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Attraverso quest’ultima parte della tesi si cerca di individuare alcuni punti salienti che possano trarre una lettura conclusiva di quanto emerso. Il primo interrogativo di ricerca prevedeva di indagare in che modo e con quali implicazioni si diventa madre come donna migrante nel nostro territorio cantonale e come le reti sociali informali e formali possano fungere da sostegno. Nel delineare una possibile risposta è necessario innanzitutto sottolineare come le dimensioni prese in analisi – maternità e migrazione – siano due concezioni costituenti nell’identità di chi si trova a viverle. Se è pur vero che i modelli di maternage e le etnoteorie possono aiutare a comprendere i molteplici significati attribuiti alla maternità da parte delle donne migranti, ciascuna, in funzione al proprio vissuto, definisce in maniera soggettiva e originale i propri riferimenti di senso; pertanto il significato attribuito non può conseguirsi sulla base di un unico schema universale e aprioristicamente circoscritto. Indubbiamente far nascere un figlio in un paese straniero, spesso caratterizzato da un vissuto di precarietà e insicurezza, richiede cucire e ricucire la propria esistenza. La transizione al ruolo di madre porta con sé, oltre alla fiducia verso il futuro, anche la malinconia del passato e l’incertezza del presente. Nel vissuto di queste madri si colloca una doppia presenza, per la necessità, da un lato, di ancorarsi alle proprie tradizioni, ai modelli di maternage tramandati e a quanto visto fare nel paese d’origine, dall’altro, la crescita di un figlio in una differente nazione richiede inevitabilmente il confronto con il nuovo territorio e il proprio radicamento in costui. I risultati della ricerca permettono di comprendere come si tratti di un ruolo molto complicato da affrontare, poiché solitamente i modelli di maternage d’origine interiorizzati non sono recepiti nel nuovo contesto di vita, e similmente, le pratiche, le abitudini e le prestazioni del paese d’insediamento risultano ancora estranee, poiché prive di valori simbolici e affettivi, ma anche caratterizzate da difficoltà linguistico-culturali (Finzi, 2011, p. 207). Questi elementi possono

essere fonte di trauma per la neomamma, portando alla rottura del suo involucro culturale e ostacolando le interazioni con il figlio. Se è corretto porre in rilievo la vulnerabilità, i bisogni e le difficoltà che la maternità in esilio porta con sé per poter favorire risposte adeguate, è altrettanto necessario riconoscere come queste donne approdano nella nuova nazione con il proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze. Nella transizione al ruolo di madri, esse riescono a mettere in atto importanti strategie di adattamento e investimento. Ci vuole sicuramente coraggio per separarsi dalla propria patria, dalla propria famiglia e dalle proprie rappresentazioni, ma in ciò è custodita la determinazione che queste madri hanno nel costruirsi un futuro per sé stesse e per i loro figli. I professionisti interpellati hanno messo in luce la grande resilienza che caratterizza il vissuto di queste madri: esse spesso riescono ad uscire da situazioni di isolamento e a farsi strada nel nuovo contesto, pur mantenendo dei legami con le proprie origini e tradizioni. La ricerca ha ampiamente illustrato come la maternità sia un avvenimento socialmente e culturalmente segnato, solitamente accompagnato da aspetti simbolici, comunicativi, relazionali e da un’adesione a specifici modelli di maternage. Si tratta dunque di un evento a carattere individuale, ma anche comunitario e nel momento in cui avviene in un contesto straniero risultano necessarie nuove strategie personali e collettive. Ciò che nel paese d’origine sarebbe stato supportato dalla famiglia allargata e dalle co-madri, nel nuovo contesto viene mitigato dal ruolo della rete informale, composta da connazionali, da membri del vicinato e dalla presenza di altre madri pronte a offrire ascolto, aiuto pratico o anche una semplice vicinanza affettiva. Solitamente si viene a instaurare una rete di solidarietà femminile in grado di fornire mutuo aiuto, ma anche di erigere forme di capitale sociale e simbolico fondamentali nel percorso di vita di ciascuna. Se è pur vero che le reti informali offrono una risorsa esterna importante, esse non possono sostituirsi alla responsabilità delle istituzioni sociali e appare quindi necessario promuovere a livello cantonale modelli d’intervento che sappiano rafforzare la legittimità dei diritti di questa fascia della popolazione. Infatti, in uno scenario in cui la presenza di donne e madri straniere è sempre più rilevante, risulta attuale l’esigenza e l’urgenza di istituire servizi che siano effettivamente in grado di sostenere quest’utenza nel loro percorso di integrazione a fianco dei progetti di promozione dell’infanzia (si veda PIC). Con l’aumento delle forme di immigrazione stabile, non più solo a prevalenza maschile, entrano in scena nuovi soggetti sociali che non si muovono unicamente all’interno degli ambiti lavorativi, ma anche in quelli di vita, come le scuole, i servizi comunali o le strutture sociali e sanitarie in cui i professionisti interpellati sono tenuti a lavorare (Di Vito & Paladini, 2009). Per rispondere al secondo quesito di ricerca si evince che, data la complessità e le marcate differenze che caratterizzano i vissuti delle madri migranti, sia impensabile la generalizzazione di approcci d’intervento, ma risulti importante avvalersi di ipotesi operative individualizzate e spunti riflessivi. Al professionista è richiesta la capacità di interrogarsi su ogni suo singolo agito, per potersi confrontare con un’utenza che, seppur accostata da alcune costanti, presenta specificità non sempre riconducibili ai sistemi di riferimento che nel tempo si sono definiti intorno ai servizi territoriali (Tognetti, 2004, p. 36). Ogni gesto di cura non è imparziale, ma ricco di rappresentazioni culturali e l’efficacia degli interventi risiede nel prenderne consapevolezza. Spesso nel confronto con l’alterità, predomina una concezione etnocentrica - solitamente difensiva e inconscia – per cui i propri riferimenti siano gli unici e logici da adottare. Secondo la psicologa e psicoterapeuta Ida Finzi (2011, pp. 205-206), attraverso i processi di identificazione, di studio e di confronto multidisciplinare si viene a costruire un’idea di genitore “sufficientemente buono”, alla quale gli

operatori fanno riferimento per affrontare le differenti e complesse situazioni. Quando però ci si confronta con madri provenienti da altri paesi, sembra che questi strumenti non siano più funzionali e ci si trova all’interno di logiche culturali diverse e che inizialmente possono sembrare ambivalenti. Nella relazione d’aiuto è però auspicabile assumere una posizione di decentramento, con cui riuscire a riconoscere le differenti rappresentazioni e considerarle costruttive alle proprie, senza doverle posizionare in una scala di valori (Cattaneo, 2006, p. 7). Si tratta fondamentalmente di avere dignità e rispetto della diversità, senza provare disagio nel confronto con essa. Le madri migranti che si incontrano nei servizi sociali e sanitari, possono insegnarci molto sulle loro modalità di accudire i figli e forse basterebbe semplicemente saperle ascoltare. Una competenza che appare essere comune in tutte le interviste svolte è l’abilità di rinunciare a modelli d’intervento statici per negoziare nuovi significati e co-costruire specifici processi di accompagnamento che abbiano un valore personale per le beneficiarie. Significa riuscire ad astenersi dalla valutazione di che cosa sia un genitore “sufficientemente buono”, per dare occasione a queste donne di affrontare la maternità attraverso strategie che rinforzino e valorizzino le loro individuali competenze, sostenendole laddove richiesto. Nel concreto, i professionisti interpellati hanno messo in luce come sia importante mettere in atto strategie operative che si basino su una logica sistemica in grado di accogliere queste madri, incrementare in loro la consapevolezza sui propri diritti, rispettare le loro modalità di accudimento culturali, favorire processi di partecipazione sociale e rafforzare la loro resilienza, autostima e autodeterminazione. Inoltre, inevitabilmente l’incontro con le donne migranti richiede di entrare nel cuore delle variabili migratorie e dei suoi quadri normativi. Entrando nello specifico delle competenze richieste all’educatore, la ricercatrice Paola Solcà (2018) in un suo articolo evidenzia come il lavoro sociale si apra a nuove sfide, caratterizzate da “un ampliamento sia del ruolo professionale che delle pratiche dell’operatore sociale che deve tenere conto dei regimi migratori, dei quadri giuridici e politici nazionali e internazionali, delle risorse finanziarie a disposizione e delle caratteristiche dei migranti” (p. 13). Si tratta di assumere prospettive non più solo nazionali, ma anche transnazionali, in grado di operare attraverso i confini. È possibile fare riferimento alla definizione globale del servizio sociale: “una professione basata sulla pratica e una disciplina accademica che promuove il cambiamento e lo sviluppo sociale, la coesione sociale, il potenziamento e la liberazione delle persone. I principi di giustizia sociale, diritti umani, responsabilità collettiva e rispetto delle diversità sono fondamentali per il lavoro sociale” (Federazione Internazionale dei lavoratori sociali, 2014). A questo proposito la sfida diviene molteplice: l’operatore non è più solo tenuto ad agire buone pratiche di cura, ma ha inoltre la responsabilità di promuove processi di cittadinanza accessibili anche da parte della popolazione migrante, facendosi portavoce della dignità e della libertà umana.

Attivando ora i processi riflessivi e autocritici, attraverso la stesura di questa tesi si è scoperto di fare riferimento a non pochi costrutti culturali, malgrado si sia cercato di utilizzare un approccio il più possibile disponibile al confronto. Questo elemento ha permesso di comprendere come nonostante le buone intenzioni, è infattibile, o quanto meno difficile, rinunciare ai propri quadri concettuali nell’analisi della realtà, ma è pertanto importante avvalersi della pratica riflessiva, per riuscire come professionisti ad avere una maggior consapevolezza di sé e delle proprie rappresentazioni. Oltre a ciò, una possibile variante sarebbe stata quella di restringere il target di riferimento, concentrando la ricerca, per esempio, sulle madri richiedenti d’asilo o anche semplicemente originarie di una specifica zona

territoriale. Certamente, questo avrebbe permesso di svolgere un’analisi più dettagliata, sebbene, avendo optato per intervistare differenti professionisti, sarebbe stato impossibile chiedere di rimanere aderenti ad alcune specificità, escludendone altre. Inoltre, non avendo l’obiettivo di istituire una ricerca prettamente descrittiva ma riflessiva, non è risultato necessario definire un target di soggetti appartenenti ad uno specifico status, luogo o cultura. Entrando nel merito delle interviste, un limite riscontrato è stato dato dalla difficoltà nel reperire dei professionisti disponibili a farsi intervistare. Molti operatori facenti parte soprattutto dall’ambito sanitario (pediatri, infermiere, ostetriche, ecc.), si sono ritenuti poco idonei ad affrontare tematiche riguardanti la maternità delle donne migranti, in quanto non possedevano sufficienti conoscenze. Tale peculiarità ha posto alcuni interrogativi su come probabilmente i servizi materno infantili non siano ancora in grado di muoversi sul terreno interculturale, perché se così fosse probabilmente non si sarebbero posti il quesito di essere o meno predisposti a lavorare con uno specifico target della popolazione così eterogeneo, come quello delle madri migranti. A tal proposito, è stato forse un azzardo decidere di coinvolgere all’interno di una tesi di lavoro sociale, professionisti provenienti da altre discipline. Questa selezione ha sicuramente creato alcuni limiti d’analisi, poiché avendo congiunto differenti approcci, a tratti la ricerca apre a numerose prospettive. Le motivazioni di questa scelta sono però da attribuirsi al desiderio di valorizzare l’importanza come operatori sociali di non rimanere aderenti a competenze specifiche nel campo della teoria e dei metodi propri, ma di ampliare il proprio sguardo e intrecciare i propri saperi con quelli di altri specialisti. Da qui l’esigenza del lavoro multidisciplinare e intersettoriale, nonché del coinvolgimento della stessa beneficiaria, della sua famiglia e di tutti coloro che possono essere una risorsa. Il presente lavoro di Bachelor si colloca dunque nella prospettiva di voler essere letto da più professionisti, per riuscire in seguito, attraverso la collaborazione, l’ascolto e lo scambio, a delineare buone pratiche di accoglienza e di accompagnamento. Quanto in questa ricerca evidenziato costituisce una delle tante possibili letture interpretative in grado di dare voce a un universo femminile che ancora troppo è inserito ai margini della società, ma che sempre di più arriva a incrociare i servizi in cui l’operatore sociale è tenuto a lavorare. Sicuramente molti altri scenari d’indagine si definiscono ai confini di questo scritto: molto potrebbe essere ulteriormente approfondito e indubbiamente le innumerevoli trasformazioni che la società si troverà a vivere, condurranno nuove ricerche in merito alla tematica. Un elemento centrale emerge però dalla tesi: il fenomeno della maternità in esilio non può più essere sottaciuto ai margini del lavoro sociale.

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