenente dei reparti sahariani, Aurelio Manzoni, piccolo, una gran testa da intellettuale; sosteneva che si trattava di due momenti diversi: le poesie di guerra riflettevano uno stato d’animo ante-coitum, le altre post-coitum.

Io non sono intervenuto, un po’ per timidezza, un po’ perché D’Annunzio mi sembra un poeta lontano. I miei autori preferiti sono gli americani che leggevo nel ’39, prima del servizio militare: Steinbeck, Caldwell, Faulkner, Hemingway, Dos Passos, Thornton Wilder, quello della Piccola città, oltre – l’ho già detto – a Saroyan che conosco quasi a memoria.

Quel capomanipolo delle Camicie Nere che preferiva le poesie estenuate a quelle impetuose e roboanti mi era così simpatico che il giorno dopo, vedendolo passeggiare tutto solo lungo il reticolato, mi sono unito a lui dicendogli che condividevo le sue opinioni sulla disputa della sera precedente.

Sorridendo in quel suo strano modo mi ha detto: “Già, già”.

Poi, trascurando completamente il problema D’Annunzio, ha cominciato a raccontarmi la sua vita, come se ci conoscessimo da tempo. È di Mogliano Veneto in provincia di Treviso e mi ha sorpreso confessandomi per prima cosa che lui, dai diciott’anni in poi – ora ne ha ventotto – è sempre stato innamorato, con intervalli brevissimi tra una ragazza e l’altra, o anche senza intervallo, sovrapponendo la nuova alla precedente nelle fasi di trapasso.

“Penso che qui sarà difficile potersi innamorare. Questo è il guaio!”, mi ha detto.

Ha aggiunto che nella vita ha sempre desiderato fare qualcosa di straordinario, appunto al fine di attirare l’attenzione di qualche ragazza, soprattutto quelle di Venezia che lo guardavano dall’alto al basso perché, sebbene laureato in lettere, era sempre uno della “terraferma”, di campagna.

Per raggiungere in qualche modo fama e grandezza, nel ’35 è andato volontario in Africa Orientale, c’è restato quattro anni, si è preso una medaglia d’argento e ha trovato modo di innamorarsi di una infermiera e di una giovanissima abissina. Poi è venuto volontario anche in questa guerra dove purtroppo non ha fatto in tempo ad innamorarsi né ad aggiungere altre glorie a quelle precedenti perché, poco dopo il suo arrivo in Libia, lo hanno fatto prigioniero.

Scherza dolcemente su tutto, anche sulla sua medaglia d’argento. “Sai dove mi hanno ferito quella volta? A un calcagno.

Non che stessi scappando, ma un calcagno è sempre un calcagno. L’unica consolazione è il precedente di Achille. Anche lui nel tallone, poveretto”.

Mentre camminavamo lungo il reticolato il sole stava tramontando all’orizzonte della prateria. Berto ha voluto che ci sedessimo e che restassimo in silenzio a guardarlo fino a che l’ultima goccia incandescente è scomparsa. “Hai visto?”, mi ha fatto notare dopo qualche secondo. “Siamo ai primi di settembre, manca poco all’equinozio e il sole è tramontato esattamente tra il primo e il secondo palo a sinistra della torretta delle sentinelle. Domani tramonterà un po’ più in là e il giorno dopo ancora più in là. Bisognerà aspettare un anno esatto prima che tramonti nella stessa posizione di oggi.

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In quel momento ho inteso due cose: che io e Berto ci saremmo intesi e che in questo campo resteremo molto tempo:

mesi, forse anni67.

Oltre a tracciare la forte personalità di Berto, questo estratto permette di entrare nella sua vicenda personale prima della prigionia, uno strumento indispensabile per capire fino in fondo la genesi di un libro come Il cielo è rosso.

67Gaetano Tumiati, Prigionieri nel Texas, cit., pp. 52-55.

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Nel documento La guerra di Berto (pagine 46-54)

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