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Una conclusione aperta

Il linguaggio come sentiero dell’essere

2.3 Una conclusione aperta

“ [...] la funzione critica della ragione non può affermarsi altrimenti che nella concretezza del caso singolo, sia sul piano della conoscenza sia su quello dell’azione.”252

Siamo così giunti a concludere questo nostro tentativo di rendere noti gli aspetti principali della concezione di linguaggio che Gadamer sviluppa nel percorso che lo porta all’edificazione della sua ermeneutica filosofica. Siamo davvero sicuri, d’altra parte, che si possa effettivamente ritenere concludibile questa esposizione della pretesa di verità della via intrapresa da Gadamer per rendere maggiormente esperibile l’ontologia di Martin Heidegger? Sulla base della portata esperienziale del suo pensiero, infatti, ci siamo imbattuti in una visione che senza un’essenziale apertura pratica - ben esemplificata dall’immagine della tensione e dell’operatività – perde completamente di vista la sua originaria concretezza. Occorre pertanto compiere un ulteriore passo oltre, e riflettere proprio sulla caratterizzazione pratica dell’ermeneutica filosofica; riteniamo infatti che il carattere ontologico che abbiamo riconosciuto nell’indissolubile legame tra linguisticità e storicità, grazie al suo offrire una concezione dell’essere il cui divenire non gli può affatto essere strappato via come se si trattasse di una motilità aggiuntiva - e non invece un dispiegarsi intrinsecamente costitutivo -, si esprima al meglio nel suo carattere performativo, e quindi, già da sempre vivente nell’agire pratico.

A tal proposito, non possiamo che far tesoro di quella che è l’esposizione heideggeriana del legame tra etica ed ontologia: egli non ne fa una questione di derivazione dell’una dall’altra, non la risposta pratica ad un’esigenza reale, quanto invece si tratta – ancora una volta – del semplice seguire quel legame indissolubile di co-appartenenza, nella cui fisionomia ne va dello stare al mondo dell’uomo, e della messa a tema del ruolo di quest’ultimo nel mondo-in-cui-è, vale a dire del suo fare la differenza. È dunque alla celebre Lettera sull’«umanismo» che noi vorremmo ora far riferimento, poiché è proprio all’interno di questo scritto – che forse non a caso nasce esplicitamente come risposta ad una lettera di Jean Beaufret – che Heidegger, cercando di esprimere il suo parere su una possibile interpretazione esistenzialista della sua filosofia, rende maggiormente concreta la sua ontologia, muovendosi così nei pressi di quella che è la lettura gadameriana del suo contributo.

252

Si può notare fin dalle prime parole di questo testo, infatti, come l’attenzione dell’autore si concentri sul carattere attivo del proprio pensiero:

Noi non pensiamo ancora in modo abbastanza decisivo l’essenza dell’agire. Non si conosce l’agire se non come il produrre un effetto la cui realtà è valutata in base alla sua utilità. L’essenza dell’agire, invece, è il portare a compimento (Vollbringen). Portare a compimento significa: dispiegare qualcosa nella pienezza della sua essenza, condurre-fuori a questa pienezza, producere. Dunque può essere portato a compimento in senso proprio solo ciò che già è. Ma ciò che prima di tutto «è» è l’essere. Il pensiero porta a compimento il riferimento (Bezug) dell’essere all’essenza dell’uomo. Non che esso produca o provochi questo riferimento. Il pensiero lo offre all’essere soltanto come ciò che gli è stato consegnato dall’essere. Questa offerta consiste nel fatto che nel pensiero l’essere perviene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo.253

Ciò su cui Heidegger vuole farci riflettere è l’essenza di ciò che significa agire; ma con questo egli non intende indicarci di guardare al di là del suo quotidiano riferirsi alla produzione di un effetto o all’utilità di una certa azione, quanto voglia invece spingerci a guardare con più attenzione al significato di questa familiarità. Solo guardando ad essa come a qualcosa che si impone a noi nella sua portata storica, come una caratterizzazione che già è, possiamo scorgervi la sua essenza, che non essendo concepita come un che di staccato e distinto dal suo darsi esistenziale, non può che imporsi nel suo carattere di destinazione umana. E questa destinazione Heidegger ce la mostra qui come la possibilità che il pensiero ha di offrire a questa precedenza la sua possibilità di essere tale; vale a dire che è nel linguaggio che l’essere ha la possibilità di palesarsi, ed è pertanto rispetto a tale possibilità, che l’uomo è costantemente preso in causa nel suo agire, nel suo trovarsi già da sempre in un mondo iniziato, in un mondo che così si mostra come sempre da finire, da portare a compimento rispetto all’uomo che lo abita. È a questo co-appartenere che alimenta l’agire umano autentico che Heidegger continua a riferirsi fino alla fine di questo breve ma denso testo, giungendo a mostrare come a partire dal suo riconoscimento, ossia a partire dalla restituzione del significato autentico di ciò che è pensiero, in cui “l’essere si è ognora preso a cuore destinalmente la sua essenza”254, il rapporto uomo-essere mostri il carattere dell’amore, del voler bene che in lingua tedesca mostra tutta la ricchezza della radice che condivide con la possibilità:

253

MARTIN HEIDEGGER,Brief über den «Humanismus», op. cit., pag. 31

254

Prendersi a cuore una «cosa» o una «persona» nella sua essenza vuol dire amarla, volerle bene. Pensato in modo più originario, questo volere bene significa donare l’essenza. Questo volere bene (Mögen) è l’essenza autentica del potere (Vermögen) che può non solo fare questa o quella cosa, ma anche lasciar «essere presente» (wesen) qualcosa nella sua provenienza (Her-kunft), cioè far essere. È il potere del voler bene ciò «in forza di» cui qualcosa può essere. Questo potere è il «possibile» autentico (das eigentlich «Mögliche»), quello la cui essenza sta nel voler bene. A partire da questo voler bene l’essere può (vermag) il pensiero. [...] Quando parlo di «tacita forza del possibile» non intendo il possibile di una possibilitas solo rappresentata, né la potentia quale

essentia di un actus dell’existentia, ma l’essere stesso che, volendo bene, può sul pensiero, e quindi sul suo

riferimento all’essere. Potere qualcosa qui significa conservarlo nella sua essenza, mantenerlo nel suo elemento.255

È sulla base di questi chiarimenti, e di quanto abbiamo già avuto modo di mettere in luce sulla comprensione come tensione affine a ciò che chiamiamo amore, che riteniamo essere più fruttuosamente interpretabile la definizione che Gadamer dà dell’esperienza ermeneutica come “accadere di un’esperienza autentica”256, di qualcosa che si impone come evidente senza che cioè abbia bisogno di essere dimostrata o accertata. Solo cogliendo l’esigenza di un’attenzione uditiva come quella che è richiesta da ciò che Heidegger chiama essere, come quella che sorge spontanea nei confronti di ciò che amandoci non chiede al contempo altro che di essere a sua volta semplicemente amato, possiamo abitare nei pressi di ciò che porta Gadamer ad affermare che “l’essere che può venir compreso è linguaggio”257. È proprio nel linguaggio che parliamo, in quella linguisticità e dialogicità che già da sempre abitiamo che ci è data la possibilità di accogliere e differire quanto ci precede e per ciò stesso ci vincola; è a partire dalla semplicità dell’amore che proviamo per ciò che ci accoglie quando veniamo al mondo, e che riflette tanto nel suo sorriderci quanto nel suo schernirci e metterci in difficoltà il suo ineliminabile carattere di appartenenza, che si apre la possibilità di vivere autenticamente questo rapporto. Si tratta di un’attenzione continua, che si produce incessante nel nostro quotidiano tessere narrazioni, e che apre la possibilità di valorizzare anche quanto mostra il suo carattere di interpretazione divergente, che dialetticamente fa emergere conflitti, come quello che Gadamer stesso vive nei confronti della metodologia delle Scienze della Natura. A nostro parere è ampio lo spettro di prospettive dalle quali è possibile leggere l’ermeneutica filosofica come concretizzazione di questa tensione amorevole che Heidegger stesso non può evitare di mettere in gioco. Specialmente il lavoro di Gadamer si è mostrato come perseguimento tenace delle spesso oscure indicazioni heideggeriane, intraprendendo sentieri che pur nel loro rischio di terminare improvvisamente – dispiegando così il loro carattere di Holzwege – non

255

Ibidem, pagg. 35-36

256

HANS-GEORG GADAMER,WuM, pag. 553

257

hanno deviato il suo cammino rispetto all’apertura che essi rappresentano. La sfida che egli ha accolto nel tentare di aiutare la dialettica a riprendersi nell’ermeneutica è certamente un vivo esempio di come Gadamer svincoli l’essere heideggeriano dalle incomprensioni che vi sono legate, tenendo assieme quanto il maestro illustra sulla rilevanza della sua questione ma senza privarlo della fertilità che solo un’esperire attento del suo darsi inautentico può fornirgli.

Se vediamo infatti l’amore come comprensione, rivolto quindi al mondo come co-appartenenza indissolubile con l’uomo, esso mostra attenzione anche nell’opposizione che produce nello scontro con ciò che è esperito come inautentico. Il suo potere si dispiega infatti nell’aperto vincolo che fa dell’uomo un parlante, costantemente in dialogo poiché costantemente preso dall’edificazione di quella stessa dimora che è il suo determinato linguaggio, la sua storia, i suoi costumi, il suo senso comune. In questo modo ci è infatti chiarito il modo in cui si può dare qualcosa che continuiamo a chiamare conoscenza, in quanto a partire da questa tensione comprendente si dà un effettivo coinvolgimento del nostro costruire il mondo abitandolo; vale a dire, il nostro mondo muta fisionomia, incrementa i suoi giochi prospettici e modifica le sue possibilità determinate, in nome di quel continuo e incessante incontro tra mondi per cui sta la dialettica domanda-risposta.

Occorrerebbe riflettere, assieme allo Heidegger della Lettera sull’«umanismo», sul modo in cui cambia il modo di vedere l’uomo e la sua presunta centralità in seguito al riorientamento del suo rapporto al mondo che così avviene. Egli, infatti, ci porta a prendere in considerazione l’esigenza di fare un passo indietro rispetto alla caratterizzazione tradizionale di animal rationale, per sottrarre il rapporto uomo-essere dalla scissione a cui lo sottopone la tradizione dell’umanismo. Al fine di porre l’uomo al centro del cosmo, infatti, si è storicamente instaurato un primato che lo pone al di sopra degli enti tra cui è, al quale Heidegger però non oppone un presunto primato dell’essere come mera precedenza di ciò che non è dotato di pensiero razionale, bensì ci fa concentrare l’attenzione piuttosto sulla particolarità e semplicità del modo in cui per l’uomo è aperta la possibilità del differire. Egli resta ente tra gli enti, nella cui possibilità ne va del suo stesso essere, ma nella sua essenziale linguisticità egli si presenta come “formatore di mondo”258, come responsabilmente vincolato ad esso dal suo stesso agire.259 E questo appare vicino a quella che è la nostra esperienza quotidiana e familiare della linguisticità, in cui l’apertura di mondi che l’incontro tra i nostri

258

Cfr. MARTIN HEIDEGGER, Die Grundbegriffe der Metaphysik : Welt – Endlichkeit - Einsamkeit, Klostermann,

Frankfurt a. M. 1983, ed. it. a cura di Carlo Angelini, tr. it. a cura di Paola Coriando, Concetti fondamentali della

metafisica: mondo, finitezza, solitudine, Il Melangolo, Genova 1992, pag. 240

259

Cfr. MARTIN HEIDEGGER, Brief über den «Humanismus», op. cit., pag. 73. “[...] l’uomo è nella condizione dell’essere-gettato (Geworfenheit). Ciò significa che l’uomo, come e-sistente controgetto (Gegenwurf) dell’essere, è più che animal rationale proprio in quanto è meno rispetto all’uomo che si concepisce a partire dalla soggettività. L’uomo non è il padrone dell’ente. L’uomo è il pastore dell’essere. In questo «meno» l’uomo non perde nulla, anzi ci guadagna, in quanto perviene alla verità dell’essere. Guadagna l’essenziale povertà del pastore, la cui dignità consiste nell’esser chiamato dall’essere stesso a custodia della sua verità.”

linguaggi particolari mette in moto, mostra tutta la portata ontologica della dialettica in cui siamo costantemente irretiti.

A partire dalla concezione di linguaggio gadameriana, in cui dialetticamente è l’incontro tra linguaggi differenti, tra interpretazioni del nostro abitare il mondo spesso anche avverse e inconciliabili, a mettere in moto l’espansione della portata veritativa della comprensione, si dovrebbe tentare di rendere il modo in cui essa può concretamente dispiegarsi come continua costruzione comune del nostro orizzonte storico. La nostra riflessione dovrebbe così giungere nei pressi di un ampliamento della portata delle singole pretese di verità, delle interpretazioni particolari del nostro rapporto a ciò che già siamo, a ciò che ci precede, giungendo a mostrare la fisionomia di un’azione critica e responsabile nei confronti della società in cui viviamo, dal momento che possiamo concepirla come ciò che noi stessi edifichiamo nel metterci all’ascolto degli altri linguaggi, nel continuo far emergere dal nostro parlare e quello altrui, ossia dal modo in cui ciascuno di noi edifica il proprio rapporto alla sua essenziale situatezza storica, possibili terreni in cui far giocare le esigenze comuni, quelle che cioè permettono di costruire insieme il nostro abitare.

Nel tentativo di comprendere come l’ermeneutica filosofica sviluppi una certa pretesa veritativa del suo porsi rispetto alla realtà sociale e storica, si apre un orizzonte di confronti con altre discipline e con altre tradizioni filosofiche che ci appare come a lei connaturato. Possiamo elencarne alcune, a partire da posizioni che più le si avvicinano, in cui si palesa in modo più evidente questa edificazione di un terreno comune, come si presenta la filosofia ermeneutica di Paul Ricoeur. Quest’ultimo, infatti, si è mostrato particolarmente attento a mettere in luce la rilevanza dell’interpretazione autenticamente intesa nel processo di edificazione della nostra identità personale prima, in cui il dialogo con noi stessi si mostra nel suo carattere di continua tessitura di narrazioni – fusione di orizzonti in cui il conflitto interpretativo è ben lungi da rappresentare qualcosa da superare, quanto una dinamica ineliminabile e costitutiva del nostro essere in un mondo già da sempre parlato dall’altro –, e nella relazionalità che sempre tende a costruire qualcosa come un sostrato etico, comune poi, in cui la conflittualità emerge con la forza dell’opposizione tra istanze morali ed esigenze etiche, tra carattere normativo, deontologico e costruzione di un comune stare insieme nelle abitudini e nei costumi che ci accomunano.260

Un continuo incontro e scontro tra linguaggi, non solo esplicitamente tali, ma conflitti tra differenti modi di stare al mondo, di concepire il legame con esso e di dispiegare l’operatività che l’orizzonte di appartenenza con esso sempre contemporaneamente apre, e che il più delle volte ama

260

Cfr. PAUL RICOEUR,Soi-meme comme un autre, Seuil, Paris 1990, tr. it. a cura di Daniella Iannotta, Sé come un

altro, Jaca book, Milano 2005. In questo volume, in particolare, viene evidenziata la continuità tra edificazione

narrativa personale e il suo dispiegarsi nella dimensione etica, comune; si guardi in special modo al modo in cui viene affrontato l’importante tema della saggezza pratica, in cui Ricoeur trae spunto dal conflitto messo in scena dall’Antigone per aprire un breve interludio sul carattere tragico dell’azione (da pagg. 345 a 354)

nascondersi dietro dinamiche che non riusciamo a disvelare nel loro carattere inautentico, spesso ideologico. È solo il continuo scontrarsi delle istanze che portano alle differenti e particolari edificazioni del mondo in cui siamo che permette di rendere evidenti quegli attriti che disvelano il carattere di costruzione di ciò che spesso siamo portati a dare per scontato e a noi connaturato. Primo tra tutti il modo di concepire il processo conoscitivo, che mostrandosi vincolato ad una prassi giustificatrice e fondativa, non permette di riconoscere il carattere metodologico che noi stessi vi proiettiamo, eclissando così quella fertile precedenza che sola può mostrare la performatività dell’orizzonte storico.

A questo proposito l’ermeneutica non dovrebbe privarsi di un possibile dialogo con quella che è la tradizione del pragmatismo, nonché del modo in cui la sua eredità viene accolta da Richard Rorty, il quale, essendosi occupato a fondo di comprendere che cosa sia linguaggio, soprattutto in quello che è il suo carattere contingente, si occupa di tematiche più vicine a quelle propriamente gadameriane.261 In questo modo ci si allontanerebbe forse dalle indicazioni al riguardo che lo stesso Gadamer ci fornisce, il quale infatti non ha in mente lo stesso ideale dell’utilità pratica che anima lo spirito anti-metafisico e anti-dualista dei pragmatisti262; ma una riflessione ermeneutica sulle esigenze che animano il lavoro dei pensatori che si muovono su questa linea può far emergere molte più istanze comuni di quelle che si potrebbe pensare possibili sulla base del loro provenire da differenti tradizioni di pensiero. Quello che si vorrebbe suggerire è perciò un tentativo di confronto con la concezione di esperienza che John Dewey propone accogliendo le esigenze espresse dalla teoria dell’evoluzione di Charles Darwin, in cui egli vede espressa la formulazione di un naturalismo organico, non meramente fisico come quello proposto dalla tradizione empirista – ossia basato sul rapporto stimolo-risposta –, in cui a fare la differenza è l’emergere di un continuo scambio tra individuo e ambiente circostante, che rende così evidente la costitutività delle idee con

261

Cfr. RICHARD RORTY,La contingenza del linguaggio, in Id.,Contingency, irony and solidarity, 1989, Cambridge

University Press, tr. it. a cura di Giulia Boringhier, La filosofia dopo la filosofia, Contingenza, ironia e solidarietà, Laterza, Roma-Bari, 1990, pagg. da 9 a 32. Sempre sulla scia di un possibile dialogo con altri settori della filosofia del linguaggio contemporaneo si veda anche l’interessante saggio di Donald Davidson in DONALD DAVIDSON, Una graziosa confusione di epitaffi, in DAVIDSON – HACKING – DUMMETT, Linguaggio e interpretazione, UNICOPLI,

Milano 1968, , pagg. da 59 a 85

262

Cfr. HANS-GEORG GADAMER,WiW, pagg. 126-127. “Situazione e verità sono già state intrecciate in una stretta connessione dal pragmatismo americano, per il quale l’autentico contrassegno della verità è rappresentato però dalla capacità di venire a capo di una situazione, di modo che, per esso, una conoscenza dà prova della propria fecondità dimostrandosi in grado di risolvere una situazione problematica. Non credo che sia sufficiente la svolta in senso pragmatistico che la cosa assume qui. Ciò è mostrato già dal fatto che, per il pragmatismo, tutto dipende esclusivamente dal venire a capo di una certa situazione, cosicché esso mette semplicemente da parte, rimuove tutte le cosiddette questioni filosofiche, metafisiche. Per progredire davvero, ci si dovrebbe allora sbarazzare dell’intera zavorra dogmatica della tradizione. Secondo me, si tratta di un cortocircuito. Il primato della domanda di cui parlo io non è di natura pragmatica, e altrettanto poco, poi, la risposta vera dipende, quanto alla sua verità, dai criteri del risultato dell’azione. Tuttavia il pragmatismo ha decisamente ragione sulla necessità di oltrepassare il riferimento formale in cui si trova la domanda rispetto al senso dell’enunciato. [...] L’orizzonte situazionale, che costituisce la verità di un enunciato, comprende anche colui al quale, attraverso l’enunciato, viene detto qualcosa.”

questo orizzonte di processi di interazione.263 Quella che è la Rivoluzione Darwiniana ha infatti esplicitato l’esigenza di superamento di quello che è il fissismo delle specie, formulando l’idea che non si possa sottrarre al processo esperienziale qualcosa al fine di elevarlo a principio esplicativo. Ci sembra che il riconoscimento di tale esigenza, esplicitata storicamente, si muova su quello stesso terreno su cui Gadamer apre la sua riflessione sulla portata veritativa del pregiudizio in Verità e Metodo, in cui egli infatti esprime la necessità di restituirlo alla sua dimensione ineludibilmente esperienziale, a partire dalla quale la comprensione può così mostrare il suo carattere vivo e non soggettivistico.

La restituzione al contesto in cui le idee filosofiche si sviluppano è un procedimento che viene dal pragmatismo fertilmente applicato anche al campo dell’indagine scientifica, riguardo al quale è la filosofia di Charles Sanders Peirce a rappresentare un prezioso contributo, con la sua nozione di esperienza così radicalmente legata alla sperimentazione.264 Tale tentativo di avvicinamento delle istanze contemporanee anti-fissiste, che muovono tanto l’ermeneutica di Gadamer quanto, ci

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