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SUL CONCETTO DI GENERE GRAMMATICALE

2. IL GENERE COME CLASSE NOMINALE E L’ANIMATEZZA COME CATEGORIA CONCETTUALE UNIVERSALE

2.1 SUL CONCETTO DI GENERE GRAMMATICALE

I generi, detti anche classi nominali, costituiscono una categoria grammaticale flessionale che opera essenzialmente sugli elementi del sistema nominale (sostantivi, aggettivi, pronomi, numerali, ecc.). Ad esempio, i due morfemi del maschile e del femminile sono i due valori che può, e deve assumere, in italiano tale categoria. In altre lingue, com’è noto, o non esiste il genere (ad esempio in inglese), o il genere può essere marcato per più di due valori, per esempio tre, maschile, femminile e neutro (così nelle lingue slave, o in latino, greco e tedesco), o anche di più. Il navaho, ad esempio, ha tredici morfemi per marcare i diversi valori della categoria corrispondente al nostro genere, vale a dire le diverse classi di nomi differenziate su una base fondamentalmente semantica2.

Da queste nozioni di carattere generale si deduce in primo luogo che la marca del genere in una data lingua non è un fatto per niente scontato e che, in secondo luogo, il criterio sessuale non è l’unica base semantica sulla quale le varie lingue possono operare una distinzione morfologica tra un genere e l’altro. Si consideri ad esempio il caso dell’inglese, per il quale la categoria del genere non opera alcuna distinzione nell’ambito della morfologia nominale. D’altra parte invece, la lingua latina disponeva di tre generi morfologicamente marcati – maschile, femminile, neutro – mentre l’italiano nel corso della sua storia ha ridotto da tre a due i valori che tale categoria può assumere – maschile, femminile. Queste considerazioni costituiscono l’itinerario prospettico su cui basare la presente analisi diacronica sull’espressione della categoria dell’animatezza nelle lingue slave: proprio perché non è

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G. BERRUTO, Corso Elementare di Linguistica, UTET, Torino 1997, p.61 e G.BERRUTO, Nozioni di linguistica Generale, LIGUORI editore, Napoli 1976, pp.108-109.

possibile dare per scontata l’attuale struttura morfologica di lingue come il bulgaro e il russo, prendere in esame l’evoluzione storica delle categorie grammaticali slave, ci permetterà di capire quali processi abbiano incoraggiato determinati risultati piuttosto che altri e come ciò sia potuto avvenire. Inoltre, nell’attribuzione di una marca dell’animatezza nelle lingue slave flessive, la categoria del genere grammaticale, così come quella del numero, ha occupato sia da un punto di vista diacronico, sia da un punto di vista sincronico, un ruolo di primissima importanza. A questo proposito sarà interessante capire in che misura il ruolo svolto dal genere o dal numero nell’attribuzione di una marca dell’animatezza – nel nostro caso il genitivo-accusativo – sia legato a criteri semantici, piuttosto che sintattici o viceversa. Ma procediamo con ordine e spendiamo ancora alcune parole sulla nozione di genere grammaticale.

Secondo l’indoeuropeista Francisco Villar la divisione in generi, diciamo due per semplicità, maschile e femminile, è del tutto arbitraria e priva di utilità semantica. Innanzitutto se è possibile dividere tra maschi e femmine la maggior parte delle specie viventi, non è assolutamente possibile dividere secondo lo stesso criterio concetti astratti o oggetti, come libro e agenda3. “Che cosa c’è di più arbitrario del designare globo o stivale con parole che corrispondono al genere dei maschi e, al contrario, lampada o macchina con parole di quello delle femmine?”4. D’altra parte questo ragionamento può essere agevolmente esteso anche al campo degli esseri viventi, dove per gli animali o esseri umani di cui ci interessa il sesso, lingue come l’italiano utilizzano termini completamente diversi tra loro: uomo/donna, padre/madre,

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F. VILLAR, Gli Indoeuropei e le Origini dell’Europa, il Mulino, Bologna 1997, pp.280-289.

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maiale/scrofa, fratello/sorella, ecc.5. Nelle lingue che al contrario dell’italiano hanno un solo genere, questo procedimento lessicale è tra i più diffusi per distinguere esseri maschili da esseri femminili. A ciò si aggiunga che qualunque lingua può ricorrere a stratagemmi diversi per indicare il sesso di un essere, senza dover necessariamente marcare morfologicamente il genere. E’ il caso delle prime fasi del protoindoeuropeo, dove per distinguere i sessi degli animali, laddove fosse necessario, si ricorreva a espressioni del tipo “una femmina di…”6. Tuttavia Villar, pur negando l’effettiva utilità semantica della divisione in generi, ne evidenzia la grande importanza a livello sintattico, soprattutto per quelle lingue che non hanno un ordine di parole fisso. Il genere in quest’ultimo caso diventa un procedimento importantissimo per capire a quale sostantivo si riferisca un aggettivo o un pronome in caso di più alternative possibili7.

Del resto questo è l’impianto logico attraverso il quale secondo Corbett il genere grammaticale può essere considerato una classe nominale, piuttosto che una categoria semantica essenzialmente connessa con il sesso8. Non a caso la parola genere deriva dal latino genus, termine traducibile con l’italiano “classe”, “tipo”, “specie”. In questo senso il livello di analisi si allargherebbe dal campo della sola semantica o della sola morfologia, al campo della morfosintassi, dove la distinzione tra generi diventerebbe sostanzialmente una questione di concordanza grammaticale, ovvero di accordo tra un sostantivo e gli eventuali aggettivi o pronomi ad esso relativi9.

5 Ibid. 6 Ibid. 7 Ibid. 8

G. CORBETT, Gender, Cambridge University Press, Cambridge 1991.

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M. ARONOFF, Morphology by Itself – Stems and Inflectional Classes, The MIT Press Cambridge, Massachusets 1994, pp. 61-87. Alcuni studiosi, tra cui Meillet o Ernout, hanno ipotizzato che per attribuire il genere ad un dato sostantivo sia necessario fare affidamento alla forma di un eventuale aggettivo ad esso concordato, piuttosto che alla morfologia del sostantivo in sé: “Il existe en

Ma qui non si fraintenda. L’aver presentato la concezione di Corbett, di Villar e di altri studiosi più o meno contemporanei, secondo cui una distinzione semantica tra i generi grammaticali sia del tutto ridondante ai fini del funzionamento della concordanza grammaticale, costituisce in questa sede una questione di metodo piuttosto che di merito10. Dal nostro punto di vista infatti, l’ipotesi elaborata da Villar attribuisce un ruolo immeritatamente secondario all’evoluzione storica dell’espressione della categoria di genere grammaticale in una data lingua: attribuire alla parola lampada la marca del femminile effettivamente ha poco senso da un punto di vista strettamente semantico, ma se si considera che ad esempio un tempo nelle lingue indoeuropee le cose e gli oggetti inanimati venivano marcati abitualmente con le terminazioni di genere neutro, allora il criterio semantico riacquista valore. Diremo piuttosto che al suo esordio un dato morfema, più o meno connesso a determinati criteri semantici, può andare incontro nel corso della sua storia a vari processi di grammaticalizzazione, che sono necessariamente governati anche dai meccanismi della sintassi e che per tale ragione questo stesso morfema può essere eventualmente “svuotato” del suo significato semantico iniziale. Da un’altra prospettiva, accettare invece il postulato secondo cui il genere grammaticale sia solo parzialmente legato a criteri semantici, significa allargare il campo

latin trois genres: le masculin, le féminin, et le neutre. Mais il est dificile de prévoir a priori quel sera le genre d’un mot donné. Le genre masculin ou féminin d’un substantif ne se reconnaît oas à l’examen du substantif même: ainsi nauta est masculin, mais fāgus feminin, quoique en général la finale –a

caractérise les noms feminins, la finale –us les masculins.

C’est l’adjectif qui seul indique d’une manière non ambiguë le genre masculin ou féminin du substantif: un substantif masculin est celui qui est accompagné «de la forme masculine du thème de l’adjectif qui s’y rapporte», un substantif féminin, «celui qui demande la forme féminine de l’adjectif»”, A. ERNOUT,

Morphologie Historique du Latin, Éditions Klincksieck, Paris 1989, pp. 1-2. 10

Nel caso di Villar, restringere il campo dalla semantica alla morfosintassi significa principalmente rifiutare le teorie animiste ottocentesche, secondo le quali la distinzione proto-indoeuropea maschile/femminile/neutro e

animato/inanimato derivava dalla concezione primitiva della natura, per cui tutte le cose potevano essere o meno dotate di un’anima. Cfr. F. VILLAR, Gli

della presente analisi dall’ambito della solo semantica a quello della morfosintassi e comprendere quali altri fattori siano alla base dell’evoluzione storica dell’espressione di una data categoria grammaticale. In altri termini si tratterà di capire come – vale a dire attraverso quali criteri morfologici e sintattici oltre che semantici - le lingue slave abbiano elaborato nella loro evoluzione, dal proto- indoeuropeo al protoslavo prima e dal paleoslavo fino ai nostri giorni poi, una differenziazione tra tre generi (che, come si è visto, potenzialmente può diventare un mezzo morfosintattico per distinguere ciò che è animato da ciò che non lo è), e accanto ad essa una distinzione morfologicamente marcata tra esseri animati e inanimati nel ruolo di causus obiecti. Inoltre, sempre a partire dalla stessa base metodologica, si cercherà di dare una spiegazione all’“anomalia” rappresentata dal bulgaro e dal macedone nell’ambito delle lingue slave, che pur conservando il sistema dei tre generi - maschile, femminile, neutro - hanno perso la marca del genitivo-accusativo per operare una distinzione tra animato e inanimato in funzione di complemento oggetto.

Ma prima di addentrarci in aera slava, la nostra attenzione si focalizzerà in 2.2 sulla nozione di animatezza e nel capitolo 3. sul suo sviluppo in ambito indoeuropeo.