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Compaiono in questi versi alcune figure tipiche del genere pastorale, che il

JACOPO SANNAZARO

79. Compaiono in questi versi alcune figure tipiche del genere pastorale, che il

Sannazaro aveva praticato già nell’Arcadia, come i Fauni e le Ninfe, e gioiscono anch’essi per le gesta eroiche (l’opre alte e leggiadre) di Ferrandino incidendole sui tronchi degli alberi, sull’erba e sui fiori, così da renderlo famoso per migliaia di anni sulla terra (che ’l faran vivo oltra mille anni in terra). La strofa è da intendersi in parallelo con la seconda, sulle divinità marine, e viene a rappresentare in questo senso il potere che Ferrandino esercita sulla terra non meno che sulle acque (come si legge ai vv. 12-13). Le divinità dei boschi dunque rendono anch’esse omaggio al nuovo sovrano. L’attacco della strofa ricorda ancora Petrarca, RVF 53, 38-39: «O grandi Scipïoni, o fedel Bruto, / quanto v’aggrada, s’egli è anchor venuto / romor là

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tosto fia lieta questa antica madre d’un tal marito e padre

più che Roma non fu de’ buoni Augusti, ché ’l ciel non è mai tardo a’ preghi giusti.

Benigni fati, che a sì lieto fine 85

scorgete il mondo e i miseri mortali e li degnate di più ricco stame, se mitigar cercate i nostri mali e risaldar li danni e le ruine,

acciò che più ciascun vi pregi et ame, 90

fate, prego, che ’l cielo a sé non chiame, fin che natura sia già vinta e stanca, questi che è de virtù qui solo esempio;

giù del ben locato officio!». 80-84. Antiveder è termine di origine dantesca (If. XXVIII 78: che, se l’antiveder qui non è vano e Pg. XXIII 109: ché, se l’antiveder

qui non m’inganna). L’antiveder è in questo caso fallace, poichè Ferrandino non avrà

un glorioso e lungo futuro, ma morirà un anno dopo essere divenuto re (RICCUCCI

2000, p. 273).Da notare la chiusa gnomica e sentenziosa, come già nella prima («ché raro alta virtù sepolta giace») e nella terza stanza (« ché ’l cielo a tanto ben volse servarlo»). Il verso 82 è modellato invece su Petrarca, RVF 53, 82: «Tu marito, tu padre». 85-90. Benigni i fati come già la Fortuna al v. 12. Miseri mortali è clausola di ascendenza classicheggiante: «… δειλοĩσι βροτοĩσιν» (Omero, Iliade, XXII, 31 e 76, Odissea, XV, 408 ecc.); «mortalibus aegris» (Virgilio, Eneide II, 268; X, 274; XII, 850) e «miseris mortalibus» (Virgilio, Georgiche III, 66; Eneide XI, 182); ripresa da Dante (Pd. XXVIII, 2) e Petrarca (RVF 216, 2 e 355, 2). Stame (da intendersi lo stame della vita, il filo a cui è legato il destino di ogni uomo, che le

Parche filano e recidono) si ha in RVF 296, vv. 4-7: «Invide Parche, sì repente il fuso / troncaste, ch’attorcea soave et chiaro / stame…». Da vedere anche la solita canzone

Spirto gentil (RVF 53, 35-36: « […] / et tutto quel ch’una ruina involve, / per te spera

saldar ogni suo vitio»). Stesso sintagma, in questi Sonetti e canzoni, a I, 8: « mi farebbon temer ruina o danni». 91-95. Si avverte qui un presagio della fine prematura di Ferrandino. Proteo invita i fati a evitare che il cielo chiami a sé Ferrandino, che è

de virtù qui solo esempio. Il verso 92 ricorda Petrarca, RVF 228, 4: «ogni smeraldo

avria ben vinto et stanco». 96-98. Al v. 97 si conclude la profezia di Proteo che, seguendo il cliché, tace e si immerge nelle acque marine. Il balzo di Proteo nelle profondità marine si trova già nell’Odissea IV v. 570: «ὣς εἰπὼν ὑπό πόντον ἐδύσετο

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ma di sue lodi in terra un sacro tempio

lasce poi ne la età matura e bianca; 95

ché, se la carne manca,

rimanga il nome. – E così detto, tacque, e lieve e presto si gettò ne l’acque. Su l’onde salse, fra’ beati scogli

andrai, canzon; ché ’l tuo signore e mio 100

ivi del nostro ben pensoso siede. Bascia la terra e l’uno e l’altro piede, e vergognosa escusa il gran desio che mi ha spronato, onde io

di dimostrar il core ardo e sfavillo 105

al mio gran Scipïone, al mio Camillo.

κυμαίνοντα » e nelle Georgiche IV 528: «Haec Proteus et se iactu dedit aequor in altum». Il Sannazaro se ne ricorderà anche nel finale del De partu Virginis, dove è il fiume Giordano a imitarne il gesto atletico (III, 503: «Atque ita se tandem currenti reddidit alveo»). 99-100. Inizia al v. 99 il congedo e il poeta si rivolge direttamente alla canzone, invitandola a recarsi sulle onde salate e fra gli scogli beati. Onde salse è già in RVF 28, v. 32: «E ’ntra ’l Rodano e ’l Reno et l’onde salse», e nel Triumphus

Pudicitie v. 163: «Era il triumpho dove l’onde salse / percoton Baia…». 101. Si veda

ancora Petrarca, RVF 53, 101: «Un cavalier ch’Italia tutta honora, / pensoso più d’altrui che di se stesso». 102. Bascia e piede in RFV 208, v. 12: «Basciale ’l piede, o la man bella et bianca». 103-104. Gran desio è espressione tipicamente petrarchesca, in RVF 11, v. 3: «Poi che in me conosceste il gran desio»; 71, v. 18: «Ma contrastar non posso al gran desio», et alia. 105. Ardo e sfavillo sono ben noti termini del lessico petrarchesco, per cui si può rinviare a RVF 127, 65: «li veggio sfavillare,

ond’io sempre ardo». 106. La canzone si chiude con un ultimo ricordo, nella comune

impostazione encomiastica, della petrarchesca Spirto gentil (RVF 53, 37: «O grandi Scipïoni, …».

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CANZONE XXV

È la seconda canzone che si incontra nella raccolta sannazariana, ed è componimento di natura amorosa. All’interno del testo non si rilevano elementi utili a stabilire con qualche precisione la cronologia. Il tema della canzone XXV è quello dell’amore ingannatore, dell’amore che irretisce il poeta innamorato e diventa motivo primo di sofferenza e di tanti e diversi tormenti (v. 3). Nel regno di Amore (che appare, personificato, fin dal primo verso), il poeta vede un carcere pieno di orrore, di sospiri e d’affanni (v. 5) che lo spinge a rammaricarsi di non essere morto prima di divenire sua preda. Il poeta appare confuso e amareggiato e si chiede come sia possibile che dietro i due bellissimi occhi della donna amata si nascondano così tanti inganni (tante reti e

lacciuoli, v. 14). É qui ripreso un tema tipico della poesia amorosa: la

concezione dell’amore come sofferenza che genera infiniti tormenti nell’animo del poeta, privandolo della sua libertà. È l’amore-sofferenza,

topos già presente nella poesia classica, dove l’amore è considerato

spesso come un’affezione patologica alla stregua della follia, ed è topos che torna nella lirica amorosa due-trecentesca: si veda ad esempio la canzone di Cavalcanti La forte e nova mia disavventura (Rime, XXXIV) o alcune rime di Dante, in particolare quelle che vengono definite «petrose». Lo stesso tema si ripropone infine anche in Petrarca, e Sannazaro si inserisce perfettamente in questa concezione dell’amore che ne caratterizza con particolare insistenza il dettato poetico.

La canzone XXV si modella quanto alla struttura metrica sulla petrarchesca Che debb’io far? che mi consigli, Amore? (RVF, 268) che

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tecnicamente è il planctus per la morte di Laura, e presenta quindi una serie di elementi tristi e malinconici. Partendo dal modello petrarchesco, Sannazaro compone una canzone che mostra gli effetti devastanti dell’amore sul poeta, che adora un che me strugge, un che m’uccide (v. 30). Ma le affinità finiscono qui (escludendo solo l’incredibile somiglianza tra i congedi delle due canzoni). Il componimento sannazariano infatti si differenzia dall’archetipo petrarchesco in quanto nella canzone 268 il poeta, con tono malinconico, ricorda l’amore per la donna amata e ne piange la scomparsa, mentre nel testo sannazariano si delinea una visione esiziale dell’amore, visto come sentimento implacabile che conduce fatalmente il poeta/innamorato alla morte. Maggiori elementi di affinità si colgono a questo proposito con un’altra canzone petrarchesca, la 207 dei Rerum Vulgarium Fragmenta, che è alla base anche della successiva numero XLI di queste Rime. L’amore conduce dunque alla morte e la donna amata è crudele (cruda, v. 46) e fa soffrire il poeta, secondo un topos tipico della lirica amorosa fin dalle sue origini, non solo in ambito italiano (basti ricordare la donna/domina dei provenzali). E come non richiamare a questo proposito la già citata canzone La forte e nova mia disaventura di Cavalcanti (Rime XXXIV), dove emerge tutta la «concezione dell’amore come forza distruttiva, annichilante» (MENGALDO 2008, p. 22). Si affaccia inoltre la classica fenomenologia del morbus amoris, che si manifesta con una serie tipica di sintomi tradizionalmente codificati. Ai versi 56-58 il poeta è magro e

pallido, è preda della sua tristezza, e si aggira fuori di sé per selve e

campagne; arriva addirittura a desiderare la morte piuttosto che continuare a disperarsi e a piangere (vv. 65-66). Nel congedo, come di norma, il poeta si rivolge alla canzone stessa invitandola a non far parola

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con nessuno del suo «mal d’amore», e anzi ad andare per la sua strada

dolente e desperata, senza salutare nessuno, seguendo le stesse

indicazioni di Petrarca RVF 268: «Fuggi ’l sereno e ’l verde, / non t’appressare ove sia riso o canto, / canzon mia no, ma pianto: / non fa per te di star fra gente allegra, / vedova sconsolata in veste negra».

METRO: Canzone di sette stanze di undici versi, di cui quattro settenari, a schema AbCAbC cDdEE e congedo di 5 versi: wXxYY. È lo stesso schema della celebre canzone petrarchesca Che debb’io far? che

mi consigli, Amore? (RVF 268), ripreso anche nelle due disperse

sannazariane XVIII (Che pensi e indietro guardi, anima trista?) e XXV (Chi pon freno al dolor o per qual modo).

59 XXV

Ben credeva io che nel tuo regno, Amore, fossin frodi et inganni,

ma non tanti tormenti e sì diversi.

Or veggio un carcer pien di cieco orrore,

di sospiri e d’affanni, 5

che maledico il dì che gli occhi apersi. Misero, a che ti offersi,

senza conoscer pria tua mente cruda, l’alma semplice e nuda?

Allor fusse ella di su’ albergo uscita! 10

ché bello era il morire in lieta vita.