Flavia Virgilio
8. Cittadinanze di confine
Il tema delle radici, in questa prospettiva, è un tema eloquente per la rifles-sione educativa; tocca le aree delle discipline, ma anche del senso che le disci-pline assumono nello scenario contemporaneo e tocca le aree dell’identità, non solo degli studenti, ma anche dei docenti e della scuola come istituzione (Green, 1997). Solo intendendo la scuola come intellettuale sociale, infatti, è possibile rispondere al mandato istituzionale stesso che dovrebbe animare ogni singola attività scolastica: educare cittadini competenti.
Nell’esperienza del progetto EDUKA si è tentato di ragionare su che cosa si-gnifichi oggi insegnare in classi eterogenee. In particolare sulle implicazioni tra scelte relative alla lingua di insegnamento, o lingua della scuola, e competenze linguistiche degli studenti. Ragionando ad esempio sull’insegnamento dell’Ita-liano come L2, ci potremmo chiedere in che senso una disciplina come l’itadell’Ita-liano, costruita in termini storico letterari, può contribuire a formare competenze di cittadinanza: competenza nella madrelingua, imparare ad imparare, consapevo-lezza ed espressione culturale.
Si tratta, cioè, di interrogarsi, su che genere di cittadini saranno gli studenti che stanno seduti nelle nostre aule e su come l’essere cittadini in un certo modo possa essere favorito dalle esperienze che si fanno dentro la scuola.
La risposta non è banale, se solo ci si ferma a riflettere un attimo sullo sce-nario locale ed europeo con cui la scuola deve inevitabilmente fare i conti, at-traversato da contrapposte tensioni tra il discorso pragmatico, e strategico, sulla funzione economica e demografica dei flussi migratori e il discorso populista e localista basato sulla sicurezza, sulla difesa dell’identità e sulla salvaguardia delle radici (Aime 2004). E il discorso sulle radici, anche quando è declinato sul piano delle discipline, diventa inevitabilmente un discorso politico.
«L’interazione tra storia e memoria è un fatto della vita nel mondo, nel tempo, nella società: è un dato di fatto della cultura (altrettanto importanti sono il lavoro di dimenticare, e le forze che agiscono contro il ricordare). Soprattutto, ricordare è un atto politico, oltre che culturale» (Portelli 2007: XIII).
Guardare i curricoli a partire dalle radici, allora, potrebbe significare inter-rogarsi sul rapporto tra la scienza, i saperi, le discipline e coloro che imparano; e ancora interrogarsi sul rapporto tra coloro che imparano e il modo con cui la scuola, in modo organizzato, usa l’azione didattica per costruire apprendimenti che si connettono con i luoghi di vita e acquisiscono senso dall’interazione con questi stessi luoghi.
Facendo attenzione al fatto che, laddove il discorso sulle radici si salda con il discorso della memoria e delle tradizioni, intercettando il piano incerto delle co-struzioni identitarie, il rischio di produrre risultati paradossali, anche in termini educativi oltreché politici, è molto elevato.
Le raccomandazioni ministeriali sull’insegnamento di “Cittadinanza e Costi-tuzione” e l’introduzione nel curricolo dello stesso con legge 30.10.2008 n. 169 nonché la Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa del 18.12.2006, relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente
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offrono il necessario supporto per fondare il percorso dal punto di vista istituzio-nale e curricolare. In particolare, circa le competenze sociali, la Raccomandazio-ne europea afferma che esse implicano anzitutto «competenze personali, inter-personali e interculturali, che riguardano tutte le forme di comportamento che consentono alle persone di partecipare in modo efficace e costruttivo alla vita so-ciale e lavorativa, in particolare alla vita in società sempre più diversificate, come anche di risolvere i conflitti, ove ciò sia necessario».
L’immediata connessione tra il tema della cittadinanza e il modo con cui la scuola contribuisce a costruire percorsi di integrazione/interazione è assoluta-mente evidente se si esaminano i risultati scolastici degli allievi con background migratorio che frequentano le scuole italiane. «I giovani stranieri, anche quelli nati in Italia, hanno risultati scolastici molto peggiori rispetto ai coetanei italia-ni; vengono bocciati e lasciano la scuola molto più di frequente rispetto ai figli di italiani; prendono voti più bassi, si iscrivono a scuole più professionalizzanti. Questo è un grosso problema per l’Italia, perché – come è accaduto in altri paesi – se i giovani stranieri non avranno a disposizione risorse per raggiungere una posizione sociale migliore dei loro genitori, svilupperanno opposizione, ranco-re e antagonismo verso la società ospite e le sue ranco-regole» (Dalla Zuanna, Farina, Strozza, 2009:8).
Potremmo ancora chiederci con Don Milani se i figli del dottore siano tutti intelligenti e i figli degli immigrati tutti stupidi e svogliati e se a questa costru-zione sociale non collabori attivamente la scuola, con il suo modo di descrivere ed etichettare gli studenti.
8.2 Riconoscere le lingue e le cittadinanze a scuola
I percorsi di ricerca sperimentati nell’ambito del progetto EDUKA dimostrano che, per esempio nello specifico delle competenze linguistiche, partire dall’e-sperienza degli allievi, aiutandoli a riconoscere i propri saperi e saper fare, co-stituisce non solo un modo per valorizzare gli apprendimenti informali, come ben illustrato da Altin in questo volume, ma può contribuire a rafforzare alcune aree del curricolo formale attraverso due movimenti, da una parte il riconosci-mento delle competenze maturate dagli allievi fuori dalla scuola, dall’altra la rimodulazione del curricolo sulla base della significatività dell’apprendimento (MIUR 2012).
In sostanza ripartire non dall’italiano che gli studenti non sanno, ma dal cinese che sanno, per tornare all’esempio delle lingua che gli insegnanti con-siderano isolanti, lavorando sui saperi informali, può consentire da un lato di creare in classe momenti di costruzione di common ground tra studenti, italiani e stranieri, e con i docenti, e dall’altro di promuovere strutture di partecipazione in cui gli allievi sono protagonisti dei processi di apprendimento (Sefton Green 2004; Sefton Green 2006; Baraldi e Iervese 2012). Questo comporta la necessità
di individuare modalità nuove per osservare e misurare l’apprendimento, for-male e inforfor-male.
Per definire l’apprendimento informale a scuola è importante considerare le definizioni di educazione formale, informale e non formale.
L’educazione formale è costituita dal sistema gerarchicamente organizzato e graduato dalla scuola primaria all’università. L’educazione informale è costituita dai processi quotidiani di apprendimento che contribuiscono alla trasmissione di valori, attitudini competenze e saperi attraverso le risorse di contesto: la fami-glia, il vicinato, l’ambiente di lavoro, il gioco e il tempo libero, i luoghi di consu-mo, i media. L’educazione non formale si realizza al di fuori del sistema educativo formalizzato, pur rispondendo a specifici stakeholder e obiettivi (c.f. Coombs and Ahmed 1974; Fordham 1993).
Per ragionare sugli apprendimento informali nel contesto scolastico è anche utile mettere a fuoco i concetti di curriculum formale, informale e non formale. Il Consiglio d’Europa (2004: 38) considera tre categorie di attività che contribui-scono a definire il curriculum non formale: le attività extra-curriculari e realizza-te esrealizza-ternamenrealizza-te alla scuola (progetti, visirealizza-te, scambi, gruppi di lavoro, attività di volontariato, attività di alternanza scuola lavoro,…); l’ethos delle organizzazioni scolastiche (clima relazionale, cultura organizzativa, leadership informale, rela-zioni interculturali, …) e i processi di decision making (modalità di partecipazione, organi di rappresentanza degli studenti, Consigli Comunali dei Ragazzi, gruppi di interesse e di pressione).
Il curriculum informale è costituito dal curriculum implicito (peer learning, clima emotivo, leisure experiences) e dall’apprendimento mediato (imitazione di persone carismatiche, influenza dei simboli e dei miti, delle metafore, degli ste-reotipi anche di carattere commerciale) (Scheeren, 2011).
La rilevanza di queste distinzioni quando si affronta il tema dell’insegnare/ apprendere le lingue è assolutamente evidente se si considerano i dati della re-cente ricerca OECD (2012) Languages in a Global World. Learning for better cultural
understanding. Più di 175 milioni di persone nel mondo vivono fuori dal proprio
paese e parlano una o più lingue oltre a quella/e appresa/e come lingua/lingue nativa/e. Il plurale sulla così detta lingua materna è d’obbligo in particolare in quei contesti plurilinguistici, come le aree di confine dove si è svolta la ricerca EDUKA, in cui la compresenza e l’uso di molteplici lingue è un dato di contesto.
Tutti i documenti europei, già a partire dagli anni Novanta, propongono ri-flessioni e indicazioni che hanno contribuito progressivamente a delineare un asse teorico interpretativo e valoriale alla luce del quale ripensare le politiche linguistiche nazionali e le linee educativo-didattiche di valorizzazione del plu-rilinguismo. «Il rispetto della nostra diversità linguistica non è soltanto il rico-noscimento di una realtà culturale prodotta dalla storia. È il fondamento stesso dell’idea europea (...). Se la maggior parte delle nazioni europee si sono costruite sulla base delle loro lingue identitarie, l’Unione europea può costruirsi soltanto sulla base della sua diversità linguistica. Il fatto che un sentimento di
apparte-8. cittadinanze di confine
nenza comune sia fondato sulla diversità linguistica e culturale è un potente an-tidoto contro i fanatismi in cui sono spesso degenerate le affermazioni identita-rie in Europa e altrove, ieri come oggi» (CE, 2008).
La globalizzazione delle comunicazioni e dei mercati del lavoro e la mobilità delle persone hanno reso la diversità linguistica una sempre più critica ques-tione locale.
Kalantzis e Cope (2008) i teorici della multiliteracies, descrivono l’eloquen-te caso della diffusione dell’inglese su scala mondiale come conseguenza del processo di globalizzazione e gli esiti paradossali della sua affermazione come
lingua franca. Questa lingua, infatti, nello stesso momento in cui si è
afferma-ta come lingua franca dominante negli scambi economici mondiali, nei media e nella politica, si è moltiplicata e differenziata in una grande varietà di
“Eng-lishes”, caratterizzati da differenze di origine nazionale, accento, stile culturale
delle comunità d’uso tecnico-professionali. La molteplicità degli “Englishes” sfida continuamente le capacità comunicative dei parlanti e rende necessario il superamento dell’apprendimento di un’unica versione standard. Migrazione, multiculturalismo e integrazione economica globale intensificano quotidiana-mente questo processo di cambiamento, favorendo l’attraversamento continuo dei confini linguistici, anche all’interno della stessa lingua inglese.
Gli esperimenti condotti nel corso del Progetto EDUKA sugli usi linguistici degli studenti dentro e fuori e la scuola hanno mostrato come questa criticità interroga oggi più che mai la funzione ed il ruolo dell’insegnamento delle lin-gue a scuola.
8.3 Confini delle cittadinanze
«Il confine è un’istituzione […]. E un’istituzione è una macchina fatta di uomini, di carte e di edifici per fabbricare o per costruire qualcosa. Solo che quel che si costruisce con i confini non è né un’automobile né una casa, ma siamo noi, è quel che noi siamo ufficialmente, ciò che ci distingue gli uni dagli altri e ci attribuisce un nome. Noi, nero su bianco, come recita lo slogan scelto dal governo italiano per celebrare il sessantesimo anniversario della Costituzione repubblicana. Certo è che esiste un nesso strettissimo tra l’istituto del confine e la Costituzione: il primo perimetra l’ambito territoriale di validità (per parlare il linguaggio classico della dottrina giuridica europea) delle categorie fondamentali che la seconda articola nei loro rapporti - da quella di sovranità a quella di ordinamento, da quella di citta-dinanza a quella di popolo. Il confine e la Costituzione, dunque, convergono a defi-nire la matrice dell’identità politica considerata legittima, [...]» (Mezzadra, 2008). I cosiddetti Border Studies, lavorando attorno alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, hanno evidenziato come alla moltiplicazione dei confini corrisponda una loro accentuata mobilità, accompagnata da processi di territorializzazione e de-territorializzazione.
Questi processi contribuiscono a costruire le «nuove geografie della cittadi-nanza » (Desforges - Jones - Woods, 2005): reti di connessione tra punti di par-tenza e di arrivo, tra luoghi di passaggio, di andate e di ritorni. Quel che questi studi mostrano è il rilievo strategico del confine all’interno di quella che possia-mo chiamare la «costituzione materiale della cittadinanza e dei mercati del lavo-ro, appunto in diverse aree del mondo» (Mezzadra, 2008).
«I soggetti del nomadismo contemporaneo stabiliscono affinità, plurali e non più duali, con le diverse località che punteggiano i loro spostamenti, coinvol-gendosi in contesti – culturali, politici, economici e sociali – che appartengono a molteplici territori» (Callari Galli, 2007: 45).
La pluralizzazione delle appartenenze implica la ri-articolazione dell’idea di migrazione in quella di mobilità translocale e richiede il ripensamento dei lega-mi sociali tessuti nei diversi territori. I telega-mi della comunità, dell’identità e della dimensione territoriale delle appartenenze vengono potentemente chiamati in causa, mentre si apre una «nuova relazione pratico-politica tra locale e globale» (Callari Galli, 2007, p. 11).
Educare alla cittadinanza a scuola, allora, non richiede più soltanto l’esplorazio-ne delle tensioni tra locale e globale, tra qui e altrove, tra nazionale e transnaziona-le, ma piuttosto l’esplorazione delle mobilità translocali e degli attraversamenti. E gli attraversamenti, come suggerisce il nostro titolo, non sono solo di carat-tere spaziale, ma soprattutto di caratcarat-tere concettuale e mentale. Il confine è un luogo fisico, ma anche mentale e simbolico. Le menti dei nostri studenti sono “in-formate” dalle visioni delle carte geografiche appese ai muri delle aule e, nello stesso tempo, dalle mappe di google-maps che guidano le piste reali di mobilità at-traverso i territori e i confini. Queste rappresentazioni, insieme, contribuiscono alla costruzione di un’idea di cittadinanza.
C’è bisogno «di pensare al di là delle tradizionali narrazioni relative a sog-gettività originarie ed aurorali, focalizzandosi invece su quei momenti o pro-cessi che si producono negli interstizi, nell’articolarsi delle differenze culturali. Questi spazi “intermedi”, costituiscono il terreno per l’elaborazione di strate-gie del sé (come singoli o gruppo), che danno il via a nuovi segni di identità e luoghi innovativi, in cui sviluppare la collaborazione e la contestazione, nell’at-to stesso in cui si definisce l’idea di società» (Bhabha, 2001: 12): le esperienze condotte nel progetto EDUKA dimostrano che la scuola è di sicuro uno di questi luoghi innovativi in cui, sviluppando la collaborazione, si contribuisce a defini-re un’idea di società.
Gloria Ladson-Billings (2004: 120), citando George Spindler (1987), ha sugge-rito che «dal punto di vista antropologico, tutta l’educazione è educazione alla cittadinanza». L’affermazione è vera nella misura in cui praticamente tutta l’edu-cazione, dentro e fuori dalla scuola, contribuisce a costruire le identità e ad orien-tare i modi di condurre la vita associata. Tuttavia una questione emerge relativa-mente alla cittadinanza e al modo con cui le persone incorporano lo stato nella propria autocomprensione e conseguente capacità di agency (Greenhouse, 2002).
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Il libro Cuore racconta uno dei modi con cui questa incorporazione avviene. Il modo con cui lo stesso libro è utilizzato nelle scuole della minoranza italiana in Slovenia, frequentate per il 50% da studenti italiani che ogni mattina attraversa-no la frontiera virtuale dei sistemi nazionali di istruzione italiaattraversa-no e sloveattraversa-no e il confine reale tra l’Italia e la Slovenia, rappresenta proprio le possibilità di agency che, a partire dal concetto di cittadinanza si aprono.
Possibilità di incontro e di scontro.
«Il Centro delle Scuole Tecniche è una scuola inventata dagli sloveni che non sapevano che cosa farci con tutti quei čefurji. Così hanno aperto il Centro delle
Scuole Tecniche, la più fottuta e scadente scuola al mondo, dove profi tra i più de-ficienti ci fanno il culo a tutti noi in –ić. […] Il loro scopo è lobotomizzare quanti più čefurji possibile […]» (Vojnović, 2015: 108-109).
Il romanzo Čefurji, raus di Vojnović racconta il mondo multietnico del quartiere
di Fužine, periferia di Lubiana. Un quartiere dove si sono nel tempo aggregate le vite di molte famiglie provenienti dal sud della Jugoslavia. A loro è stato affibbiato il nome dispregiativo di čefurji, feccia del sud, come recita il sottotitolo del libro
nella traduzione italiana, che ha mantenuto il titolo originale. È una periferia che si contraddistingue per lo sradicamento degli abitanti, la difficoltà e la disperazione, elementi che fanno di Fužine un luogo paradigmatico in cui le persone, anche per il loro atteggiamento volgare ed esagerato, sono viste con ostilità e disprezzo dalla maggioranza. I personaggi del quartiere, ha sottolineato l’autore in un’intervista, si rendono conto di non poter essere altro che čefurji, sono condannati a comportarsi
in un certo modo, e quindi lo diventano in maniera ancora più radicale.
Essere cittadini a Fužine, significa fare i conti con questa situazione parados-sale, in cui la scuola costituisce un elemento cruciale nel costruire, o nell’impedi-re, l’integrazione, nel favorire o nell’ostacolare l’interazione e il reciproco ricono-scimento, cioè la reciproca assunzione di responsabilità rispetto all’Altro.
La cittadinanza non è solo uno status giuridico concesso da uno Stato, ma una relazione di impegno reciproco tra le persone nella sfera pubblica (Benve-niste 1974).
In questa idea di cittadinanza come forma di impegno reciproco risuona l’ “I
Care” di Don Milani. «Mi importa, ho a cuore», in contrapposizione al «Me ne
frego» di derivazione fascista. Questa frase scritta su un cartello all’ingresso della scuola di Barbiana, riassumeva le finalità di cura educativa di una scuola orien-tata alla presa di coscienza civile e sociale non solo degli studenti, ma anche dei docenti e dei cittadini in generale.
La domanda, allora, è quali forme di educazione costituiscono le identità dei cittadini, che si formano anche in casa, in strada, al centro ricreativo e grazie ai media, cioè in contesti non formali o informali e quali forme di impegno recipro-co si aprono nella recipro-convivenza dentro e fuori la scuola.
Immaginiamo un insegnante che rifiuta il diritto di correzione linguistica de-gli studenti e dice, come ci suggerisce Alim riflettendo su Bourdieu, «Chiunque voglia parlare dovrebbe solo parlare; il più bel francese è il francese di strada».
Quando si tratta di definire le regole specifiche della propria classe, per l’insegnante la libertà è limitata, perché non potrà mai riuscire a creare “un impero in un impero”, un sub-spazio in cui le leggi dominanti siano sospese (Bourdieu, 1977).
Sami Alim (2012), nella descrizione dell’esperienza di diversi progetti realizza-ti in classi linguisrealizza-ticamente eterogenee, mostra come un approccio sociolingui-stico nell’analisi delle lingue utilizzate nelle istituzioni educative possa favorire non solo la riflessione sugli usi linguistici, ma anche sulla scuola come campo di battaglia linguistica. La scuola, infatti, opera sulla lingua delle minoranze e dei gruppi marginalizzati un’azione di gentrificazione analoga a quella condotta dai processi di riqualificazione urbana. In entrambi i casi il messaggio è che le opportunità economiche si aprono a chi accetta di ripulire i quartieri, e con essi la lingua che nei quartieri si parla (Alim, 2012: 215).
Gli insegnanti sono caricati della terribile responsabilità di questa pulizia, che consiste nell’educare gli studenti culturalmente e linguisticamente diversi, traducendoli in buoni cittadini. Come la maggior parte delle persone, i docenti hanno convinzioni radicate relativamente a mitologie linguistiche e ideologie del linguaggio, ma sono tenuti a rispettare “regole” che riproducono l’ordine socio-linguistico in modo molto diretto, attraverso l’insegnamento delle lingue stesse.
Bourdieu (1991) considera l’insegnamento delle lingue in termini più ampi rispetto alla mera acquisizione di una varietà standard. Nel caso dei neri america-ni, ad esempio, si possono rilevare i tentativi di esperti insegnanti per sradicare la lingua e le pratiche linguistiche (Baugh, 2000) a favore dell’adozione dei mo-delli e delle norme del White English. Tentativi analoghi sono storicamente docu-mentati nei confronti delle lingue minoritarie a cavallo del confine.
Come scrive Kroskrity (2000:1), sottolineando la necessità di una critica an-tropologica alla linguistica, «Mai prima d’ora i rapporti tra linguaggio, politica e identità sono sembrati così rilevanti per tanti. Viviamo in un tempo in cui l’imposizione normativa dell’inglese avviene, in molti degli Stati Uniti, quan-do molti parlanti le lingue minoritarie o indigene di tutto il monquan-do lottano per mantenere la propria madre-lingua a fronte di una sostanziale discriminazione linguistica sostenuta dallo stato e quando la semplice menzione di varietà non standard e di linguaggi come l’Ebonics ispirano un dibattito molto animato sul tema delle discipline linguistiche e sulle loro virtù educative».
Nella direzione di un’analisi critica dell’uso delle lingue e della funzione educativa delle discipline linguistiche, Alim (2012) descrive il progetto “Le lin-gue della mia vita”. Il progetto inizia con l’introduzione agli studenti della teoria linguistica di Dell Hymes e si conclude con un’autoanalisi etnografica, condotta dagli stessi studenti, dei propri comportamenti linguistici.
Obiettivo dell’attività è accompagnare gli studenti a riflettere, rispondendo alla domanda “Come utilizzo la lingua nelle mie esperienze di vita?”. Gli studenti