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Città e sentimento sociale negli angusti circuiti esistenziali degli Ardengo Tra le righe di un succinto notiziario del numero de «L’Interplanetario» su cui fu

V ILLA A RDENGO

2.1 Città e sentimento sociale negli angusti circuiti esistenziali degli Ardengo Tra le righe di un succinto notiziario del numero de «L’Interplanetario» su cui fu

pubblicato il racconto Villa Mercedes, la redazione così si esprimeva:

Alberto Moravia, giovanissimo scrittore, collaboratore di “900” e nostro redattore, pubblicherà nei primi mesi del prossimo anno un fortissimo romanzo per i tipi di una casa editrice milanese. Ancora però non ne ha fissato il titolo, che sarà: Cinque persone e due giorni, oppure: Gli Ardengo, Lisa e Merumeci. Noi gli consigliamo il primo.245

Fu però su «900» dell’aprile del ’29 che il titolo definitivo del romanzo si affacciò da un riquadro pubblicitario delle edizioni Alpes di Milano e, con più dettagliata notizia, nel mese successivo:

Alberto Moravia ha sedotto in pieno un editore milanese. Il suo primo romanzo, atteso da molti anni, vedrà in questi giorni la luce per merito della casa Alpes. Titolo: Gli indifferenti.246

Non c’è da meravigliarsi se fu la rivista di Bontempelli ad annunciarne la pubblicazione: sulle origini de Gli indifferenti è lo stesso autore a datare una nota testimonianza, contestualmente alla sua collaborazione a «900»:

Partecipai un giorno a una riunione redazionale del “900”. C’erano, oltre a Bontempelli, la Masino, Marcello Gallian, Aldo Bizzarri, Pietro Solari, non ricordo altro: venne deciso che ciascuno di noi doveva produrre, entro un certo termine, un romanzo per motivi di linea culturale e di gruppo. L’unico che lo scrisse fui io: d’altra parte ci stavo lavorando da un pezzo.247

In effetti, Moravia attese al suo primo romanzo prima della pubblicazione di

Lassitude de courtisane nel ’27 e, precisamente, durante il periodo di convalescenza

245

Note ai testi, a cura di F. SERRA, in A. MORAVIA, Opere/1 cit., p. 1661, dove è accertata l’idea di un ulteriore titolo, La palude.

246

Ibidem. 247

a Bressanone, dopo che il giovane Alberto ebbe lasciato il sanatorio Codivilla di Cortina d’Ampezzo:

A Bressanone, nell’autunno del 1925, cominciai a scrivere Gli

indifferenti e cessai del tutto a comporre versi. Ero ormai troppo

indietro per continuare gli studi; così per tre anni dal 1925 al 1928 mi dedicai completamente a Gli indifferenti. Intanto, poiché la mia salute non era ancora del tutto ristabilita, vivevo in montagna, passando da un luogo all’altro, sempre in albergo.248

Dunque, dall’ottobre del 1925 sino al marzo del 1928,249 in una continuità di esperienze e di consonanze letterarie a ridosso della prima sua prova da romanziere, la scrittura de Gli indifferenti intercetta significativamente la sua attività di collaboratore e redattore ai fogli del novecentismo romano. Né viene meno, nelle pagine del romanzo, l’attenzione all’affresco culturale e politico della borghesia italiana di quegli anni, di un’élite che viveva di rendite e di speculazioni, capace di capitalizzare in breve tempo significative fortune finanziarie e immobiliari.

In questi anni, infatti, molte famiglie avevano costruito ville e grandi parchi, nelle aree a ridosso dei centri antichi, acquistando larghe porzioni di terreno dalle famiglie aristocratiche e patrizie sempre bisognose di liquidità.250 A riguardo, gli storici dell’urbanistica convengono nell’inquadrare l’inurbamento di decine di migliaia di persone nei primi decenni del Novecento con la spinta alla valorizzazione delle proprietà fondiarie urbane da parte dei ceti egemonici i quali, ritagliando e lottizzando porzioni di parchi e di giardini “storici”, o dei loro terreni attigui, prendevano a costruire un tessuto urbano nuovo, senza precedenti nella memoria abitativa in cui ci si andava ad inserire, avviando sopraelevazioni o demolizioni di ville, al fine di trasformarle in più villini o in un edificio con più appartamenti signorili, moltiplicandone così il valore e, quindi, il profitto per i proprietari.251

Gli anni del fascismo esaltarono questa visione proprietaria e speculativa, basata sulla rendita fondiaria. La borghesia urbana si andava trasformando in un ceto

248

Ivi, p. 1659. 249

A. MORAVIA, Ricordo de Gli Indifferenti, in L’uomo come fine cit., p. 10. 250

Cfr. P. SYLOS LABINI, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma-Bari, 1976. 251

sempre meno disponibile ad essere parte attiva delle responsabilità collettive, sempre meno innovativo e sempre più conservativo e autoriproduttivo; chiuso in se stesso, sordo alle dinamiche vive di una città moderna.252

Sebbene Moravia non abbia mai dichiarato di aver fatto opera di critica della cultura sociale ed economica del suo tempo, la lettura de Gli indifferenti, tuttavia, prepotentemente propone i caratteri di una dialettica tra nuovi ceti urbani emergenti (non facendo riferimento alcuno ad una città in particolare) e vecchia classe dirigente, rappresentati rispettivamente dal Merumeci e dagli Ardengo. Anzi, la ‘realtà’ della scrittura di Alberto Moravia ha forza, inizio e sviluppo, in un paradosso ideologico, null’altro relativo all’aver rappresentato, sul piano della coscienza artistica, la voce del suo stato intellettuale e, assieme, la critica antiborghese, quantunque lontani siano stati, dal tempo de Gli indifferenti, chiari i concetti o i presupposti classisti:

Se per critica antiborghese si intende un chiaro concetto classista, niente era più lontano dal mio animo in quel tempo. Essendo nato e facendo parte di una società borghese io stesso (almeno per quanto riguardava il mio modo di vivere). Gli Indifferenti furono tutt’al più un mezzo per rendermi consapevole di questa mia condizione. D’altra parte se avessi avuto quel chiaro concetto classista che ho detto non avrei scritto Gli Indifferenti. Non mi pare possibile scrivere un romanzo contro qualche cosa. L’arte è interiorità non esteriorità. Ho scritto Gli Indifferenti perché stavo dentro la borghesia e non fuori. Se ne fossi stato fuori, come alcuni sembrano pensare attribuendomi intenti di critica sociale, avrei scritto un altro libro dal di dentro di qualsiasi altra società o classe a cui avessi appartenuto.253

Sempre pertinente, a riguardo, la posizione di Edoardo Sanguineti:

La letteratura, oggi (come ieri) appartiene alla sfera della produzione metalinguistica di ideologie: le due cose fanno corpo tra di loro (per me vale sempre la dialettica di base: ideologia e linguaggio) […]. L’identità (dialettica) di ideologia e linguaggio, ripeto, è l’orizzonte entro cui si pone, oggi (come ieri) ogni questione culturale (nell’accezione antropologica del termine, ovviamente: e dunque con rinvio all’unità dialettica di politica e cultura); e ogni ideologia è, naturalmente, un sistema di valori, e dunque comporta modelli positivi (linguistico-ideologici, politico-culturali): questo è un dato di fatto,

252

Cfr. P.G. ZUNINO, L’ideologia del fascismo, Bologna, il Mulino, 1985. 253

non ci vedo niente di male (e, posto che male ci vedessi, non ci vedrei rimedio…).254

Nondimeno il romanzo, pur snodandosi principalmente all’interno di una

abitazione borghese, sposta anche, di tanto in tanto, l’attenzione ai luoghi fisici della città, agli scenari urbani nei quali i personaggi si muovono. Perfetto controcampo della villa, la città (e, talvolta, il quartiere) stabilisce con gli interni abitativi uno stretto legame descrittivo e di spessore più chiaramente politico, se non addirittura sociologico.

Cos’è, infatti, la descrizione della grande villa di famiglia, Villa Ardengo, se non l’apertura dell’autore al sentimento profondo tipico della borghesia redditiera urbana, ai suoi reiterati e rassicuranti riti di ex-classe dirigente (avendo abdicato da tempo ad esserlo)? Cos’è quel muoversi per circuiti angusti se non terrore della rottura delle proprie stereotipate relazioni sociali che, come gli specchi riflettenti del salotto, valgono ad esprimere la necessaria convinzione della continua conferma del proprio stato?

Il rango sociale della famiglia Ardengo è messo seriamente in discussione da una ipoteca che grava sulla villa e da un debito con Leo Merumeci che, famelico, attende il momento giusto, ovvero la scadenza dell’ipoteca per entrare in possesso della casa. Il rischio di perdere la posizione acquisita, terrorizza gli Ardengo di fronte alle avversità economiche che incombono. Che sono anche, in generale, difficoltà di tipo sociale.

Nient’altro che poche righe, che mai storicizzano la narrazione in modo evidente, segnalano, con indelebile marchio, lo sfondo collettivo di un’epoca. Ma tant’è: le strade e le piazze, sono gremite di folla, di gente che passeggia, di macchine e tram che fendono i passanti, di lavoratori in sciopero per mancanza di lavoro (di lavoratori, c’è da intendere, in parte iscritti ai partiti e ai sindacati di massa).255

254

G. SICA, Edoardo Sanguineti, Bologna, La Nuova Italia, 1974, p. 2; et naturaliter cfr. E. SANGUINETI, Ideologia e linguaggio, Milano, Feltrinelli, 1972.

255

«Silenzio; la paura della madre ingigantiva; non aveva mai voluto sapere di poveri e neppure conoscerli di nome, non aveva mai voluto ammettere l’esistenza di gente dal lavoro faticoso e dalla vita squallida. “Vivono meglio di noi” aveva sempre detto; “noi abbiamo maggiore sensibilità e più grande intelligenza e perciò soffriamo più di loro…”; ed ora, ecco, improvvisamente ella era costretta a mescolarsi, a ingrossare la turba dei miserabili; quello stesso senso di ripugnanza, di umiliazione, di paura che aveva provato passando

Moravia entra all’interno di questo arcipelago di borghesi di città, che vivono una loro vita separata e indifferente, prigionieri delle loro pulsioni individuali, quasi naturalistiche e animalesche, e delle loro irresponsabilità, fortemente urbane per il loro radicamento proprietario nel suolo delle città, ma, sostanzialmente, di nuovo inurbane, cioè portatori di abitudini aristocratiche.

L’oscurità domina, sia nel breve cammino attraverso il corridoio della villa sia all’esterno. E, come sempre, fuori piove. Carla, oggetto e preda dei pensieri degli altri personaggi, si muove con qualche sprazzo di disorientata vitalità. Mariagrazia sogna di sposarla bene, onde risolvere la grave crisi di liquidità che attraversa la famiglia. Leo progetta con cinismo di concupirla definitivamente, assicurandosi così, con poca spesa, una seconda giovinezza esistenziale. Michele sente le pulsioni confuse di dover difendere il nome e la rispettabilità delle donne della sua famiglia, ma la sua voce è afona e la sua convinzione incerta e involuta. All’interno della loro scatola ovattata si accingono così a percorrere la città per raggiungere i loro fini.

Per tutta la durata del tragitto nessuno dei quattro parlò; Leo guidava con abilità la grossa macchina tra la confusione delle strade congestionate; Carla immobile guardava trasognata il movimento della via, laggiù, oltre il cofano lucido, dove, tra due nere processioni di ombrelli, sotto la pioggia, i veicoli coi loro rossi lumi guizzavano da ogni parte come impazzati. Anche la madre guardava attraverso il finestrino, ma piuttosto che per vedere, per farsi vedere: quella grande e lussuosa macchina le dava un senso di felicità e di ricchezza, e ogni volta che qualche testa povera o banale emergeva dal tenebroso tramestìo della strada e trasportata dalla corrente della folla passava sotto i suoi occhi, ella avrebbe voluto gettare in faccia allo sconosciuto una smorfia di disprezzo come per dirgli: ‘Tu brutto cretino vai a piedi, ti sta bene, non meriti altro… io, invece, è giusto che fenda la moltitudine adagiata su questi cuscini’.256

La sequenza di immagini è impietosa: quelle interiori configgono duramente con quelle degli esterni. Carla imbambolata guarda senza vedere, attirata da infantili

un giorno in un’automobile assai bassa attraverso una folla minacciosa e lurida di scioperanti, l’opprimeva; non l’atterrivano i disagi e le privazioni a cui andava incontro, ma invece il bruciore, il pensiero di come l’avrebbero trattata, di quel che avrebbero detto le persone di sua conoscenza, tutta gente ricca, stimata ed elegante; ella si vedeva, ecco… povera, sola, con quei due figli, senza amicizie ché tutti l’avrebbero abbandonata, senza divertimenti, balli, lumi, feste, conversazioni: oscurità, completa, ignuda oscurità.», in A. MORAVIA, Gli indifferenti, in Opere/1 cit., p. 24.

256

piaceri. Mariagrazia, consapevole del suo stato, ancorché in difficoltà, marca con lo sguardo il suo territorio sociale e misura costantemente la distanza della sua classe con il popolo. Questo divario rigido e costantemente riaffermato è la sua unica, vera, certezza che il tempo corrente non avrebbe scalfito. Un rimedio alle difficoltà economiche del momento si sarebbe pur trovato. In fondo lei pensava di avere ancora un amante benestante. Ma, soprattutto, ha, come cosa sua, la figlia Carla, vero oggetto di scambio e di investimento per il futuro. Leo Merumeci, come un lupo tra le pecore, si muove con sapiente esperienza, aspettando il momento opportuno per fare più bocconi di quanto abbia intorno.

Vi fosse qui disegnato all’interno dell’autovettura anche Michele, saremmo di fronte a posizioni simili di Cinque sogni per «L’Interplanetario»!257 Ma il racconto del viaggio ‘in strada’ prosegue con pennellate illuminanti.

Soltanto Michele non guardava la strada, quello che l’automobile portava nella sua scatola sontuosa l’interessava di più, gli pareva che non ci fosse altro; l’ombra nascondeva le faccie dei suoi tre compagni, ma ogni che la macchina passava sotto un fanale, una luce vivida illuminava per un istante quelle persone sedute e immobili: apparivano allora il volto della madre dai tratti fiacchi e profondi, dagli occhi vanitosi; quello di Carla, il viso incantato e puerile della fanciulla che va alla festa; e quello di Leo, di profilo, rosso, regolare, un po’ duro, come quegli oggetti inspiegabili e paurosi che i lampi delle tempeste rivelano per un istante. Ogni volta che Michele li vedeva, stupiva di stare insieme con loro: ‘Perché sono questi’ pensava, ‘e non altri?’. Quelle figure gli erano più che mai straniere, quasi non le riconosceva, gli sembrava che una bionda dagli occhi azzurri al posto di Carla, una signora magra e alta al posto della madre, un piccolo uomo nervoso al posto di Leo non avrebbero trasformato la sua vita; essi erano là, nell’ombra, immobili, ogni scossa dell’automobile li faceva urtare tra di loro come fantocci inerti: nulla gli pareva più angoscioso che vederli così, lontani, staccati, soli senza rimedio.258

257

Laddove i sei personaggi, Lisa compresa, ‘abitano’ spazi onirici. Mariagrazia: «alla madre pareva di inseguire l’amante attraverso le camere e le scale di una grande casa vuota […] visita allora, una per una tutte le camere e lo trova alfine nell’ultima»; Michele «entra in una grande stanza piena di sole»; Carla «entra in un enorme androne di palazzo […] i pianerottoli sono immensi, neri, delle larghe sputacchiere piene di segatura biancheggiano negli angoli»; Leo «Fuor della villa, fuor della città, una camera al secondo piano d’una casa nuova; qui dorme Leo; e cosa sogna?»; «Ultima Lisa; le pare di stare seduta nella sua camera da pranzo, presso la finestra aperta», in Cinque sogni, in Racconti dispersi, in A. MORAVIA, Opere /1cit., rispettivamente alle p. 1512, p. 1513, p. 1514, p. 1515, p. 1516.

258

Una luce caravaggesca pare tagli il buio, mentre la sequenza ritmica dei lampioni stradali accentra lo sguardo su queste figure senz’anima, accese con luminosità per un istante, ma solo per sottolineare vite appiattite e ignave. Al riguardo si confronti la sequenza dei quattro, in una scena che sembra uscita dai film in bianco e nero dell’epoca, che fanno il loro ingresso nel buio del prestigioso Ritz ed, a un certo punto, d’improvviso, si accendono i riflettori violenti: una maniera di occhieggiare senza farsi vedere e, soprattutto, dove farsi guardare. L’ambiente ha un che di esotico, secondo la moda e la cultura dei possedimenti coloniali da poco entrati nell’immaginario italiano. Leo, fingendosi padre di famiglia, paga per tutti. La piccola folla borghese balla, girando nella sala. È anche questo un modo per allungare lo sguardo nei diversi angoli, per fendere i diversi gruppi, per scrutare, per misurarsi, per confrontarsi, per confermarsi a vicenda come parte di un circuito ristretto e rigidamente chiuso. Non è una vera festa, ma una recita collettiva, un rito cortigiano dalle movenza scontate e ossessionate, in una società urbana che avrebbe potuto cambiare e crescere, ma che si era soltanto coperta di cerone e come plastificata.

O si segua il personaggio di Michele lungo i marciapiedi affollati, tra la strada rigurgitante di veicoli, al momento del massimo traffico:

I marciapiedi erano affollati, la strada rigurgitava di veicoli, era il momento del massimo traffico; senza ombrello sotto la pioggia, Michele camminava con lentezza come se fosse stata una giornata di sole, guardando oziosamente le vetrine dei negozi, le donne, le rèclames luminose sospese nell’oscurità; ma per quanti sforzi facesse non gli riusciva di interessarsi a questo vecchio spettacolo della strada; l’angoscia che l’aveva invaso senza ragione, mentre se ne andava attraverso i saloni vuoti dell’albergo, non lo lasciava; la propria immagine, quel che veramente era e non poteva dimenticar di essere, lo perseguitava; ecco, gli pareva vedersi: solo, miserabile, indifferente.259

Prigioniero di un soggettivismo totale, all’uscita dall’albergo, tra la folla indistinta di autoveicoli e persone, Michele guarda, in realtà, solo se stesso. In un susseguirsi di luci fredde e inumane, anche le pubblicità stradali riverberano solo prodotti per migliorare l’apparenza esteriore: sbiancare i denti e lucidare le scarpe. È solo una facciata continua, dietro la quale non c’è vita pulsante ma solo conati

259

confusi, sillabe disarticolate di autocoscienza. I personaggi non hanno rapporti con la realtà, ma si relazionano solo egocentricamente e, solo in apparenza, tra di loro. Dopo l’ennesimo alterco tra Michele e i suoi familiari, che si conclude con il molle lancio del portacenere contro Leo – e che invece di raggiungere questo colpisce la madre – il ragazzo torna a rivolgere lo sguardo verso l’esterno, alla ricerca come di una salvezza da se stesso e dalla prigione psicologica nella quale è chiuso.

Il ragazzo si rifugiò presso la finestra: la pioggia cadeva ancora, se ne udiva il fruscìo sulle imposte e sugli alberi del giardino; pioveva tranquillamente, sulle ville, per le strade vuote. Molta gente doveva ascoltare come lui, dietro i vetri chiusi, col cuore pieno dell’istessa angoscia, volgendo le spalle alla calda intimità delle stanze: ‘È inutile’ si ripeteva toccando con le dita incerte i bordi della finestra, ‘è inutile… questa non è la mia vita’.260

Rapidamente il racconto si snoda verso il fatale appuntamento di Carla con Leo, per andare a casa di lui e concedersi definitivamente, senza sotterfugi ed equivoci. È notte, è l’ora dell’appuntamento fissato, quando il vecchio Merumeci si presenta a prelevare la ragazza per condurla nel suo appartamento. La fuga di Carla all’esterno della villa s’intreccia con il desiderio confuso di rompere una monotonia senza senso e priva di prospettive concrete, malgrado i progetti della madre.

Addio strade, quartiere deserto percorso dalla pioggia come da un esercito, ville addormentate nei loro giardini umidi, lunghi viali alberati, e parchi in tumulto; addio quartiere alto e ricco: immobile al suo posto al fianco di Leo, Carla guardava con stupore la pioggia violenta lacrimare sul parabrise e in questi fiotti intermittenti colar disciolte sul vetro tutte le luci della città, girandole e fanali. Le strade si seguivano alle strade; ella le vedeva piegare, confluire una nell’altra, girare laggiù oltre il cofano mobile dell’automobile; a intervalli, tra i sobbalzi della corsa, delle nere facciate si staccavano nella notte, passavano, e si dileguavano come fianchi di transatlantici in rotta, non senza difficoltà, attraverso i marosi; gruppi neri di persone, porte illuminate, lampioni, alberi, ogni cosa si affacciava per un istante nella corsa e poi scompariva inghiottita definitivamente dall’oscurità.261 260 Ivi, p. 151. 261 Ivi, p. 160.

La descrizione enfatica non sfugge a un tenero richiamo manzoniano dell’addio di Lucia ai suoi luoghi natii. Ma la città che Carla attraversa non ha niente di solenne, è sempre battuta dalla pioggia, non c’è scampo. Strisce di luce e di asfalto si succedono, disegnando labirinti successivi. L’oscurità regna sovrana, tenebre cupe senza vita, più grandi e più piccole, si succedono. C’è uno sguardo accennato sul quartiere di ville, abitato da ombre e folle immaginarie. Tutto si dilegua e scorre veloce. È un addio che sembra vero, se non fosse anch’esso frutto di una relazione equivoca e immatura, di una fuga per la sopravvivenza sociale.

Nell’ultima parte della narrazione, dopo che la relazione clandestina si è consumata, l’ambiente esterno perde tutta la sua tetra oscurità, e diviene teatro della rappresentazione finale che porterà al gesto inane di Michele contro Leo e al ballo in maschera dei principali protagonisti.

[…] grigie le figure lontane e vicine dei passanti, i profondi giardini,