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Cgil addio

Nel documento O Capitano, mio Capitano (pagine 80-84)

Il congresso del 1986

Di lì a poco Lama ritenne che fosse venuto il momento di passare la mano e di preparare la successione in vista del Congresso previsto nel 1986.

Nell’indicare chi dovesse dirigere la Cgil dopo di lui, Lama – ne siamo tuttora convinti – sbagliò completamente valutazione. Due erano i leader di maggior spicco: Bruno Trentin e Sergio Garavini. Ognuno di essi aveva ricoperto inca-richi prestigiosi e potevano far valere notevoli qualità. Anni indietro erano an-che stati amici, ambedue appartenenti alla tendenza ingraiana del Pci (Pietro Ingrao era il punto di riferimento dell’ala sinistra del partito). Poi, durante le ultime vicende si erano trovati su linee diverse: Trentin era stato alleato di Lama e attento, il più possibile, ai rapporti unitari; Garavini aveva rappresenta-to in Cgil le istanze più rigide del partirappresenta-to. Lama pensava che questi due perso-naggi di grande livello si elidessero reciprocamente e che nessuno dei due po-tesse succedergli. Lo lasciò intendere in una celebre intervista, affermando di non vedere figli nel gruppo dirigente della Cgil, ma solo fratelli. Trentin si comportò da signore. Garavini, piccato, passò a dirigere la Fiom. Dopo le di-missioni di Lama al suo posto fu eletto Antonio Pizzinato, il candidato desi-gnato proprio da Lama. Pizzinato ex operaio, grande capo del sindacalismo lombardo, amato dalla base, comunista di ferro (tanto che era stato cinque an-ni in Urss a studiare ed era stato costretto persino ad imparare la lingua), sem-brava l’erede ideale di Lama, il quale lo aveva portato in segreteria confederale prima di “lanciarlo” come suo successore.

L’insuccesso della successione

In verità, la soluzione si rivelò ben presto inadeguata. Pizzinato non era all’altezza del ruolo. Non ne aveva lo spessore culturale né le qualità umane.

Ma non erano questi i problemi più gravi. Se Pizzinato fosse stato saggio e

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consapevole dei suoi limiti certamente sarebbe rimasto in carica per molti an-ni, perché il gruppo dirigente avrebbe avuto nei suoi confronti un atteggia-mento leale e “protettivo”. Pizzinato, invece, rivelò ben presto caratteristiche diverse – e tutt’altro che modeste – da quelle che gli venivano attribuite. Co-minciò a mettere sotto accusa la sua organizzazione, denunciandone i ritardi nell’affrontare i cambiamenti. E magari aveva anche ragione. Ma Pizzinato somigliava ad un meteorologo che pretende di dare le previsioni del tempo terpretando le fitte dei suoi reumatismi. Il difetto stava, appunto, nella sua capacità di individuare le terapie. L’organizzazione, allora, era costretta ad in-cassare prediche sempre più frequenti ed agitate che finivano a “coda di pe-sce”, quando c’era da “dare la linea”. Dietro le sfuriate del segretario generale si sentiva il pensiero e la mano del suo ghost writer (Bruno Roscani). Tanti lea-der hanno persone che gli preparano i discorsi: guai però se la gente capisce che sono loro a guidare, nei fatti, il personaggio politico. Nel caso di Pizzina-to, poi, anche “l’eminenza grigia” non era certo quanto di meglio “passasse il convento”. Nei primi tempi, il nuovo segretario colpì l’opinione pubblica. Di-ceva delle cose originali. Denunciava, per esempio, che la grandissima parte dei lavoratori era occupata in aziende piccole e piccolissime, mentre il sindaca-to pensava solo alle grandi. Ma quando gli si chiedeva come si potesse supera-re questo gap, Pizzinato rispondeva che le struttusupera-re sindacali dovevano procu-rarsi dei camper e andarsene in giro alla ricerca dei lavoratori sparpagliati nel territorio. L’idea procurava un titolo vistoso sui giornali e, magari, qualche ap-prezzamento di base verso un dirigente che attaccava i burocrati chiusi nei lo-ro uffici. Ma la “rivoluzione” si fermava a quel punto. Chi scrive si accorse ben presto dei limiti di una direzione siffatta ed ebbe a dichiarare alla stampa – al cospetto di una delle tante uscite inutilmente palingenetiche di Pizzinato – che in realtà più che di una “rivoluzione” si doveva parlare di una “rivolta”.

Avevo parafrasato all’incontrario una frase di un ministro di Re Luigi XVI alle prime avvisaglie della Rivoluzione francese. Dubito che la finezza sia stata compresa, ma i giornali raccolsero quasi tutti la battuta. E Pizzinato si arrab-biò. Perché il personaggio era anche permaloso e vendicativo: la sua era una bonomia del tutto di facciata. Per farla breve, la situazione divenne ben presto insostenibile. Dopo due anni, Pizzinato si dimise dalla carica di segretario ge-nerale (pretese però di restare in segreteria) e la Cgil fu costretta ad impegnare i gioielli di famiglia, chiamando a succedergli Bruno Trentin.

Lo straniero a Botteghe Oscure

Lama, nel frattempo, era passato al partito, dove lo avevano incaricato di diri-gere la commissione per il programma (i comunisti, anche quando sono “ex”, elaboravano un documento programmatico con lo stesso zelo e frequenza con cui i cattolici si sottoponevano agli esercizi spirituali). Un compito a cui non era adatto, perché Luciano era una persona pratica, operativa, incapace di pro-gettare scenari. Lui sapeva svolgere benissimo quel ruolo di mediazione che è essenziale alla direzione politica, ma non era certo in grado di amministrare

“l’insostenibile leggerezza” delle ideologie. Per tutta la vita le sue parole erano state “la linea”. Così fu accusato di non aver predisposto il programma. Si di-fese dalle critiche nel suo intervento al Congresso di Firenze, il primo dopo la morte di Enrico Berlinguer e dopo l’elezione di Alessandro Natta alla segrete-ria (si era parlato anche di Lama come possibile candidato a succedere al se-gretario defunto). Non aveva ben calcolato i tempi del discorso (Lama era abi-tuato a parlare per tutto il tempo che ritenesse necessario). Così venne richia-mato più volte dalla presidenza. A far notare che stava parlando più a lungo del previsto, fu Rinaldo Scheda – il suo vecchio avversario – il quale era passa-to al partipassa-to, senza troppa fortuna, da diversi anni. Lama lo aveva giubilapassa-to sbrigativamente. Così, in quell’occasione, Scheda, seduto in platea tra i delega-ti, aveva urlato: «Presidente, sta parlando più di tutti gli altri!». Non c’è nulla di peggio di continuare leggere un discorso, quando si viene costantemente ri-chiamati. Lama si scusò e si avviò alla fine. Ma ormai l’affronto era stato con-sumato. E Lama comprese che il suo mito era al tramonto; che quella non po-teva essere la sua nuova casa. Alle elezioni successive Lama venne eletto al Senato e ritornò in un ruolo istituzionale a lui più congenito e gradito. Fu vi-cepresidente vicario di Giovanni Spadolini.

Poi venne per Luciano l’ultima chiamata: primo cittadino del Comune di Amelia, dove si era ritirato portando con sé (come Garibaldi a Caprera) due sacchi di sementi.

Commiato

Termina qui, nel centenario della nascita in quella Romagna “solatia” che ne forgiò il carattere, il mio ricordo di Luciano Lama: una persona che ho amato come un padre, come un genitore di quelli a cui si dà del “voi”, verso il quale

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mi avesse in simpatia e, tutto sommato, mi stimasse. A lui ho dovuto gran par-te del mio “cursus honorum” in Cgil. Di me Lama diede un giudizio preciso ed azzeccato (me lo riferì Ottaviano Del Turco, anch’esso molto legato a Lucia-no): «Cazzola è in assoluto uno dei migliori quadri della Cgil: gli nuoce il fatto di essere bizzarro. È un “cavallo di razza”, ma di quelli che “rompono” il pas-so durante il percorpas-so. E perdono le corse, invece di vincerle». Lama aveva ra-gione. Non ho mai vinto un Gran Premio, ma ho galoppato, con onore, su tante piste diverse. So di essere – con Giorgio Benvenuto che mi ha onorato con la Prefazione – uno degli ultimi testimoni di un’epoca sbiadita come i da-gherrotipi dei suoi protagonisti. Per questo motivo ho avvertito il dovere del racconto: che è dolore al pari del silenzio.

Anni dopo la morte di Lama, Gianni Agnelli venne chiamato a Pistoia a commemorare l’avversario insieme a Sergio Cofferati. Il suo intervento fu pubblicato da Il Sole 24 Ore del 25 giugno 1997. È un discorso che dovrebbe essere letto nelle scuole. L’Avvocato più famoso d’Italia trovò una sola parola per definire il suo interlocutore d’altri tempi, il suo carissimo nemico: un ga-lantuomo.

Luciano Lama è un nome che forse non dice più nulla ai giovani di oggi. Ed è giusto che sia così, perché ogni persona è figlia delle proprie esperienze. Fin a quando avrò vita, però, mi riterrò fortunato di averlo conosciuto, di aver fatto parte del suo mondo e di aver goduto della sua amicizia. E, soprattutto, di aver potuto pronunciare alla sua morte le parole del poeta: «O capitano, mio capitano, alzati a sentire le campane». Per Luciano suoneranno finché il «sole risplenderà sulle sciagure umane».

Postfazione

Nel documento O Capitano, mio Capitano (pagine 80-84)