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Com’è noto, il teatro comico latino eredita dalla Commedia Nuova tutta una serie di personaggi stereotipici, i cosiddetti tipi comici, che, nella commedia plautina in particolare, molto più che nella più raffinata commedia terenziana, si presentano come figure prive di una personalità ben definita, le cui caratteristiche essenziali e ricorrenti sono sfruttate a fini puramente comici e senza la pretesa di approfondimenti psicologici e che risentono dunque anche dell’influsso di una comicità più grossolana e tradizionalmente italica, quale quella rappresentata dalla fabula atellana. L’apice della loro vis comica è infatti raggiunto quando Plauto pone questi caratteri come protagonisti di scenette bozzettistiche isolate e spesso ininfluenti ai fini del regolare svolgimento della trama.

I tipi comici fanno la loro comparsa anche nella satira romana, già in Lucilio, l’inventor del genere, e plausibilmente, ancor prima, nell’arcaica satura ennniana233, ma soprattutto nella più matura ed equilibrata satira oraziana, perlopiù come incarnazione di quei vizi di cui si presentano schiavi e contro cui l’autore, nel suo ruolo di moralizzatore, si scaglia per rimproverare i suoi contemporanei. Si tratta di uno dei numerosi elementi distintivi di cui la satira è debitrice nei confronti del teatro comico, il cui influsso gioca un’importanza fondamentale sullo sviluppo del nuovo genere letterario. Tuttavia, un’influenza altrettanto importante sulla satira, e soprattutto sulla satira menippea, la esercita la diatriba ellenistica234, forma di predicazione popolare che risponde ad esigenze genericamente moralistiche, non essendo legata ad indirizzi filosofici specifici, sebbene sia caratteristica soprattutto della scuola cinico-stoica: la diatriba assunse carattere letterario con Bione di Boristene, che ebbe senz’altro una certa influenza su Orazio235, e ne fu un esponente di spicco lo stesso Menippo di Gadara, modello archetipico del genere che da lui prende il nome. Fra le caratteristiche della diatriba rientra anche la caratterizzazione icastica dei vizi attuata tramite la rappresentazione di diverse tipologie umane ed è dunque difficile discernere da quale dei due modelli, quello comico o quello diatribico, derivi la presenza di questo elemento nella satira romana.

233 Pur con le irriducibili difficoltà che comporta un discorso sulle scarse vestigia della satira pre-

luciliana, sembra innegabile che la satura enniana intrattenesse stretti rapporti con il modello comico e che dovesse a sua volta essere uno dei plausibili modelli delle satire varroniane, a prescindere dalla sua stretta appartenenza al genere satirico, ed è dunque in ogni caso significativo rilevare, tra i suoi resti, anche la mordace rappresentazione di un parassita (Enn. sat. 14-19 V.2).

234 Cfr. K. Freudenburg, A. Cucchiarelli, A. Barchiesi, Musa pedestre cit., pp. 137-38; per l’importanza

della diatriba per la satira menippea in particolare, cfr. J. C. Relihan, Ancient Menippean Satire cit., p. 184; E. Courtney, Parody and Literary Allusion cit., p. 87.

80 menippeo dello σπουδογέλοιον, le satire varroniane temperano con la risata le istanze di predicazione etica e divulgazione filosofica su cui si fondano, e non è sempre facile distinguere quanto la presenza di certi caratteri sia determinata da finalità comiche o quanto invece sia dettata da esigenze di rappresentazione moralistica.

Tuttavia, ritengo che, grazie ad elementi interni alla loro rappresentazione o ad elementi esterni relativi al contesto della satira di appartenenza, in almeno quattro casi si possa essere relativamente certi che la raffigurazione di alcuni personaggi nelle Menippee si avvicini più a quella della Commedia che a quella della diatriba: così all’interno della satira Ἀνθρωπόπολις la presenza dell’usuraio e del padre spilorcio va senza dubbio inquadrata nel contesto di una predicazione moralistica contro l’avarizia, ma i due personaggi appaiono protagonisti delle loro scenette umoristiche, si esprimono e si atteggiano come le loro controparti comiche e arrivano addirittura, quasi per un gioco “metateatrale”, a citare Plauto; in Manius la rappresentazione del parassita, seppure inserita nell’ambito della contrapposizione, piuttosto usuale nelle satire varroniane, fra passato glorioso e presente corrotto, risulta, per espressività e per vivacità linguistica, all’altezza della migliore tradizione comica; in Quinquatrus la derisione investe invece il tipo del medicus, uno di quei «professional types», di quei personaggi minori legati al mondo delle professioni e forieri di gustose possibilità comiche, che il teatro latino deriva direttamente dalla Nea236 e che sono estranei alla diatriba; si ha infine la presenza di un vero e proprio personaggio farsesco nella satira Pappus aut index, il cui titolo, sebbene l’opera sia conservata in maniera estremamente lacunosa, sembra dare certezza della partecipazione alla trama, verosimilmente in veste di protagonista, di questa figura ricorrente della fabula Atellana.

Nelle pagine che seguono proporrò quindi un’analisi di queste quattro satire che sia finalizzata non soltanto ad appurare quali siano le circostanze e le modalità rappresentative secondo cui questi personaggi fanno la loro comparsa nelle Menippee, ma anche a porre in luce i vari elementi comici che, sempre sullo sfondo di istanze etico-morali, caratterizzano le opere stesse in cui sono inseriti. Mostrare, insomma, come la loro presenza risponda a una finalità inscindibilmente duplice, che consiste nella necessità profonda di criticare i vizi e le degenerazioni del presente, da un lato, e nell’esigenza immediata di attrarre il lettore suscitandone il riso, dall’altro - coerentemente, del resto, con l’obiettivo generale che Varrone

236 Sulle caratteristiche e la ricorrenza nel teatro latino di questo genere di personaggi minori, cfr. G. E.

81 si era prefisso nel comporre le sue Menippee, ovvero quello di trattare temi di filosofia e dialettica, ma allietati da una certa hilaritas che potesse invogliare i meno dotti alla lettura237.

82 Della satira intitolata Ἀνθρωπόπολις possediamo poveri resti: sono infatti soltanto sei i frammenti che Nonio Marcello ce ne ha tramesso, tutti però, ed è cosa di non poco conto ai fini interpretativi, legati da identità di soggetto, giacché sembrerebbero unanimemente affrontare il motivo, piuttosto ricorrente nelle Menippee, dell’avaritia.

Gli studiosi sono sostanzialmente concordi in merito all’interpretazione del titolo e, conseguentemente, dell’argomento generale della satira. Nonostante le oscillazioni della tradizione manoscritta, ben comprensibili, dal momento che si tratta di un termine greco e per di più di un composto verosimilmente coniato da Varrone, visto che non se ne conoscono altre attestazioni238, esso non è mai stato oggetto di discussione: si tratterebbe della “città degli uomini”, del mondo reale239, attraversato da vizi e scelleratezze di ogni genere, a cui farebbe da contraltare la città ideale spesso vagheggiata dai filosofi e che lo stesso Varrone descriverebbe in un’altra delle sue Menippee, Marcopolis240, così che Della Corte si è spinto addirittura a suggerire un confronto, forse azzardato ma di certo suggestivo, con l’opposizione agostiniana fra città degli uomini e città di Dio241. È possibile inoltre, come nota Cèbe, rifacendosi ad un’ipotesi di Mras242, che Varrone, identificando il mondo con la grande “città degli uomini”, lo contrapponga alle città particolari storicamente determinate e faccia dunque propria la concezione stoico-cinica del cosmopolitismo, che, come sottolinea giustamente lo studioso francese, si manifesta altrove nelle Menippee, in maniera anzi ancor più esplicita laddove si definisce il mondo (mundus; tellus) la grande e sempiterna dimora (domus) degli uomini243.

238 Cfr. Thesaurus Graecae Linguae s.v. ἀνθρωπόπολις.

239 Il primo ad affacciare questa esegesi fu, a quanto consta, Oehler (cfr. F. Oehler, M. Terentii Varronis

cit., p. 97: «Ἀνθρωπόπολιν puto mundum Varroni dici.»).

240 Cfr. su questo, in particolare, E. Bolisani, Varrone menippeo cit., p. 24 e J.-P. Cèbe, Varron. Satires Ménippées cit., vol. 2 (1974), p. 145; sulla satira Marcopolis cfr. la recentissima analisi proposta da I.

Leonardis, La città ideale e i limiti della riflessione filosofica. La Marcopolis di Varrone in «Latinitas» s. n. VI. 1 (2018), pp. 17-33.

241 Cfr. F. Della Corte, La poesia di Varrone reatino ricostituita, Torino 1938, p. 60: «Anthropopolis è

forse la più vicina di ogni altra satira al De civitate dei di Agostino, il quale scrive (15, 1, p. 53, 12 D.):

quod in dua genera distribuimus, unum eorum qui secundum hominem, alterum eorum qui secundum Deum vivunt, quas etiam mystice appellamus civitates duas, hoc est duas societates hominum […].». 242 Cfr. J.-P. Cèbe, Varron. Satires Ménippées cit., vol. 2 (1974), pp. 145-6; K. Mras, Varros menippeische Satiren und die Philosophie, in «NJA», 33 (1914), p. 411.

243 Fr. 92 B. (Dolium aut seria): mundus domus est maxima homulli […]; fr. 437 B. (Pseudaeneas): per aeviternam hominum domum tellurem propero gradum. A tal proposito, è degno di nota, anche se forse

più vago e generico, il pensiero che Seneca in Cons. Helv. 8, 1 attribuisce proprio a Varrone: aduersus

ipsam commutationem locorum, detractis ceteris incommodis quae exilio adhaerent, satis hoc remedii putat Varro, doctissimus Romanorum, quod quocumque uenimus eadem rerum natura utendum est.

83 Certo, non è immediatamente chiaro come si debba collegare l’argomento generale dell’opera, come sembrerebbe esplicitato in questi termini dal titolo, con la tematica affrontata dai passi superstiti, ma si tratta di una difficoltà facilmente aggirabile, anche se ovviamente solo in via ipotetica: è infatti verosimile supporre, come fa gran parte dei commentatori, che la cupidigia e l’amore smodato per il lusso e le ricchezze figurassero in maniera prominente fra i mali che affliggono la città degli uomini.

Ciò che crea invece delle effettive difficoltà è stabilire in quale maniera si debba interpretare il criptico sottotitolo περὶ γενεθλιακῆς. Va detto, innanzitutto, che la lezione γενεθλιακῆς, nonostante le prevedibili incertezze dei codici, è pressoché certa244 ed è stata infatti accolta da tutti gli editori moderni, eccetto Bolisani, la cui proposta di correzione γενεθλακῆς è certamente da scartare, sia perché si tratta di un termine non altrimenti attestato, sia perché, oltretutto, non contribuisce in alcun modo a chiarire la situazione. È evidente che, in unione all’aggettivo femminile γενεθλιακή, vada sottinteso un sostantivo, che buona parte dei commentatori identifica in ἡμέρα, ad indicare quindi “il giorno anniversario, il natalizio”, sebbene non sia immediatamente chiaro quale sia la possibile relazione fra il natalizio e il tema dell’avaritia o il probabile argomento generale della satira245. Ha ragione Cèbe nel far notare che il sostantivo da sottintendere all’aggettivo γενεθλιακή non è necessariamente ἡμέρα e che è possibile supplire anche con ἀστρολογία o τέχνη (era infatti piuttosto usuale che, per designare l’astronomia, ai termini ἀστρολογία o ἀστρονομία venisse accostato l’epiteto γενεθλιακή), intendendo dunque il sottotitolo della satira varroniana come “sull’astronomia”246. Lo studioso francese confessa però che anche questa seconda ipotesi non risolve le difficoltà già presentatesi per la prima - non si capisce infatti perché si dovrebbe discutere dell’avaritia in una satira sull’astrologia e che cosa abbiano in comune i sei frammenti conservati con la scienza astrologica - e perciò ritiene che la soluzione migliore sia, seguendo Riese, ammettere di non essere in grado di capire cosa abbia voluto dire il compilatore che ha apposto questo sottotitolo ad Ἀνθρωπόπολις247.

244 Cfr. su questo J.-P. Cèbe, Varron. Satires Ménippées cit., vol. 2 (1974), p. 147: «Les manuscrits,

quelles que soient leurs divergences, ont tous un mot en –ιακης et deux leçons de G (p. 226 et 379), τενεθλιακης et γενεθαιακης, obligent pratiquement à rétablir γενεθλιακῆς […]»

245 Desta senza dubbio perplessità l’ipotesi di Della Corte di collegare la nascita al concetto pitagorico

della palingenesi, che ha come unico appiglio una testimonianza di Varrone (gente p. R., fr. 2 Fr.), riportata da Aug. civ. XXII 28, in cui si fa riferimento a degli astrologi (genethliaci quidam) che si sono fatti portavoce di questa concezione; cfr. F. Della Corte, Varronis Menippearum fragmenta cit., p. 154. Su questa teoria condivido le obiezioni sollevate da Cèbe, alle cui pagine rimando direttamente (J.-P. Cèbe, Varron. Satires Ménippées cit., vol. 2 (1974), pp. 148-49).

246 Così intende ad esempio Krenkel, che traduce il sottotitolo con il tedesco «über Astrologie». 247 Cfr. A. Riese, M. Terenti Varronis cit., p. 103: «Fateor tamen me nescire et quid significet ille qui

περὶ γενεθλιακῆς addidit, et quonam cum saturae argumento conexu fragmenta, ad avaritiam omnia fere spectantia, cohaereant.»

84 parole περὶ γενεθλιακῆς come dipendenti da ἡμέρας e le si traduca dunque “sul giorno anniversario”, esse sarebbero l’esatto corrispondente greco del latino de die natali, titolo di un’opera di Censorino; ma egli aggiungeva anche che questa concordanza non conduce a niente di concreto, dal momento che, per lo stato miserevole in cui ci è giunta la satira varroniana, non sapremmo dire se essa avesse o meno delle analogie con il de die natali, visto che dei numerosi soggetti affrontati in quest’opera, non è possibile porne nessuno in relazione con il tema dell’avaritia attorno al quale ruotano i resti di Ἀνθρωπόπολις 248. Ritengo invece che, analizzandola un po’ più da vicino, dall’opera di Censorino si possano trarre spunti interessanti, che possono forse contribuire a fare luce anche sulla menippea in questione. Innanzi tutto, va detto che il de die natali appare suddiviso in due parti ben distinte, ma non tematicamente scisse249: una prima parte, aperta dalla dedica-elogio del destinatario Q. Cerellio (cap. 1), che tratta dei vari aspetti relativi alla nascita umana (capp. 2-14), e una seconda, inaugurata da una ulteriore allocuzione al dedicatario, una sorta di “prologo al mezzo” (cap. 15), che è invece dedicata allo studio del tempo e alle sue varie suddivisioni (cronografia) (capp. 16-24), a indicare che per gli antichi astrologia e genetliaco erano intimamente connessi e che probabilmente in quel περὶ γενεθλιακῆς fossero sottintesi, inscindibilmente, entrambi i significati (e del resto, le attestazioni del termine genethliacus, in ambito latino, sono da questo punto di vista eloquenti250). Nel corso dell’opera, Censorino fa frequentemente riferimento a Varrone, spesso in maniera esplicita, e ciò costituisce una chiara testimonianza di un interesse dell’erudito Reatino per l’astrologia e la cronologia, della quale ultima sembra si sia occupato soprattutto nelle Antiquitates251, ma variamente, probabilmente in maniera più cursoria, anche in altre opere. Ora, al capitolo 18 del de die natali, Censorino affronta l’argomento dei grandi anni, ovvero quei «cicli di anni escogitati dagli astronomi per mettere d'accordo l’usuale calendario lunare con il corso del Sole»252 e fa riferimento, fra gli altri, anche ad Aristotele (ma il valore della testimonianza di Censorino, e dunque l’attribuzione ad Aristotele di questo concetto, sono dubbi253), che aveva definito maximus

potius quam magnus il più lungo e perfetto fra i grandi anni, l’anno sidereo o astronomico, che

si compie quando le orbite del Sole, della Luna e delle cinque stelle vaganti riconducono questi astri al medesimo punto, cioè sotto la medesima costellazione, in cui si erano trovati insieme

248 Cfr. J.-P. Cèbe, Varron. Satires Ménippées cit., vol. 2 (1974), p. 148.

249 Su questo cfr., ad esempio, V. Fontanella, Censorino, Il giorno natalizio. Introduzione, traduzione e

note a cura di V. Fontanella, Bologna 1992, pp. 17-8.

250 Cfr. Thesaurus linguae Latinae s.v. genethliacus, -a, -um. 251 Cfr. Aug. civ. VI 3.

252 C. A. Rapisarda, Censorini De die natali liber ad Q. Caerellium. Prefazione, testo critico, traduzione

e commento a cura di Carmelo A. Rapisarda, Bologna 1991, p. 215.

85 quando, originariamente, avevano principiato il loro corso. Questo anno sarebbe caratterizzato da un inverno e un’estate particolarmente rigidi, che si concretizzerebbero, rispettivamente, in un kataklysmos, un diluvio, e un’ekpyrosis, una conflagrazione, fenomeni che, pur essendo presenti nella memoria storico-mitica di molte popolazioni antiche, sono riconducibili, in maniera specifica, al pensiero di ascendenza stoica254. Anche Varrone sembra aver fatto riferimento, nelle Menippee stesse, a questa dottrina stoica, in particolare nella satira che porta il titolo allusivo di Κοσμοτορύνη, composto scherzoso ottenuto dall’unione fra κόσμος, “universo”, e τορύνη, “mestolo”, e che presenta il sottotitolo esplicativo περὶ φθορᾶς κόσμου (nei testi stoici l’ἐκπύρωσις, la conflagrazione dell’universo, è spesso chiamata φθορὰ κόσμου255). I passi conservati della satira non affrontano da vicino le teorie sulla fine dell’universo e sembrano invece riguardare le guerre civili e la caducità degli esseri umani e delle cose del mondo, ma, poiché già Menippo aveva messo in ridicolo la dottrina stoica dell’ekpyrosis nel suo Simposio, in cui aveva chiamato proprio κόσμου ἐκπύρωσις una danza da lui inventata per allietare i suoi convitati (riportato da Ateneo, XIV, 629f) e poiché, soprattutto, in altri passi Varrone parrebbe sposare la teoria dell’immortalità del cosmo256, si è ritenuto perlopiù che in questo componimento la teoria dell’ekpyrosis vi venisse derisa e ridicolizzata257. Tuttavia, i concetti stoici di kataklysmos ed ekpyrosis non implicano necessariamente e sistematicamente la distruzione dell’universo, ma possono anche, più banalmente, indicare un rimescolamento degli elementi che segna il passaggio da un’epoca a un’altra, come sembrerebbe potersi desumere dal cap. 21 del de die natali, in cui Censorino riporta la teoria varroniana della divisione del tempo “storico” in tre epoche ben distinte:

tempus ἄδηλον; tempus μυθικόν; tempus ἱστορικόν. È significativo che secondo Varrone il

passaggio dalla prima alla seconda epoca sia scandito dal verificarsi del kataklysmum priorem, identificato nel diluvio di Ogige, e che, allo stesso tempo, sia impossibile dire se questo primo intervallo di tempo - definito per l’appunto “oscuro, ignoto” (ἄδηλον) per la mancanza di conoscenza che gli uomini possiedono di esso - abbia avuto un inizio o sia invece sempre esistito258. Sembra dunque lecito sostenere che nella visione cronologica e cosmologica

254 Cfr. ibid., p. 229.

255 Cfr. J.-P. Cèbe, Varron. Satires Ménippées cit., vol. 6 (1983), p. 1045 e i numerosi riferimenti

bibliografici citati alla n. 17.

256 Frr. 84 B., De salute (Varro autem in satura quae scribit de salute ait mundum haud natum esse neque mori) e 268 B., Manius (nec natus est nec morietur: viget, veget, utpote plurimum).

257 Cfr. E. Bolisani, Varrone menippeo cit., pp. 127-8; A. Marzullo, Le Satire Menippee cit., p. 39; E.

Paratore, L’aspetto poetico cit., p. 258, n. 56; R. Astbury, Select Mennippean Satires of Varro, diss. Liverpool 1963, pp. 42-3; J.-P. Cèbe, Varron. Satires Ménippées cit., vol. 6 (1983), p. 1046: «Que Varron se soit livré dans Κοσμοτορύνη à une dérision de la φθορὰ κόσμου stoïcienne, rien n’est plus plausible.».

258 Cfr. Cens. XXI 1: […] Hic [scil. Varro] enim tria discrimina temporum esse tradit: primum ab hominum principio ad cataclysmum priorem, quod propter ignorantiam vocatur adelon, secundum a cataclysmo priore ad olympiadem primam, quod, quia multa in eo fabulosa referuntur, mythicon

86 come si è visto, nella prospettiva degli antichi, genetliaco e astrologia, con tutti i corollari che ne conseguono (astronomia, teorie sulla nascita e la fine dell’universo, studi di cronologia), erano nozioni inscindibili ed è quindi possibile che nella satira Ἀνθρωπόπολις Varrone facesse riferimento al “compleanno” del cosmo e si augurasse, o meglio premonisse, alludendo al concetto dell’annus maximus e dell’ekpyrosis, per la grande “città degli uomini”, attraversata da devastazioni e vizi (in primis l’avaritia), un passaggio ad una nuova epoca (è plausibile del resto immaginare un simile scenario anche in Κοσμοτορύνη259).

Non molto si può aggiungere, rispetto a quanto si è già detto, per quanto riguarda, più nello specifico, i frammenti conservati e, conseguentemente, la possibile trama della satira: i passi trattano tutti, sebbene secondo modi e tonalità differenti, della cupiditas, dell’eccessivo amore per il guadagno e dell’avarizia. Uno dei frammenti traditi (fr. 36 B.), consta di tre esametri e fa mostra di uno stile piuttosto sostenuto e ricercato, così come di un’intonazione solenne, si potrebbe quasi dire gnomica. I restanti passi, decisamente più prosastici e caratterizzati da lingua e tono popolareggianti, sembrano invece affrontare il tema dal punto di vista particolare dell’usura (sicuramente il fr. 37 B., in cui si parla di un avarus fenerator, ma forse, anche il fr. 41 B.) e delle spese da affrontare per un matrimonio (fr. 38 B., in cui si menziona la dote; fr. 39 B., in cui si parla delle spese onerose che comporta la cerimonia nuziale; fr. 40 B., nel quale si evocano le vivande pregiate che si devono offrire per il banchetto matrimoniale). È perciò possibile che il fr. 36 B. costituisse una sorta di introduzione generale al tema dell’avaritia, che sarebbe stato poi affrontato, in maniera più approfondita, nelle sue diverse manifestazioni specifiche, allestendo diverse scenette dall’intonazione fondamentalmente comica, oltreché satirica. E questo non soltanto per il lessico e il registro stilistico, che sono vicini per molti aspetti alla lingua d’uso e sarebbero dunque già di per sé un punto di contatto con la

nominatur, tertium a prima olympiade ad nos, quod dicitur historicon, quia res in eo gestae veris historiis continetur. Primum tempus, sive habuit initium, seu semper fuit, certe quot annorum sit, non potest conprehendi. […]; è indicativo che Varrone scelga di far iniziare la narrazione del de gente populi Romani proprio dal diluvio di Ogige, ritenendo che non vi sia stato nulla di relativo alla storia romana

che possa essere collocato precedentemente a questo (cfr. Aug. civ. XVIII 8).

259 Cfr. J.-P. Cèbe, Varron. Satires Ménippées cit., vol. 6 (1983), pp. 1046-7: «Ce qui nous est parvenu

de l’œuvre elle-même ne vise pas à illustrer la pérennité de l’univers, mais à montrer que, dans cet univers immortel, les cités des hommes sont, elles, caduques et condamnées à disparaître par les folies et les turpitudes de leurs populations. Lorsque, dans l’Urbs du Ier siècle avant notre ère, on parlait de la

guerre, notamment de la guerre civile, et du luxe […], ce n’était pas pour établir que le κόσμος ne finira

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