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Claudio Magris e il lungo addio alla modernità

L’impressione è che si continui a subire una sorta di cortina di ferro intellettuale tracciata e scandita da pregiudizi, ma anche da convinzioni accademiche, magari non confessate e addirittura inconsce, ma piuttosto consolidate. Si continua a guardare alla Mitteleuropa e alla sua cultura con uno sguardo folkloristico, estetizzante, romantico. Si continua a guardare alla Mitteleuropa e alla sua cultura con ammirazione e nostalgia, ma in verità, più o meno tacitamente, si rimane convinti che la storia delle idee scorra altrove, riconosca altri centri. L’Europa (letteraria, filosofica e, forse, anche scientifica) è soprattutto l’Europa occidentale e, a ben vedere, lo è sempre stata. Ciò che succede dalla Polonia a Sarajevo non riguarda direttamente la nostra cultura e la nostra ’identità’. L’attualità del Mito absburgico di Magris sarebbe un’attualità probabilmente non voluta: ancor oggi lotterebbe contro una rimozione che si ripete, sembrerebbe destinato a riempire perfettamente un vuoto che continua ad aprirsi.

È un pregiudizio – più o meno inconscio – quello che identifica l’Europa soprattutto con l’Europa razionale e pragmatica che possiamo far risalire a Bacone prima e, poi, per dirla con Hegel, ma anche un po’ con Weber, a quello “spirito nordico” da tenere a sua volta ben distinto anche dalla “Norvegerie” indagata da Magris. L’Europa è il Reno più che il Danubio. Scendere costeggiando il Danubio, avvicinarsi a Vienna, affacciarsi alla cosiddetta Europa orientale, significa uscire lentamente e inesorabilmente dal tempo, dal tempo delle decisioni. D’altra parte, basta guardare a quanto scrive lo stesso Magris, ad esempio, riguardo a Heinrich Laube: arrivato a Vienna, poco a poco, gradualmente, le sue battaglie gli appaiono improvvisamente come semplicemente ideologiche, ingiustificate, la sua forza polemica, nel migliore dei casi, un’irrequietezza giovanile (Il mito absburgico 75-77). Sullo stesso piano, a noi viene in mente un’altra deriva, quella del grande architetto, repubblicano e rivoluzionario, Gottfried Semper: prende parte ai moti di Dresda del 1849 costruendo barricate che, per razionalità ed efficacia, meriteranno i complimenti dei sorpresi ufficiali dell’esercito prussiano ma, una volta a Vienna, il suo primo progetto di rinnovo del Burgtheater, firmato con Karl von Hasenhauer, incarna un apice altissimo della libertà formale, prevedendo due sezioni laterali della balconata dalla quale sarebbe stato impossibile vedere il palcoscenico (Timms 36). Quella raccontata dal Mito, insomma, è l’Europa di un’elegante estetizzazione, l’Europa del mito, appunto, che conduce all’edonismo e al disimpegno sul piano estetico e, sul piano morale, a una pietà poco impegnativa, priva

di imperativi categorici e, tutt’al più, a un senso di colpa poco invadente, anzi, addirittura consolante e autoconsolatorio, nemmeno malinconico.

Si chiuda o meno su se stesso, si tratti solo di una nostra impressione, in ogni caso crediamo sia utile – lo verificheremo alla fine – leggere il Mito absburgico assieme agli altri saggi di Magris, senza trascurare, naturalmente, la sua opera letteraria.1

Un passo indietro: l’arte dopo la fine dell’arte

Seguendo lo stesso Magris, soprattutto l’introduzione a L’anello di Clarisse, è bene fare un passo indietro rispetto all’Ottocento austriaco, e collocarlo nel contesto più ampio dell’area tedesca e della storia europea delle idee. Infatti, in modo più o meno consapevole, il mito absburgico nasce anche, e forse soprattutto, dalla rimozione della fine di quella che Reinhart Koselleck ha chiamato “Sattelzeit”, l’epoca della svolta, un periodo che convenzionalmente egli circoscrive indicando come termine iniziale il 1781, anno della prima edizione della Critica della ragion pura di Kant, e come termine conclusivo gli anni 1831-32, gli anni della morte, rispettivamente, di Hegel e di Goethe (Koselleck 81-85). È un periodo glorioso e straordinariamente ricco per la filosofia, la letteratura e la cultura in generale, che vede lo sviluppo di quella che oggi chiamiamo ’filosofia classica tedesca’, espressione più generale in confronto alla vecchia espressione ’idealismo tedesco’, ma anche più rispettosa della diversità delle posizioni che queste categorie comprendono al proprio interno. È un periodo durante il quale, secondo Jean Paul – lo ricorda lo stesso Koselleck – con l’idealismo i tedeschi otterrebbero il dominio sul cielo, nel tempo in cui i francesi di Napoleone dominavano sulla terra e gli inglesi sul mare. Tanto Jean Paul che Koselleck insistono sull’“assalto al cielo” che il criticismo kantiano avrebbe lanciato – quasi una sfida impossibile e dunque eroica – finendo però per smarrire, con molta ingenuità, il rapporto col reale, cioè finendo per risolversi nella vacuità di una speculazione astratta, oltre che nella rivendicazione di diritti irrealizzabili. Insomma, per “idealismo” dovremmo proprio intendere quello che oggi intendiamo con quel termine: un approccio irrealistico, ingenuamente velleitario e ben poco pragmatico.

Sattelzeit, l’epoca della svolta, l’epoca della “rivoluzione copernicana” che Kant rivendica al suo criticismo, e che riguarda ogni esperienza e

ogni forma di sapere, dalla scienza all’arte. Tuttavia, in questi decenni è soprattutto l’arte che accoglie e accompagna l’inedito interrogativo sollevato da Kant sulle condizioni di possibilità del conoscere. Nello stesso senso di Koselleck, tanto da indicare gli stessi margini temporali, già Heinrich Heine aveva definito questo periodo “Kunstperiode” e “Literaturperiode” (Heine 8-10), l’epoca dell’arte o l’epoca della letteratura, ovvero il tempo in cui l’arte assume una rilevanza inedita e addirittura una sorta di primato all’interno del sistema dei saperi. Il “periodo dell’arte” e l’epoca classica dell’estetica, nel quale l’estetica conosce i suoi margini più estremi, il suo minimo e il suo massimo: è il tempo in cui dapprima Kant espelle l’estetica dal programma di una critica scientifica del sapere, riservandole lo statuto di sapere soggettivo, per poi ricomprenderla all’interno della propria prospettiva e farne, tra le righe, il paradigma di quel sapere trascendentale che intende sottoporre a critica se stesso, i propri limiti e le proprie possibilità.2 Di più: è il tempo in cui la filosofia formula un’idea

forse inaudita, ma molto indicativa della spinta e del valore che l’arte assume in questo periodo storico. Senza dare, peraltro, molta continuità a questa idea, nel 1801 Schelling indica nell’arte l’unico sapere in grado di cogliere l’assoluto, di sollevarsi all’unità indistinta del fondamento, l’unico “organo”, l’unico strumento a disposizione della filosofia per attingere il proprio fondamento (Schelling 627-629). Mentre, infatti, il concetto è costitutivamente relazionale e, dunque, costitutivamente esteriore a ciò che è Uno e precede ogni distinzione, l’arte incarna l’unico sapere capace di intuizione intellettuale, capace di cogliere la totalità, l’assoluto, il significato ultimo delle cose.

Probabilmente è proprio a questa altezza che il Romanticismo trova una base teorica e una prospettiva filosofica adeguate al proprio esercizio artistico, mentre Hegel reagirà con forza a questa idea fino a elaborare il margine esattamente opposto, ovvero la morte o la fine dell’arte (Hegel. Estetica 16). È anche per questo che Hegel chiude l’epoca della svolta e il periodo dell’arte. L’arte di cui proclama la morte o la fine, è l’arte del suo tempo, l’arte romantica (581-593), un’arte che, andando contro la sua stessa costituzione e i mezzi con cui lavora (immaginazione, intuizioni, appunto, rappresentazioni e non concetti), pretende di cogliere un significato universale e assoluto, che il genio romantico decifra orientandosi all’interno di una simbolica che pervade la natura e la realtà. E questo proclama di Hegel è ancora più irreversibile se si pensa che Hegel aveva assegnato all’arte un valore filosofico elevatissimo, collocandola all’interno

dell’itinerario fenomenologico in una posizione di primo piano, accanto alla religione e, appunto, alla filosofia. Proprio per questo, proprio perché il giudizio di inadeguatezza avviene dopo averle riconosciuto un valore mai prima riconosciuto all’arte, il giudizio di Hegel appare inappellabile. Tanto più che, effettivamente, nel frattempo è cambiato tutto, è cambiato il mondo e, come vedrà un’intera generazione di scrittori, la realtà eccede i modelli e le forme artistiche che Hegel aveva conosciuto. Scrittori – e tra di loro alcuni grandi scrittori, che Magris frequenta, come Heine, Büchner, Grabbe – che comprendono e che si fanno carico della “fine” di quella forma d’arte, con esiti altissimi.3

Di fronte alla proclamazione hegeliana della fine dell’arte, il Mito absburgico di Claudio Magris spiega e ricostruisce una delle possibili opzioni di fondo: il suo rifiuto. In un orizzonte che ormai ha maturato la consapevolezza dell’impossibilità di un’arte che restituisca in sé l’assolutezza della vita, tale consapevolezza viene semplicemente rifiutata, respinta, aprendo così una sorta di doppio binario. Da un lato, il lato della realtà, questa forma di cultura ha una percezione netta della crisi politica, sociale ed etica, una crisi che l’estetica non può nascondere fino in fondo. Dall’altro lato, quello più propriamente estetico-letterario, non si dà corpo a questa percezione, si nega la realtà creandone un’altra o edulcorando quella esistente. Non a caso Magris ricostruisce un ’mito’. Nulla di inconscio, nulla di inconsapevole, bensì un’opzione programmatica, voluta e dunque, almeno perlopiù, ideologica, magari vissuta con trasporto e sincero coinvolgimento, ma pur sempre costruita. Il Mito absburgico ricostruisce le modalità, le articolazioni e gli sviluppi di questo intreccio, di questo fortunato cortocircuito tra mitologia e storia, di questo inverosimile, ma quasi naturale sovrapporsi di finzione e realtà. Ricostruisce soprattutto il lungo processo di demistificazione che conduce, nonostante le resistenze, allo smascheramento, alla presa di coscienza e all’inevitabile, dolorosa accettazione della realtà.

Tuttavia, gli sviluppi di questa morsa tra mitologia e realtà non sono lineari. Il senso dell’impossibilità di recuperare o ricostituire una totalità ormai frantumata, e frantumata per sempre, non è il risultato di un progressivo, lento e pacifico spegnersi dell’illusione. Anzi, l’aspetto cruciale portato alla luce dal Mito absburgico è che questo processo di estetizzazione di una realtà irreversibilmente in crisi produce forme d’arte altissime. Uno dei presupposti e degli esiti più notevoli, peraltro attualissimo, del Mito absburgico è proprio legato al concetto di crisi. Il

binario è sempre doppio: da un lato la crisi può movimentare forze che la nascondono e la semplificano magari orientandone le conseguenze e distribuendone i pesi, ma, dall’altro lato, la crisi può liberare energie straordinarie, che consentono di comprenderla e di superarla. Guardando al primo elemento e nel caso prevalgano le forze di una semplificazione ideologica, i rischi sono enormi e gli esiti pericolosi. Si rischia la violenza, la brutale violenza della Prima guerra mondiale e dei totalitarismi. Nel secondo caso, ma come detto non sono elementi che si escludono, la gamma di sperimentazioni artistiche che cercano di tenere assieme illusione e realtà, è amplissima. Si va dalla poesia superficiale, ma anche “accorata e gioiosa” di Grillparzer, vero creatore, “il padre del mito absburgico” (127), a quella “dimessa” e “idillica”, più “agreste” e “malinconica” di Stifter (152-156), dall’armonia decadente di Hofmannsthal e dalla religiosità di Trakl alla cultura umanitaria e cosmopolita, ma vaga e incerta, di Zweig e Werfel, dal sarcasmo tragico, ma anche protestatario e un po’ “reazionario” di Kraus (259-260), all’indecifrabilità ironica e angosciosa della scrittura di Kafka.

Non abbiamo lo spazio per riassumere la ricostruzione attenta e minuziosa offerta dal Mito absburgico. Come detto, i contorni e i Leitfaden che raccolgono e guidano la letteratura austriaca tra Ottocento e Novecento sono frastagliati gli uni e frammentati gli altri. Tuttavia sembra univoca e chiara la conclusione di queste vicende, un esito che ruota attorno a Musil e Roth. Chiudendo idealmente il cerchio aperto da Grillparzer, la “smisurata e poliedrica enciclopedia spirituale” di Musil dà voce (“la più grande voce di questa problematica” 301) alla presa di coscienza dell’irreversibilità della frattura tra io e realtà e, come causa ed effetto allo stesso tempo, della frammentazione sia dell’uno che dell’altra. Tuttavia, dà voce anche alla lettura di questa condizione come occasione e opportunità, alla riproposizione, quasi testarda, della fiducia in un ordine o, meglio, della sua possibilità. E possibilità significa continua apertura di un orizzonte infinito e incertezza, impegno intransigente e insicurezza e rischio, tensione quasi metafisica e alienazione. Nel caso di Musil, questi margini vengono tenuti assieme dalla “ferrea logica matematica” dell’analisi psicologica (313), e da un amore pieno e disinteressato che assolve e redime, un amore e una redenzione, però, con cui “Musil si rifiuta ad ogni illusione consolatoria”, riconoscendo la “frana irreparabile” (Lontano da dove 138) che ha sommerso l’idea di un universo armonioso di valori e di qualità. Musil “non cade nella mitizzazione e nella riduzione

di Zweig” (137) e “non perdona la falsificazione intellettuale e morale” (136): ecco, fine del mito, presa di coscienza del reale e della sua irriducibile frammentarietà, fine di ogni nascondimento della crisi e, anzi, attenzione altissima a “individuare le false soluzioni di quel trapasso” (137). È un approccio che per molti aspetti avvicina Musil a Roth, nella cui letteratura avviene la dolorosa presa di coscienza dell’indisponibilità, ormai, di quel mondo idealizzato e mitizzato dallo stesso Roth, il mondo dello shtetl, delle comunità ebraiche, arretrate e impoverite, ma vive, partecipate e armoniose. Il commiato da uno shtetl, comunque rimpianto e celebrato come simbolo di armonia, è definitivo: “come per Musil, anche per Roth la Cacania è divenuta il regno dell’immaginario: un immaginario che non esiste più neanche nella parola” (301).

La “prosa del mondo”

Per Hegel, la filosofia è concetto e mediazione, è l’esatto opposto di ogni intuizione intellettuale. La filosofia non coglie, non intuisce, non procede per salti che si liberano dalle opposizioni superandole e lasciandole intoccate. La filosofia di Hegel non rimuove le opposizioni, che egli sa essere astrazioni, bensì sprofonda nell’alterità, sprofonda nel negativo. In un passo, molto noto e imprescindibile, della Vorrede alla Fenomenologia dello spirito, Hegel descrive la “vita dello spirito” non come la vita “che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione”, ma come “quella che sopporta la morte e in essa si mantiene”: lo spirito “guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione”, “sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui”, capacità che “è la magica forza che volge il negativo nell’essere” (Hegel. Fenomenologia I, 26). Lo spirito, la vita, il pensiero non temono di andare incontro al negativo e di comprenderlo come loro elemento costitutivo, ma questo non significa esaurirlo, abbracciarlo, ricondurlo compiutamente alle successive dinamiche riflessive e autoriflessive della ragione. Di fronte al lavoro della dialettica e all’“immane potenza del negativo”, resiste e rimane non tematizzato un elemento di esteriorità o di immediatezza, come aveva perfettamente intuito Fichte, che ricorda alla filosofia che “il vero è il trionfo bacchico dove non c’è membro che non sia ebbro” e che “nel tribunale di tal movimento non sussistono né le singole figure dello spirito, né i pensieri determinati” (I, 38).

Soltanto una lettura un po’ stereotipata della filosofia di Hegel, ma tutt’altro che rara all’interno degli studi dedicati al suo pensiero, trascura queste faglie e non si accorge che qui comincia la fine, la parabola discendente, il tramonto e il movimento di chiusura dell’epoca dell’arte e della letteratura. Soltanto così, soltanto un Hegel così realista può essere indicato come termine di chiusura di quel tempo. E dunque sarebbe meglio spostare in avanti quel termine e comprendere Nietzsche come filosofo della definitiva chiusura di quella svolta (proprio perché la ricolloca come svolta). Innanzitutto perché Nietzsche liquida quell’idea di arte romantica di cui Hegel aveva decretato la fine: definendo “morta e mummificata”, con e dopo Nietzsche, la forma inseguita e costruita dal classicismo e dal romanticismo, Baioni non fa altro che applicare le categorie hegeliane di “morte” e “vita”, che, alla fine, rappresentano le categorie hegeliane più profonde, e più profonde perché non diventano mai, in Hegel, una metafora (Baioni LXIII). E Magris riconosce come propria esattamente questa linea interpretativa, in primo luogo quando riprende, quasi come un punto di partenza, la definizione hegeliana dell’orizzonte dell’arte moderna come “prosa del mondo”, ovvero una condizione di “disparità tra ideale e realtà, tra verità e presente, fra valore e norma” (Magris. L’anello di Clarisse. 6). Osservando che “i romantici scelgono la mediazione ironica, Hegel la mediazione dialettica”, Magris vede bene che da queste mediazioni “nasceranno, rispettivamente l’arte d’avanguardia e quella realistica” (21).4

In secondo luogo, Magris mette in luce le continuità tra Hegel e Nietzsche quando si rivela attento a svincolare il “grande stile”, smascherato una volta per tutte da Nietzsche come costruzione, dal “dominio o autodominio apollineo”, per associarlo piuttosto alla “dispersione dionisiaca dell’io nel fluire sensibile” (6). Nietzsche chiude la Sattelzeit di Koselleck sul piano squisitamente filosofico, affermando una differenza non solo irriducibile a concetto, ma che pregiudica ogni possibilità di riflessione, ogni pretesa dell’io di sollevarsi fichtianamente ad autocoscienza e a principio (cfr. Furlani). Prevalgono il divenire e le sue forze, che innervano e destabilizzano non solo l’autocoscienza, l’io trascendentale, ma anche l’io individuale. Prevale il tempo, prevale il suo sotterraneo e inesorabile scorrere. L’Io che si presenta come fondamento della modernità, in verità è il prodotto di una sospensione, di un irrigidimento del tempo e, dunque, è un’astrazione, una semplificazione, una costruzione. È una costruzione unitaria che tutt’al più può essere utile o “economica”, per usare un’idea di Musil ricordata da Magris (L’anello di Clarisse 7).

Il rigore di Nietzsche nel trarre tutte le conseguenze di questo scarto è implacabile. Non solo perché decostruisce i termini in gioco (io e tempo), ma anche tutti gli altri concetti e tutti gli altri miti – è proprio il caso di dirlo – costruiti dalla modernità attorno all’uno e all’altro. Nietzsche è lucidissimo nel decostruire l’io e in L’anello di Clarisse Magris recupera questo punto di riferimento e la sua incidenza, senza cedere in quello che altrove egli definisce un “compiaciuto e trionfale nichilismo”(Magris. Quale totalità? 70) al quale, a ben vedere, nemmeno Nietzsche si lascia andare. Inoltre, decostruito l’io, Nietzsche decostruisce anche il tempo, la sua percezione, il suo attraversamento. L’idea di una sua perfetta, metafisica circolarità si smarrisce per sempre come mito che non ha nulla a che fare con il mondo, anzi, con la ’terra’ alla quale il filosofo invita a restare fedeli. Ma anche l’idea di una circolarità naturale (del giorno dopo la notte, delle stagioni, ecc.), in verità è anch’essa una semplificazione: ogni struttura che si pretenda costante e oggettiva è una costruzione e deve essere rifiutata a favore dell’individuale, del particolare, del singolare. E, ovviamente, anche l’idea di un inizio e di una fine assoluti del tempo e della storia va scartata come proiezione: un’originaria età dell’oro, per non parlare dell’idea di creazione, e l’utopia di un fine ultimo che orienta e governa la storia possono tutt’al più rassicurare l’uomo, ma sono rassicurazioni che conducono, alla fine e inevitabilmente, a irretirlo e a privarlo della libertà che sembrano garantire.

La linearità orientata della successione degli attimi e la perfetta circolarità del tempo sono assurdità, illusioni, menzogne che assolutizzano indebitamente idee prodotte dall’uomo e storicamente condizionate (un momento iniziale o finale) o che riproducono in modi diversi centralità inesistenti, più che fittizie (di Dio, dell’io, ecc.). Andando al di là non solo e non tanto della pretesa centralità di idea di Dio, ma anche e soprattutto della pretesa centralità gnoseologica dell’io kantiano (Magris richiama l’opportunità di tradurre, con Vattimo, l’“Übermensch” nietzscheano con “oltreuomo”; L’anello di Clarisse 5), la filosofia deve assumere uno sguardo obliquo, per collocare il proprio punto di vista in quell’“attimo immenso” che si tende ad abbracciare tutte le temporalità e frantuma ogni idea di successione, di finalismo. È uno sguardo “obliquo” – “una condizione obliqua”, dice Magris (Quale totalità? 72) – che si svincola dall’apparente stabilità e determinatezza dei termini e dall’apparente stabilità e univocità delle relazioni. Vivere l’eterno ritorno del divenire, vivere ogni attimo come attimo immenso, accettare il riaprirsi del possibile davanti a ogni concetto pensato e davanti a ogni decisione presa, significa

“riuscire a cogliere le interminabili interconnessioni che sussistono tra un istante particolare e gli infiniti altri istanti, reali e possibili, passati e futuri” (Pasqualotto 59). E queste interconnessioni variabili informano non solo l’essere e il pensare dell’individuo, ma anche il linguaggio di Nietzsche.5

A Magris non interessa procedere in questa direzione, perché ormai ha trovato la collocazione del Mito absburgico e soprattutto di quell’“humanitas” che scaturisce dalla “comprensione ed accettazione della condizione umana” (Lontano da dove 155). A Magris basta aver ricostruito e chiarito come quel negativo irriducibile a ragione che si afferma, faticosamente, nei decenni che da Hegel conducono a Nietzsche, si sia stabilizzato come elemento resistente e opaco di fronte a ogni

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