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Il concetto di “latino” nel linguaggio americano della razza

3. Cos’è la razza? Questioni teoriche e metodologiche

3.1 Il concetto di “latino” nel linguaggio americano della razza

Da New York a San Francisco, tra Otto e Novecento, “latino” fu uno degli epiteti razziali più diffusi per identificare gli italiani ed altri immigrati del Sud Europa. Si affermava, ad esempio, sul «New York Times» nel 1901: “il grande afflusso di italiani che ha avuto luogo negli ultimi anni provocherà l’immissione di nuovo e forte elemento latino nel sangue americano”1. Si scriveva sul «San Francisco Call» lo stesso anno: “circa trenta anni fa iniziarono ad arrivare le razze latine. Italia, Spagna e Portogallo presero a mandare qui il loro surplus di popolazione in cerca di maggiori opportunità”2. Tale originaria identità “latina” degli italiani e di altri gruppi dell’Europa meridionale è stata col tempo dimenticata negli Stati Uniti per il fatto che, a partire dal secondo dopoguerra, l’espressione “latini” è andata identificando la popolazione ispano-americana in forte aumento nel Paese. Insieme a “euro-americani”, “afro-americani”, “nativi-americani”, “asiatico-americani”, i “latino-americani” sono diventati una delle cinque categorie “etno-razziali” in cui, a partire dagli anni Settanta, viene solitamente ripartita la popolazione nelle indagini statistiche e nel senso comune. Gli italiani e i loro discendenti, parallelamente in calo sotto il profilo demografico, sono invece andati a comporre, insieme agli altri gruppi di immigrati con origini nel Vecchio Continente, il segmento dei “bianchi euroamericani”, facendo perdere ogni traccia della loro precedente “latinità”3.

La traiettoria storica della “latinità”, da tratto identificante prima dei gruppi del Sud Europa e poi gli ispano-americani, illustra bene il carattere artificiale, socialmente costruito e contestuale della razza. Non solo, infatti, come ha affermato Matthew Jacobson, alcune “razze” quali la mediterranea, la teutone o la celtica, emerse nella “coscienza sociale americana” tra Otto e Novecento, svanirono in seguito sotto il cappello

1

Latin element in the United States, «New York Times», 12 maggio 1901.

2

The New Immigration, «San Francisco Call», 11 gennaio 1901, p. 6.

3

Sul “pentagono” etno-razziale si veda in particolar modo la critica di David A. Hollinger, Postethnic America. Beyond multiculturalism. New York: Basic books, 1995, pp. 19-50. Sull’utilizzo attuale della categoria “latini” in relazione agli ispano-americani si veda: Jeffrey S. Passel, Hispanic/Latino ethnicity and identifiers, in M.J. Anderson et alii (a cura di), Encyclopedia of the U.S. census. From the constitution to the American

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unitario della “razza caucasica”4; ma alcune “razze”, come la latina, sopravvissero mutando il loro “oggetto” di identificazione da un gruppo a un altro. Il passaggio di testimone della “latinità” dagli italiani agli ispanici fu tutt’altro che lineare. Anche gli immigrati messicani, sul finire dell’Ottocento, erano considerati “latini”; la nozione di “America latina” si affermò proprio in quel secolo come riflesso della trasposizione oltreoceano della distinzione di natura geografica e “razziale” del Vecchio Continente tra un nord “anglo-sassone” e protestante e un sud cattolico e “latino”5. Ciononostante, come vedremo nel capitolo, furono soprattutto alcuni gruppi europei, e in particolar modo gli italiani, ad incarnare la “latinità” agli occhi dell’opinione pubblica americana nel corso dell’Età Progressista.

Negli Stati Uniti, l’idea di “razza latina” si forgiò nel corso dell’Ottocento specularmente a quella di “razza anglo-sassone”. Il primo momento importante per la definizione di questa coppia dicotomica fu l’indipendenza delle repubbliche del Centro e del Sud America, evento che il mondo politico, gli intellettuali e l’opinione pubblica statunitense guardarono in modo ambivalente6. Da una parte, la liberazione delle colonie spagnole dal dominio di Madrid fu accolta con favore perché andava nella direzione di quella separazione netta dell’emisfero americano dai destini del Vecchio Continente, poi sancita dalla dottrina Monroe con il veto ad ogni interferenza delle potenze europee in America latina. Dall’altra parte, però, si nutriva un profondo scetticismo sul futuro delle neonate repubbliche, nelle quali, dal punto di vista degli osservatori nord-americani, si “intrecciavano le eredità peggiori del Vecchio Continente, quella della leggenda nera e dell’oscurantismo cattolico, con i tratti spaventosi del selvaggio, del mondo non civilizzato”, per citare Marco Mariano7. Il pregiudizio nei riguardi delle società del Centro e del Sud America riguardava essenzialmente due loro caratteristiche: in primo luogo la mescolanza “razziale” della popolazione, un aspetto in

4

Matthew F. Jacobson, Whiteness of a different color. European immigrants and the

alchemy of race. Cambridge, MA: Harvard university press, 1998, p. 2. 5

Walter D. Mignolo, The idea of Latin America. Malden, MA: Blackwell, 2005, p. 58.

6

Marco Mariano, L’America nell’“Occidente”. Storia della dottrina Monroe (1823-

1963). Roma: Carocci, 2013, pp. 69-83. 7

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contraddizione con la separazione dell’uomo “bianco” europeo dall’elemento indigeno in vigore negli Stati Uniti; in secondo luogo l’origine spagnola che era ritenuta sinonimo di arretratezza e illiberalità. Parallelamente all’indipendenza delle repubbliche del Centro e del Sud America si andava affermando la “teoria delle origini teutoni” che predicava la superiorità delle nazioni “anglo-sassoni” discendenti dei popoli germanici e portatori delle virtù del governo “libero” e “democratico”. Seppur non ancora elaborata in senso strettamente razziale, questa teoria contrapponeva le “virtù” del processo di colonizzazione in Nord America con i “difetti” di quello in America del sud: da un lato c’erano l’operosità, la frugalità e lo spirito di indipendenza politica e religiosa degli inglesi, dall’altro invece l’avarizia, la depredazione, il dominio bigotto e tirannico degli spagnoli8.

Entrambi questi pregiudizi, quello legato al passato spagnolo e al carattere meticcio della popolazione, guidarono l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti dei territori conquistati con la guerra contro il Messico (1846-1848): Texas, New Mexico e California. Analizzando il caso specifico della California, lo studioso Tomás Almaguer ha sostenuto che gli americani assegnarono alla popolazione ispanica assoggettata una posizione “intermedia”, tra i “bianchi” e i “non-bianchi”9. Da un lato i messicani, a differenza dei nativi americani, si videro accordato il diritto di acquisire la cittadinanza, e di conseguenza lo status legale di “bianchi”. Ragioni tanto di natura politica, legate agli accordi presi con il Messico al momento della firma del Trattato di pace di Guadalupe Hidalgo, quanto di natura razziale condizionarono tale scelta. I messicani erano visti come un popolo se non pienamente, almeno parzialmente “civilizzato”, poiché parte del loro sangue poteva vantare un’origine europea e, inoltre, dal punto di vista religioso erano comunque dei cristiani. Dall’altro lato, però, come spiega sempre Almaguer, solo una minoranza della popolazione messicana, l’élite fondiaria dei “californios” con origini europee, fu effettivamente destinataria dei diritti della “bianchezza” integrandosi nel

8

Thomas F. Gossett, Race. The history of an idea in America. New York: Oxford University press, 1997, pp. 90-92.

9

Tomás Almaguer, Racial fault lines. The historical origins of white supremacy in

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nuovo Stato, mentre le classi lavoratrici dei “ranchos”, i “peones”, con origini più marcatamente indigene, andarono incontro a un trattamento non dissimile da quello di un gruppo “non-bianco” diventando oggetto di discriminazioni e legislazioni repressive10.

La società ispano-americana, lasciata in eredità da Spagna e Messico, era considerata dai coloni americani come arcaica e sottosviluppata. Nei territori conquistati la “razza anglo-sassone” avrebbe impiantato le sue forme di governo e modelli produttivi moderni, portando così a termine l’espansione della “frontiera” come previsto dalla dottrina del “destino manifesto”11. Nel corso della secondo metà dell’Ottocento, lo “sciovinismo anglo-sassone” divenne un tratto caratterizzate l’opinione pubblica statunitense. La sua tradizionale “anglo-fobia”, radicata nell’esperienza della Rivoluzione, lasciò il passo a un sentimento di affinità tra i “popoli di lingua inglese”, basato sul credo della superiorità della “razza anglo-sassone”12. Questo credo, sotto l’influenza del “darwinismo sociale”, assunse un contenuto schiettamente razziale, più incentrato sui temi del sangue e della stirpe che non sui tradizionali fattori politico-religiosi. Basti pensare alla retorica che accompagnò la guerra nelle Filippine contro la Spagna, un evento che contribuì in modo determinante a modellare la dicotomia latini/anglo-sassoni. La rapida sconfitta della flotta spagnola nel 1898 fu accolta negli Stati Uniti come il simbolo della “decadenza della razza latina” e dell’avvento, come per una dinamica di “selezione naturale”, di una “nuova era” segnata dal dominio della “razza anglo-sassone”13.

A cavallo tra Otto e Novecento, tuttavia, fu soprattutto in relazione alla montante immigrazione italiana, piuttosto che alle questioni di politica estera, che la nozione di “razza latina” si venne affermando nel discorso pubblico. Sulla stampa restrizioni all’immigrazione venivano invocate per le “razze non facilmente assimilabili nel popolo americano, come i cinesi,

10

È il caso del “Vagrancy Act”, varato nel 1855 e volto esplicitamente a colpire la popolazione di origine messicana per il reato di “vagabondaggio”, Almaguer, Racial

fault lines, p. 57. 11

Ronald Takaki, A different mirror. A history of multicultural America. New York: Back Bay Books, 1993, p. 176.

12

Nell I. Painter, Standing at Armageddon. The United States, 1877-1919. New York: W.W. Norton & Co., 2008, p. 149.

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gli slavi e alcuni latini”14. Nel dibattito sull’immigrazione il concetto di “latino” veniva di sovente utilizzato al fianco della categoria di “slavo” per agitare la minaccia dei “nuovi immigrati” provenienti dai paesi meridionali e orientali del Vecchio Continente: “Nella nostra nuova immigrazione”, scriveva il «New York Times», “non è dell’elemento teutone di cui dobbiamo aver paura, ma di quello slavo e latino”15. Racchiudere i “nuovi immigrati” dentro categorie quali “latino” e “slavo” conferiva alla comparazione con i “vecchi immigrati” di origine nord- europea, un contenuto razziale di immediata chiarezza. Prescott Hall, presidente della Immigration Restriction League, ammoniva ad esempio: “volete che questo paese sia popolato dall’elemento inglese, tedesco e scandinavo, storicamente libero, energetico e progressivo, o dalle razze slava, latina e asiatica, storicamente servili, regressive e stagnanti?”16.

I maggiori “scienziati” della razza non avrebbero avallato tale uso in senso razziale del concetto di “latino” da parte della stampa. Madison Grant, ad esempio, nel suo celebre The passing of the great race (1916), rimarcava che si poteva parlare di “‘nazioni latine’, ma mai di ‘razza latina’”17. Il concetto di “latino” rimandava a questioni di natura linguistica e, come sostenuto da William Ripley, la lingua non poteva funzionare come test della “razza” ma solo come test del “contatto sociale” in grado di spiegare fenomeni storici come le migrazioni e le conquiste alla base della nascita delle nazioni18. L’antropologia razziale concepiva la razza come un “fatto” fisico, misurabile attraverso rilevamenti antropometrici condotti su caratteri fenotipici quali le forme del cranio, il colore della pelle e il tessuto dei capelli. Dietro lo screditamento della “lingua” come criterio per risalire ad una classificazione originaria delle razze si celava la volontà degli “scienziati” della razza di attaccare non tanto la nozione di “razza latina” quanto quella di “razza ariana”, entro la quale nell’Ottocento erano stati

14

The immigration question, « New York Times», 30 novembre 1892.

15

Restricting immigration, «New York Times», 27 novembre 1892.

16

Prescott F. Hall, Immigration and the educational test, «The North American Review», ottobre 1897, p. 395.

17

Madison Grant, The passing of the great race. Or the racial basis of European

History. New York: Charles & Scribner’s Sons, 1916, p. 57. 18

William Ripley, The Races of Europe. A sociological study. London: Kegan Paul, 1899, p. 25.

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indistintamente racchiusi i popoli del Vecchio Continente sulla base proprio della comune origine indoeuropea delle loro lingue19. A cavallo tra i due secoli, mentre approdavano negli Stati Uniti migliaia di immigrati dal Sud e dall’Est Europa, questa visione unitaria sotto il profilo razziale dei popoli europei fu messa radicalmente in discussione. La tesi “anti-ariana” più nota fu elaborata da Ripley e poi divulgata da Grant sulla base della “pseudo-scienza” antropometrica. I popoli europei sarebbero appartenuti a tre razze distinte tra loro—la nordica (o teutone), l’alpina, la mediterranea—ciascuna con peculiari caratteristiche fisiche e mentali. Gli italiani, in questo schema tripartito, venivano distinti in due gruppi razziali: “alpini” i settentrionali, “mediterranei” i meridionali, distinzione che veniva derivata dalla scuola antropologica lombrosiana, largamente influente sugli studi della razza compiuti negli Stati Uniti20.

Nonostante il veto posto sulla nozione di “razza latina” dall’accademia, gli immigrati italiani furono più di frequente identificati come “latini” che non come “alpini” e “mediterranei”. Il concetto di “razza latina”, infatti, trovò ampia diffusione sulla stampa, dove il discorso sulla razza necessitava di un lessico comprensibile a un pubblico più largo degli antropologi. Tale concetto fu generalmente utilizzato per indicare, come è già stato detto, una condizione al contempo di “bianchezza” e però “inferiorità” rispetto alle superiori “razza” “teutone” o “anglosassone”. Emblematica questa citazione del «Chronicle» in merito:

The United States is now getting most of its immigrants from countries whose people have little in common with the mass of our own except a large infusion of the blood of the stock which we call Aryan. The Latin and Teutonic stocks of that blood became separated centuries ago and have developed different political and personal characteristics and ideals. The two stocks are blending again in this new world and it will be generations before we shall know what comes of it21.

19

Bill Aschcroft, Language and race, in R. Harris, B. Rampton, The language, ethnicity

and race reader. New York-London: Routledge, 2003, pp. 41-44. 20

Cfr. Peter R. D’Agostino, Craniums, Criminals, and the “Cursed Race”: Italian

Anthropology in U.S. racial thought, «Comparative Studies in Society and History», vol.

44, no. 2, 2002, pp. 319-343.

21

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Ma che cosa significava esattamente “essere latini”? Quali caratteristiche rendevano i gruppi “latini” così altri rispetto alla società americana di origine “anglo-sassone”, “teutone” o “nordica” all’interno della quale avrebbero dovuto “assimilarsi”? Nel presente capitolo si cercherà di rispondere a tali quesiti ricostruendo la storia del “quartiere latino” di San Francisco, chiamato in questo modo sul finire dell’Ottocento dall’opinione pubblica della città perché abitato soprattutto da immigrati italiani e, in misura minore, da altri gruppi di lingua romanza, sia di origine europea che ispano-americana, quali francesi, spagnoli, messicani, portoghesi, cileni e peruviani. In primo luogo, saranno presentate le caratteristiche demografiche di quest’area secondo i confini stabiliti in via ufficiale dal Board of Health (il dipartimento della città addetto alla “tutela” della “salute pubblica”), per il quale i residenti del distretto andavano “monitorati” a causa della loro tendenza a vivere in condizioni igienico-sanitarie “deprecabili”. In secondo luogo, ci si soffermerà sulle descrizioni e rappresentazioni del “quartiere latino” apparse in modo numeroso sulla stampa dell’epoca. Ai residenti italiani e messicani del distretto erano assegnate, in una certa misura, comuni caratteristiche fenotipiche e morali, in un chiaro processo di “invenzione” della “razza latina” come categoria inglobante entrambi i gruppi. Il senso di superiorità che la società “bianca” nutriva nei riguardi dei popoli del Sud Europa, come gli italiani, era tale che essi erano più accumunati ai messicani che non alla popolazione “bianca” di origine “anglo-sassone” e, più in generale, nord-europea della città. Infine, la parte conclusiva del capitolo esaminerà la questione della “latinità” dal punto di vista dei residenti del quartiere latino, e in particolar modo degli italiani. Si auto- identificavano essi come “latini”? Oppure la loro identificazione come tali fu interamente il frutto di un processo di “razzializzazione” intervenuto dall’esterno? La risposta a queste domande sarà offerta attraverso un tentativo di analisi della “coscienza razziale” di questi gruppi condotto sulla base di ciò che la loro stampa diceva a riguardo della “latinità” e valutato sulla base dell’intensità dei legami sociali che li unirono al di là del quartiere latino.

3.2 I con