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FILOSOFIE PUNITIVE E ASSETTI PENITENZIARI: 1975-1997

3. Le causali in ombra

Per rendere meglio intelligibile il processo appena descrit-to e i suoi terminali, tuttavia, occorre riflettere su alcuni nessi causali spesso lasciati nell’ombra.

La crisi del diritto penale e il declino delle funzioni asse-gnate alle istituzioni segregative, che datano perlomeno alla fine dell’Ottocento, sono alla base tanto dei progetti di abo-lizione, decarcerizzazione, flessibilizzazione, depenalizza-zione etc. quanto dei progetti di accentuadepenalizza-zione della pres-sione penale. Addirittura, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, in non rari casi decarcerizzazione e incarcerizza-zione hanno figurato come due lame dello stesso processo di nor-mazione della devianza e di razionalizzazione della pena detentiva.

In Italia, il diritto penitenziario dello Stato democratico agisce all’ombra di un diritto penale in crisi e a fronte di un’ istituzione carceraria i cui outputs risultano essere sfasati dagli inputs funzionali e finalistici che hanno l’ambizione di

39 G. Mosconi, La controriforma carceraria, “Dei delitti e delle pene”, n. s., n. 2, 1991, pp. 150-151.

modellarla e governarla. Come abbiamo avuto ampiamente modo di osservare, dal dopoguerra in avanti, tutti i tentativi di venire a capo di queste contraddizioni e di queste disfun-zioni sono sistematicamente falliti. Il che ha delineato e tut-tora mantiene desto un acuto conflitto:

1) da una parte, troviamo collocato chi vuole allargare

in maniera graduale le “maglie di garanzie” dell’ordigno penalistico;

2) dall’altra, troviamo schierato chi ambisce alla

disso-luzione integrale degli “ambiti di garanzia”, fino ad affermare un modello di “diritto di punire” codificato

come compressione assoluta delle libertà e

dell’autonomia dell’indiziato, ancor prima che

dell’imputato e del detenuto.

Ovviamente, tra questi due poli limite si situano posizioni intermedie, oscillanti ora verso l’una e ora verso l’altra pola-rità, a seconda delle circostanze, dei casi e della situazione storico-politica.

Proprio perché il conflitto è rimasto confinato entro que-sto circuito culturale anguque-sto, le forze della sinistra politica e sociale non sono state in grado di proporre una via di uscita dalla crisi del diritto penale borghese e delle sue aporie con-temporanee. Col risultato che oggi, nel panorama non sol-tanto nazionale, registriamo il prepotente ritorno in scena di Moloch, sotto forma di teorie della pena e della reclusione ultra-autoritarie. Il “realismo criminologico” americano degli anni ‘70 e ‘80 è stato il consistente propellente culturale di tale ritorno.

Componenti significative del campo garantista, di fronte a questo ritorno, hanno inteso adottare scelte pragmatiche, ammorbidendo via via le loro richieste, nella speranza di fronteggiare l’ondata autoritaria. Ciò si è rivelato:

1) perdente sul piano politico: perché il gioco al ribasso

della mediazione politica consegna l’iniziativa nelle mani dell’avversario, perennemente inseguito e mai spiazzato e anticipato;

2) esiziale sul piano culturale: perché le filosofie

non sono state sottoposte alla necessaria e non più differibile rimessa in discussione.

La teoria-prassi della “mano forte” nella repressione pe-nale non è altro che lo scarno e crudo riconoscimento della durezza della zona del conflitto nel campo della sanzione penale e della pena detentiva. Zona tanto aspra da essere, ad un tempo, evocata, esorcizzata e demonizzata con co-stanti campagne di allarme sociale, tese a dare uno scosso-ne all’immaginario collettivo, alle coscienze e all’opinioscosso-ne pubblica.

La manovra contro il sistema delle misure alternative alla pena e l’inasprimento delle condizioni di accesso agli stessi “benefici premiali” predisposti dalla “legge Gozzini” ha preso le mosse (appunto) da campagne di panico sociale sapiente-mente alimentate, prendendo a pretesto e montando ecla-tanti casi di cronaca giudiziaria.

È opportuno ricordare che alla base del decreto-legge 324/1990 e di tutti i successivi decreti vi sono irrisorie per-centuali di inottemperanza della norma. Fotografiamo in dettaglio la situazione a tutto il primo semestre del 1990:

beneficio numero totale numero evasi percentuale evasioni permessi premio 11.695 125 1,06% affidamento in prova 2.931 37 1,26% lavoro esterno 276 1 0,36% semilibertà 3.190 90 2,82%

Nostra elaborazione su dati dell'Amministrazione Penitenziaria

Come si vede, le percentuali di evasione sono irrisorie, largamente al di sotto della soglia fisiologica messa in pre-ventivo e agevolmente tollerata da tutte le altre nazioni eu-ropee, in cui si riconosce largo spazio alle misure alternative e ai princìpi di flessibilità della pena. Su questa base

empiri-ca avrebbero dovuto essere richieste più riforme, per cor-reggere le distorsioni e i limiti ancora presenti nella “legge Gozzini”; non già meno riforme o, peggio ancora, controri-forme come, invece, si è verificato nella realtà.

La campagna di allarme sociale suscitata, al di là della sua ridondanza strumentale, si rivela, dunque, una flagrante manipolazione e falsificazione della realtà. Essa ha presen-tato e rappresenpresen-tato l’universo carcerario come un “serra-glio di belve”, quando, invece, all’interno del sistema peni-tenziario italiano, dai primi anni ‘80 fino ai ‘90, si è assistito a un processo di grande e positiva trasformazione, con al centro l’azione e la mobilitazione dei detenuti. La presa di parola della “comunità dei reclusi” è stato l’elemento carat-terizzante della realtà del sistema penitenziario italiano per tutti gli anni ‘80.

Nel corso di questi anni, i detenuti sono divenuti titolari di una esperienza di trasformazione, dalla quale è scaturita una massa di domande nuove all’istituzione chiusa, agli o-peratori penitenziari, al sistema politico, alle istituzioni e al mondo della cultura. A queste domande, seppur ancora troppo contraddittoriamente, la “legge Gozzini” principiava a rispondere.

Notevole il numero delle cooperative e delle associazioni sorte in carcere negli anni ‘80 e autogestite dai detenuti. Cooperative e associazioni che spaziano in tutte le branche dell’agire e dell’essere sociale: dalla produzione artigianale e industriale ai servizi; dalla cultura all’arte e allo spettacolo. Un inedito fenomeno di associazionismo ha coinvolto fette crescenti di detenuti, allargandosi a macchia d’olio nel tem-po e nello spazio.

La proliferazione di queste forme di aggregazione e co-municazione tra i detenuti ha parlato del protagonismo di un soggetto sociale per l’innanzi ritenuto intrinsecamente inca-pace di esprimere valori positivi e a cui erano stati inibiti e interdetti adeguati spazi di azione, socializzazione e comuni-cazione.

Nel corso degli anni ‘80, all’interno del sistema peniten-ziario italiano si è consumata un rivoluzione culturale

discre-ta, eppure significativa e densa di implicazioni. I detenuti sono usciti dal sepolcro delle loro celle e hanno comunicato le proprie problematiche e le proprie ansie di liberazione.

La società, le istituzioni, il mondo culturale, l’immaginario collettivo sono stati spiazzati. Si è andato affermando un nuovo soggetto che ha posto una serie di domande nuove intorno al campo dei diritti e alle sfere di espressione della libertà personale e collettiva. I comportamenti di aggrega-zione che si sono affermati in carcere, non più assimilabili tout court alle logiche della prevaricazione, sono sfuggiti in-tegralmente ai vecchi e consunti codici interpretativi. La cu-pezza e la brutalità a cui si era soliti associare l’idea stessa e la realtà dei comportamenti dei detenuti ricevevano una clamorosa smentita sul campo.

Di fronte a questa “emergenza” positiva, logica e buon senso avrebbero voluto che mutassero i giudizi, le analisi e la mentalità delle istituzioni politiche e culturali verso i de-tenuti e le problematiche di cui essi sono sofferti depositari.

Così non è stato.

Istituzioni, sistema politico, mondo culturale e apparato dei media hanno fornito una risposta scomposta e perturba-ta.

Il detenuto che parlava, che si esprimeva, che comunica-va e socializzacomunica-va oltre il codice della violenza, ha “terroriz-zato” ancor più del detenuto a cui da sempre era stato ne-gato diritto di parola e di espressione.

La simulazione delle ragioni e delle cause della diffusione del panico ha funzionato da maschera che ha coperto e alte-rato la vera realtà del carcere e dei detenuti. Lo smisualte-rato potere discrezionale del giudice intanto alimentato, le logi-che pendolari e differenziate logi-che plasmano le teorie e prassi della flessibilità della pena sono state facilmente piegate alla messa in opera di uno scenario bellico, in cui ogni aspirazio-ne e aspettativa della “comunità dei reclusi” veniva brutal-mente frustrata e repressa.

Di fronte alla ininterrotta mobilitazione dei detenuti in tutti gli anni ‘80 e nei ‘90, ancora una volta, le forze della sinistra politica e sociale hanno perduto un’occasione

stori-ca, per aggredire il problema del carcere e della pena con ipotesi, strategie e prassi all’altezza dei tempi. Prigioniere dei paradigmi punitivi che le attanagliano sono, di nuovo, finite al rimorchio delle forze conservatrici, sposandone la progettualità.