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Conclusioni e prospettive

Temporanea incarcerazione, riconducibile ad una sorta di fermo prolungato di polizia; frustate disposte dai tresviri per gli autori di reati da strada e di cosiddetta microcriminalità;

pignoris capio ovvero sequestro dei beni; eliminazione dal

corpo civico mediante l’esilio, e confisca dei beni; pene pe- cuniarie, sia pubbliche che private; lavoro coatto per scompu- tare il debito non pagato derivante da una condanna per delic-

tum; verberatio nell’esercizio dell’imperium per reati di pro-

babile matrice politica, laddove autorizzata dal popolo su proposta del magistrato; e soprattutto forte controllo sociale, stigma ed emarginazione giuridica e sociale: questi erano gli strumenti con cui Roma negli ultimi secoli della repubblica e nei primi anni del principato riuscì a garantire l’ordine pub- blico. Ferma restando la impossibilità di un antistorico collo- camento dei diversi modelli sullo stesso piano, certamente il sistema romano è complessivamente diverso da quello italia- no, che ruota invece ancora principalmente attorno alla carce- razione, che non riesce a valorizzare il sistema della pena pe- cuniaria, e del lavoro obbligato, ancorché, nel sistema mo- derno, da intendersi come lavoro di pubblica utilità. La coa- zione a lavorare, organizzata fra l’altro in forme redditizie per la comunità, oltre che fortemente rieducative per il condanna- to, potrebbe essere invece il perno di un futuro, nuovo siste-

ma penale, che attui realmente le finalità dettate dall’art. 27.3 della costituzione italiana circa la funzione rieducativa della pena.

Ovviamente il sistema romano appare come un sistema me- no “garantista”, nonostante il vaglio popolare sulla repressio- ne; un sistema a cui manca per esempio la fondamentale pre- scrizione contenuta nell’articolo 27 comma 3 della costituzio- ne italiana per cui le pene non possono consistere in trattamen- ti contrari al senso di umanità, affermazione che porta oggi ad escludere, per esempio, la legittimità di sanzioni di carattere corporale; il precetto costituzionale risulta tuttavia smentito quotidianamente dalla brutalità del sistema carcerario italiano, che costringe i detenuti a condizioni di vita di assoluta disuma- nità. Per converso sanzioni brevi, ma caratterizzate da un eser- cizio personale alla disciplina, sul modello sperimentato con successo da alcuni stati americani, ovvero il totale e prolungato isolamento per certi reati di criminalità organizzata sono rispo- ste in vario modo efficaci e compatibili con i nostri precetti co- stituzionali.

Nel sistema romano non vi erano poi limiti alla carcerazio- ne preventiva, anche se sembra si fosse affermata, non diver- samente da alcune esperienze moderne, la liberazione su cau- zione. Ai tribuni della plebe, in quanto garanti delle libertà cit- tadine, spettava peraltro di intervenire di fronte ad abusi della carcerazione. È evidente tuttavia la inidoneità di un meccani- smo che, senza fissare limiti certi, lasciava alla discrezionalità di organi politici il potere di intervento.

Nel sistema romano aveva un ruolo del tutto particolare lo strumento della pena privata, che era il portato della antica cen- tralità della familia e del carattere parallelo e dunque non sem- pre coincidente degli interessi in gioco: privati e pubblici. L’e- sempio romano potrebbe tuttavia suggerire una progressiva depenalizzazione di quei reati la cui repressione non sia di vi-

tale importanza per la collettività ed in cui l’aspetto risarcito- rio può comunque ben realizzare la tutela della vittima. Penso, per esempio, al reato di ingiurie come a quello di diffamazione, in cui la pena carceraria appare peraltro sostanzialmente inap- plicata, e qualora lo fosse sistematicamente, del tutto spropor- zionata per costi sociali e per efficacia. In questo senso, e più in generale, lo spostamento della repressione dalla condanna carceraria a misure risarcitorie, può essere un indirizzo da va- lutare con attenzione per diverse ipotesi di reati minori purché non caratterizzati da violenza sulle persone o sulle cose ed escludendo i reati contro la proprietà privata per cui il risarci- mento appare spesso impossibile.

Certamente efficaci dovevano essere a Roma quelle che la romanistica ha definito come misure amministrative di poli- zia, che in alcuni ordinamenti moderni, in specie nella forma del fermo di polizia, vengono applicate come reazione imme- diata nei confronti di reati di cosiddetta microcriminalità e/o consistenti sostanzialmente in comportamenti devianti e vio- lenti. Quanto all’esilio, se oggi appare di complessa applica- zione, la conseguenza pratica della esclusione dal contesto civico ben potrebbe prendere le forme della revoca della cit- tadinanza e della conseguente espulsione dell’ex cittadino, in particolare per coloro che abbiano ricevuto la cittadinanza a seguito di una concessione amministrativa e che abbiano commesso reati di particolare pericolosità per la comunità nazionale. Ciò appare del tutto compatibile con l’articolo 22 della costituzione, che esclude la privazione della cittadinan- za, come della capacità giuridica, per i soli “motivi politici”, peraltro da intendersi come discriminazione politica. A mag- gior ragione va attuata la espulsione dello straniero che sia stato condannato in via definitiva con obbligo di scomputare la pena nel Paese di provenienza.

tipica del meccanismo punitivo romano: la infamia e ignomi-

nia. La esclusione dal consorzio delle persone per bene era lo

stigma che non mancava mai, quello che colpiva il delinquen- te, come il deviante, e che doveva sembrare una sanzione nor- malmente insopportabile. Questo è a mio avviso il motivo principale della tenuta di una società in cui il carcere non esi- steva come pena e la morte era stata sostanzialmente abolita. Il controllo sociale appare dunque come il prius di un sistema penale che voglia avere una qualche efficacia. Nessuna pena, nemmeno la più atroce, funziona se non vi è adesione a valori certi e fortemente sentiti da parte dei consociati e un conse- guente controllo sul loro rispetto da parte dei cittadini. In un ordinamento moderno, questa sanzione ben si può concretiz- zare nella perdita dei diritti politici, o nella interdizione da professioni e mestieri, come anche, in una prospettiva civili- stica, in quello che ormai si considera il licenziamento per motivi disciplinari, o nella limitazione della capacità giuridi- ca, anche qui non vietata dalla nostra costituzione per reati comuni.

Siffatta sanzione presuppone in ogni caso una tenuta etica superiore a quella che caratterizza società sostanzialmente re- lativiste e prive ormai di una chiara identità valoriale come lo sono molte società “occidentali”. E questo, insieme con la mancanza di reattività sociale contro il crimine, è probabil- mente il problema principale di molte realtà contemporanee.

Finito di stampare nel mese di febbraio 2015

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