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LA CIRCOLAZIONE DEL PENSIERO ITALIANO

*

Modena e Bologna

Nel capitolo precedente abbiamo visto quali fossero le direttrici principali lungo le quali si muovevano gli studi condotti dallo Spaventa. A questo proposito abbiamo anche sottolineato che la eterogeneità dei temi poteva dare l’impressione che ci fosse da parte dell’ autore, un vero e proprio “accumulo” di interessi slegati tra loro, sebbene si fosse anche evidenziato che la generale impostazione hegeliana, a partire dalla quale questi studi venivano condotti, ne costituiva un elemento di unificazione. Si era poi deciso di soffermarsi sull’analisi dei testi anteriori al 1859; questa decisione è stata dettata da due ordini di motivazioni che potremmo definire: “biografiche” e “filosofiche”. Il 1859 rappresenta infatti una data fondamentale all’interno del percorso spaventiano; fu l’anno in cui, dopo numerosi e vani tentativi, il nostro autore riusciva ad ottenere la tanto desiderata docenza universitaria e fu anche l’anno in cui si cominciava ad osservare il progressivo confluire di quegli interessi slegati all’interno di una cornice che consentiva di riunirli ordinatamente nella formulazione di una vera e propria teoria dalla duplice natura: storiografica e filosofica. Avevamo anche accennato a quel progetto spaventiano che sembrava essere sotteso ai suoi studi e che eccedeva la semplice curiosità filosofica e storiografica: il tentativo cioè di mostrare la rintracciabilità dei principi dell’hegelismo nelle opere dei filosofi italiani sia rinascimentali che contemporanei. In questo capitolo si tenterà di

82 mostrare quale significato assumesse questo tentativo all’interno del percorso spaventiano soprattutto in riferimento alla sua militanza filosofica.

Il 27 Ottobre 1859 gli veniva comunicata l’assegnazione della cattedra di filosofia del diritto presso l’Università di Modena e in una lettera inviata al fratello, oltre a soffermarsi sulle questioni legate all’aspetto burocratico, commentava: “Considerate tutte le ragioni, ho deciso di accettare, e accetto. […] la pura speculazione già cominciava a dispiacermi”130; ed anche: “Credevo, dopo tanti anni di vita muta, di non ritrovar più la parola. Ma al contrario parlo facilmente e ho una voglia matta di parlare131”. L’entusiasmo dello Spaventa era evidente e giustificato se si considerano gli anni di tribolazioni che aveva vissuto sia dal punto di vista economico che lavorativo, a causa dei numerosi scontri avuti con gli editori delle riviste a cui collaborava per le sue idee, invise alla classe politica ed intellettuale del Regno sabaudo.

In ogni caso, l’ingresso nel mondo accademico dello Spaventa non smentì il suo percorso precedente; egli si dimostrò infatti fedele agli ideali che ne avevano caratterizzato fino a questo momento l’esperienza intellettuale e biografica. Il testo della Prolusione ai corsi universitari di Modena, infatti, sebbene non costituisca un documento di grande rilevanza teorica, ci consente di evidenziare proprio come, anche di fronte al nuovo ambiente istituzionale, egli non si esimesse dal toccare tematiche di chiara derivazione hegeliana; scelta azzardata, se si considera la profonda impressione che susciterà l’aperta professione di hegelismo dalle cattedre delle Università del Regno anche nel corso del decennio

130

B. Spaventa, Epistolario. 1847-1860, p. 252.

131

83 successivo. Infatti nell’incipit della prolusione, per chiarire preliminarmente la necessità degli studi filosofici (nei confronti dei quali continuava a pesare un generale clima di diffidenza), lo Spaventa utilizzava un’argomentazione imperniata sull’esposizione del percorso dialettico seguito dallo spirito per giungere alla Scienza che, in quanto ultima nel tempo, è prima in dignità ed essenza.

Quando io affermo che lo spirito nel passare da un forma della sua vita ad un’altra nega quella da cui passa, ciò non vuol dire che questa prima forma sia assolutamente annullata e sia ora come se non fosse mai stata. Tutt’altro. Così quando dico che l’uomo per cominciare ad essere veramente uomo, cioè rappresentarsi le cose come oggetti reali e parlare, deve negare se stesso come essere naturale, come animale non bisogna intendere che egli annulli il proprio corpo e con esso i cinque sensi che lo mettono in comunicazione con la natura. […] E così ancora, se vi dirò che per giungere a quella forma della vita che si chiama società civile e Stato, l’uomo deve negare quella che si chiama famiglia, non bisognerà credere, che perché ci sia lo Stato, non ci deve essere più la famiglia nel mondo. […] Se la forza negativa dello spirito dovesse essere intesa così, l’ultima soddisfazione per lui dovrebbe essere il nulla assoluto. […] Negare una forma per passare ad un’altra vuol dire, che la prima cessa di essere quella in cui lo spirito compendiava tutta la sua vita […]. Così o Signori, ciò che appariva come una pura e dolorosa negazione […], si dimostra come una vera conservazione. Non basta: diciamo la parola schietta: come un miglioramento ed un progresso. […] In tal modo lo spirito […] è un patrimonio che trasformandosi si arricchisce, e a far de’conti invece del vuoto assoluto, come temevamo, noi abbiamo l’assoluto pieno. Questa assoluta pienezza, o Signori, non è altro che la scienza.132

Nell’esposizione del percorso dialettico, lo Spaventa chiariva soprattutto il senso del meccanismo dell’Aufhebung, per cui negare una forma significa superarla in direzione della forma successiva; ma, allo stesso tempo, conservarla come quel momento anteriore in cui lo Spirito si era riconosciuto come presso se stesso.

132

84 Negazione insieme come conservazione che è la chiave del progresso: “le diverse forme non solo rimangono tutte, ma come parte e momenti di una forma superiore, vengono migliorate”133. L’assoluta pienezza che è il risultato di questo processo è la Scienza, la quale presuppone tutte le forme nelle quali si è manifestata l’attività dello Spirito.

Al di là di queste considerazioni preliminari questo documento risulta interessante soprattutto per due ordini di ragioni: in primo luogo per la presenza di un riferimento al Gioberti che consente di evidenziare l’avvenuto mutamento nelle posizioni dello Spaventa sull’autore torinese. Nel capitolo precedente avevamo visto che egli ne criticava soprattutto il concetto di creazione.

Gioberti […] parla di creazione, fonda tutto su quel principio, e non sa cosa sia creazione; la sua è produzione, semplice causazione, se posso dire così, non creazione. E infatti la Sostanza spinoziana non è che Causa. La creazione io l’ammetto, ma bisogna spiegarsi; solo lo Spirito è creatore, e creare è il concetto di produrre. L’Ente giobertiano non è spirito, non intelletto, checché egli ne dica: è pura Sostanza e Causa.134

Adesso, a distanza di poco meno di due anni, i termini sono notevolmente cambiati in positivo.

Quel divino pensiero della creazione […] nella sua verità organica, perfetta, assoluta ed eterna, come atto assoluto, identico assolutamente ed assoluta potenza, non è altro, o Signori, che Dio stesso. Esso è assoluta attività, e perciò assoluta realtà. […] Questo assoluto, che è Relazione assoluta, è raffigurata dal nostro maggior filosofo, specialmente nelle opere postume – e in ciò si accorda col nostro maggior poeta – ,come una infinita circolazione, che comincia e finisce eternamente in se stessa […]. Essere – dice il Gioberti – è pensare; pensare è creare; creare è rivelare se stesso. la creazione propriamente detta è dunque la

133

Ivi, p. 72.

134

85 rivelazione esterna di Dio […]. Perciò egli afferma arditamente che Dio è lo stesso che il Creatore; che è tale non solo rispetto al mondo, ma anche rispetto a se stesso […].135

Il secondo punto che mi sembrava opportuno mettere in evidenza riguarda la conclusione della suddetta Prolusione. Lo Spaventa, infatti, non si lasciava sfuggire la possibilità di esprimere quelle considerazioni di carattere politico che la materia trattata poteva suggerire. Hegelianamente lo Stato veniva considerato “la vera realtà del diritto”; e da qui lo Spaventa muoveva per spostare l’attenzione della platea su considerazioni legate alla contemporaneità:

[…] a questo aspiriamo noi italiani, ad essere uno Stato. Noi abbiamo la nazionalità naturale […] Abbiamo la nostra nazionalità come costume, come lingua, come arte, come letteratura, come sentimento e intenzione; ciò che ci manca è […] la nazionalità politica. L’avremo noi? L’avremo, se sapremo e vorremo.”136

In quegli anni ampio spazio verrà dato in generale al concetto di nazionalità, un concetto al cui chiarimento è direttamente legata, nell’ottica spaventiana, la buona riuscita del processo di unificazione. In particolare ciò sarà evidente, come vedremo, nella prolusione ai corsi napoletani che costituisce l’incipit del testo a cui viene comunemente associata l’esposizione della teoria della Circolazione: La

filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea.137

La docenza modenese dello Spaventa non durò a lungo; già l’anno successivo egli veniva chiamato ad insegnare Storia della filosofia presso l’Università di Bologna, dove il 10 Maggio 1860 lesse la sua prolusione dal titolo: Carattere e sviluppo

135

Ivi, pp. 77-78.

136 Ivi, pp. 84-85. 137

Il titolo non è quello originariamente apposto dallo Spaventa e fu assegnato all’opera dal Gentile.

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della filosofia italiana dal secolo XVI sino al nostro tempo. In questo testo

compaiono per la prima volta due elementi fondamentali all’interno del percorso spaventiano. In primo luogo troviamo utilizzata per la prima volta l’espressione “circolazione del pensiero italiano”, in quella che potremmo definire “una dichiarazione d’intenti”.

Ripigliare il sacro filo della nostra tradizione filosofica, ravvivare la coscienza del nostro libero pensiero nello studio dei nostri maggiori filosofi, ricercare nelle filosofie di altre nazioni i germi ricevuti dai primi padri della nostra filosofia e poi ritornati tra noi in forma nuova e più spiegata di sistema, comprendere questa circolazione del pensiero italiano […], sapere cosa noi fummo, che cosa siamo e che cosa dobbiamo essere nel movimento della filosofia moderna […] come nazione libera ed uguale nella comunità delle nazioni138.

In secondo luogo, nel momento in cui lo Spaventa indicava “le più gloriose stazioni che il nostro pensiero ha percorso”139, insieme ai nomi che avevamo già ritrovato nel capitolo precedente, ne compare per la prima volta un altro: quello di Vico, al quale si accompagnava un’importante dichiarazione storiografica che metteva bene in evidenza il carattere alquanto “estemporaneo” di questo inserimento.

Dopo Bruno e Campanella l’Italia per un intero secolo […] non produsse altro intelletto veramente filosofico che il solo Vico, e […] non ricomparve finalmente degna di se stessa che in Galluppi, Rosmini e Gioberti.140

A questo punto è possibile riconoscere perfettamente lo schema delle lezioni napoletane e della teoria della Circolazione. Per dichiarazione stessa dello Spaventa tuttavia, nel delineare questa breve storia della filosofia italiana,

138 B. Spaventa, Opere I, cit., p. 295. 139

Ivi, p. 296.

140

87 l’attenzione doveva essere concentrata soprattutto sull’ultima parte del percorso; nello specifico sul sistema di Gioberti, poiché in esso “si vede nella sua vera luce tutto il nostro passato e come in germe il nostro avvenire”141. Si tratta di un’affermazione molto interessante se si considera che il decennio precedente fu pressoché interamente dedicato al lavoro di analisi condotto sugli altri autori dell’ “aurea catena”, mentre il Gioberti, rappresentava, lo abbiamo visto, l’ultimo (in ordine cronologico) degli interessi del nostro autore. Una decisione di questo tipo aiuta a chiarire sia il punto prospettico a partire dal quale viene condotta l’analisi spaventiana (una prospettiva dichiaratamente a posteriori, che ricalca l’impostazione storiografica hegeliana); sia che l’obbiettivo dello Spaventa non era tanto quello di ritrovare i germi del pensiero italiano rinascimentale che avevano fruttificato nei sistemi successivi, quanto piuttosto, quello di riconsegnare l’Italia a se stessa, mostrandole ciò che doveva essere per inserirsi proficuamente nel dibattito con le altre nazioni. Il discorso spaventiano, dunque, appariva tutto proiettato in avanti.

Il pregio di Gioberti non è solo quello di comprendere in se stesso e riassumere Rosmini e quindi Galluppi, ma anche Vico, lo stesso Campanella e perfino Bruno142

Nelle parole dello Spaventa viene dunque tracciato un asse ideale tra Bruno e Gioberti infatti, “ciò che vi ha di grande ed immortale nel filosofo di Nola – il concetto della infinità reale di Dio o della rivelazione divina come natura – rivive e s’invera solo in Gioberti”143. Perché si comprenda il collegamento esistente tra questi autori nella loro interconnessione con gli altri rappresentanti della storia 141 Ibidem. 142 Ivi, p. 302. 143 Ivi, p. 303.

88 della filosofia spaventiana, è necessario innanzitutto rivedere il giudizio generale sulla filosofia di Bruno e di tutti quei filosofi ai quali si guardava ancora con sospetto; poiché “qui non si tratta d’inventar teoriche, ma solo di far parlare la storia; e la storia del pensiero umano, più che nelle sentenze de’ persecutori, è negli scritti delle vittime”.144

A Bruno e Campanella andava il merito della valorizzazione dell’elemento soggettivo e del finito, “da una parte l’autonomia dello spirito come intelletto e senso, e dall’altro Dio […] come infinito reale e vivente nel mondo”145. Questi principi si erano poi sviluppati nei sistemi di Cartesio, Locke e Spinoza, attraverso i quali si era giunti al materialismo settecentesco.

L’uomo era considerato o come puro arbitrio, […] o come un essere e forza puramente naturale e operante naturalmente. Quindi nel mondo umano […] o non si vedeva nessuna legge […] o la legge era la stessa legge naturale, e la vita delle nazioni e dell’umanità – la storia- era meccanismo come quella della natura. […] Pareva […] che il mondo, così il naturale come l’umano, fosse veramente abbandonato da Dio; Dio aveva fatto il mondo, ma Dio nel mondo non si vedeva affatto”146.

Per uscire dall’impasse occorreva superare i limiti dell’empirismo e del razionalismo, trovando nello Spirito, nella realtà cosciente, il problema della filosofia. È a questo punto che, nella ricostruzione dello Spaventa, si inserisce Vico, cui va il merito di “aver compreso questo concetto dello spirito come libero sviluppo di se stesso, e di averlo applicato alla spiegazione del mondo umano”147. Questo è il grande merito di Vico secondo lo Spaventa, l’aver posto un nuovo 144 Ibidem. 145 Ivi, p. 315. 146 Ivi, p.317. 147 Ivi, p.322.

89 problema, il problema del mondo umano non più considerato esclusivamente nella sua componente naturale; l’uomo di Vico è l’uomo storicamente determinato, e la sua essenza viva e reale si sviluppa e si manifesta nella storia e nelle istituzioni civili. La filosofia tedesca da Kant ad Hegel si era sviluppata, secondo lo Spaventa, in risposta all’esigenza, evidenziata per la prima volta proprio da Vico, di una nuova metafisica che fosse il fondamento della nuova scienza dello spirito. Kant è colui che ha distrutto la vecchia metafisica, ma solamente ad Hegel va il merito di averla sostituita con una nuova metafisica identica alla logica, una metafisica non più dell’Ente, ma dello spirito, del pensiero nella sua assolutezza. I nostri filosofi contemporanei (Galluppi e Rosmini) scambiarono queste nuove filosofie per psicologismo, per cui rifiutarono il criticismo come il tentativo di distruggere ogni metafisica. Solamente Gioberti è colui che riesce a superare questa situazione.

Gioberti riproduce, ma perfezionandolo e risolvendolo in un principio più alto, il realismo di Bruno, e d’altra parte fonda la nuova metafisica, desiderata da Vico. Nel tempo stesso soddisfa alle esigenze religiose di Campanella, di Galluppi e di Rosmini, non separando la fede e il sapere, ma riconciliandoli nella unità della scienza ideale.148

Gioberti rappresenta dunque il termine ideale del percorso della storia della filosofia italiana, il quale allo stesso momento compendia e conserva tutti i momenti precedenti149. Solamente la filosofia di Gioberti è in grado, secondo lo Spaventa, di riammettere l’Italia nella vita comune della filosofia in Europa; ma

148

Ivi, p. 327.

149 alla luce di ciò non sembra inopportuna la descrizione della storia della filosofia italiana dello

90 ciò non deve avvenire perché ci si cristallizzi ancora su delle posizioni filosofiche, per quanto innovative esse possano essere.

Non si tratta di accettarlo ciecamente in tutte le sue forme e proposizioni; ma di comprenderlo, di svilupparlo, di far fruttare tutto il bene che esso racchiude. Questo sistema più che un sistema, è un principio150

L’individuazione in Hegel e Gioberti del vertice massimo raggiunto dalla speculazione filosofica, non significava, dunque, che fosse legittimo fermarsi a quel punto; esso costituisce il punto di partenza dal quale muovere per procedere ad un suo ulteriore sviluppo (che non esclude, quindi, anche un eventuale superamento). Lo Spaventa si mostrava fedele alle sue posizioni, ma queste fedeltà, come è possibile osservare, non si trasformava in dogma.

Il rientro a Napoli

Anche la docenza bolognese ebbe vita breve; nello stesso 1860 lo Spaventa veniva infatti richiamato a Napoli dal nuovo Ministro della pubblica istruzione Francesco De Sanctis, per occupare la cattedra di filosofia teoretica. Commuovono le parole con cui accompagnava l’ingresso nella sua vecchia città:

Vedo il Vesuvio. Dopo dodici anni! Se tu fossi qua! Entro nel golfo di Napoli. Vedo Napoli e la riconosco. Lascio di scrivere per guardare.151

Il testo nato a partire da quell’esperienza (pubblicato dallo Spaventa nel 1862 con il titolo Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia nella Università di

Napoli, 23 Novembre-23 Dicembre 1861, e riedito dal Gentile con il titolo, più

150

Ivi, p. 332.

151

91 fruibile, de La circolazione della filosofia italiana nelle sue relazioni con la

filosofia europea152), ha un carattere del tutto particolare. In questo testo venivano raccolte tutte le direttrici degli studi compiuti dallo Spaventa fino a quel momento ed il risultato era, secondo il Gentile, l’esposizione dell’unica storia della filosofia italiana fino ad allora disponibile. Questa ricostruzione storica doveva costituire l’introduzione alle vere e proprie lezioni che avrebbe dovuto tenere in seguito presso quella Università e che dovevano essere non più di storia della filosofia, ma di filosofia teoretica. Savorelli riporta le parole dello Spaventa che accompagnavano la decisione di cimentarsi in questa esposizione “proemiale”, chiarendone il senso.

A Napoli Spaventa era stato incaricato di filosofia teoretica: «il mio ufficio qui» - spiegava in un abbozzo della prolusione - «è di esporre tutto il sistema della filosofia, e non la sua storia. Pure io sento e assumo l’obbligo volontario di giustificare questo sistema che d’altra parte ha in sé stesso la sua propria giustificazione, anche dal lato della tradizione nazionale», poiché «un sistema filosofico» senza storia della filosofia, è «come un albero senza radici»153

Si trattava quindi di una sorta di “propedeutica” che, secondo il Savorelli, avrebbe dovuto ricoprire la stessa funzione della Fenomenologia nell’economia del sistema hegeliano:

la storia delle figure della tradizione nazionale avrebbe dovuto occupare insomma il luogo di una fenomenologia in rapporto al sistema che egli si accingeva ad esporre -in forma molto personale- quello hegeliano: esposizione che lo impegnerà

152

Gentile definiva il titolo originale “troppo generico”, giustificando in questo modo la sua decisione di cambiarlo.

153

B. Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, (a cura di A. Savorelli), cit., pp. VI-VII. Per le citazioni spaventiane: cfr nota 3 dell’introduzione del Savorelli.

92 lungo tutti i corsi accademici degli anni successivi, e che risulterà a lung’andare decisiva per la conoscenza dell’idealismo tedesco in Italia.154

L’esposizione del sistema hegeliano doveva dunque essere preceduta da un’ “esposizione fenomenologica” della storia della filosofia italiana, allo scopo di fornirne una giustificazione dal lato della nostra tradizione nazionale. Ciò conferma le antiche posizioni spaventiane secondo le quali una fruttuosa introduzione dell’hegelismo in Italia sarebbe potuta avvenire solamente se si fosse dimostrata la sua non estraneità allo spirito filosofico nazionale. Proprio in quest’ottica va secondo me letto il contenuto di tale opera, come il tentativo cioè di rendere graduale e quindi non invasivo il passaggio all’hegelismo. Gentile, al contrario, tendeva a porre l’accento sulla valenza speculativa del testo spaventiano.

L’interesse storico, come lo sentiva lo Spaventa, non era diverso dallo stretto interesse scientifico. Il libro pare una polemica, ed è una ricerca; pare una mera storia, ed è una fenomenologia dello spirito, cioè vera e propria filosofia. […] in questo libro dello Spaventa, se si cancellassero i nomi dei varii filosofi menzionati,

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