• Non ci sono risultati.

Conclusioni: spunti critici sulla tradizionale terminologia giuridica

Esaurita la rassegna delle situazioni giuridiche soggettive, è bene trarre le dovute conclusioni.

Si è avuto modo di spiegare, a inizio capitolo, l’utilità di rivisitare i tradizionali significati di istituti e categorie che vantano una elaborazione scientifica da potersi veramente definire storica.

Alla luce delle conclusioni che si sono tratte dall’esame delle singole forme lecite dell’agire169, è possibile ora proporre, pur se in forma di spunto critico che non di teoria

168 BIGLIAZZI GERI L. [3].

169 Sulla cui nozione v. supra, par. 2. Riassumendo con le parole del MORELLI M. R. quanto detto finora, si può dire che l’abuso è stato considerato ‚a) in relazione alle potestà (cosiddetti diritti-funzione), come

compiuta, una rivisitazione del tradizionale utilizzo di alcuni termini tecnico-giuridici che accompagnano lo studio dell’abuso.

Si è visto nell’ultima parte della trattazione del diritto soggettivo che esso è agere licere, un poter essere consentito dalla fonte del diritto – legale o convenzionale – e la cui sostanza non è né la volontà, né l’interesse, bensì un comportamento: comportamento che, nel singolo caso, risulterà conforme al paradigma della fattispecie prevista – giudizio di positiva rispondenza del fatto alla fattispecie – e difforme da ogni altra fattispecie illecita che tale diritto riguarda – giudizio di negativa rispondenza del fatto alla fattispecie.

La liceità o illiceità del fatto viene così ricavata da elementi oggettivi, scevri da qualsivoglia contaminazione psicologica e neutri rispetto all’interesse perseguito dal titolare, il quale ultimo rileva solo quando la fonte stessa del diritto lo nomina, condizionandone l’esercizio. La rilevanza, poi, che l’interesse potrà assumere all’interno della fattispecie, porta il giurista a interrogarsi se esso divenga, in tal modo, limite interno del diritto stesso – contribuendo a ridimensionare l’area di libertà, e quindi di liceità del fatto – o se esso continui, nonostante il richiamo, a rimanere fuori dalla struttura dell’istituto, asservendo allo scopo di fondare una responsabilità e andando a costituire non un elemento del diritto, ma un elemento dell’illecito.

Ciò che ci preme sottolineare è che l’interesse non rileva mai nel giudizio di liceità o illiceità dell’esercizio del diritto, se non quando espressamente richiamato dalla sua fonte: se poi esso possa ritenersi, in tal caso, elemento interno o esterno al diritto, è questione che abbiamo già avuto modo di trattare, risolvendola nel secondo senso (v. supra, par. 3, parte finale).

Poste queste prime conclusioni, occorre ora soffermarsi sul significato di esercizio del diritto: il diritto, nel linguaggio tecnico come in quello comune, viene utilizzato, esercitato, usato, e quindi può essere – secondo alcuni – abusato.

di giusta causa dell’atto; c) in relazione ai diritti reali, come emulatività dell’atto; d) in relazione ai diritti relativi, come violazione, appunto, delle regole di correttezza e buona fede‛ (p. 1705).

Il concetto di

agere licere:

fatto lecito non illecito

Ruolo dell’interesse nell’agere licere e illicere.

L’uso del diritto, quasi fosse uno strumento170, è formula che, ormai, può

rimanere solo come retaggio stilistico e non come espressione di teoria generale. Se il diritto, infatti, è fattispecie – determinazione astratta di categorie di comportamenti qualificati leciti – esso non può essere usato, perché l’uso implica necessariamente l’adesione o alla teoria volontaristica – volo ergo utor si potrebbe dire, per cui il diritto è volontà ed essa, espressa dal soggetto, si serve dell’istituto per ottenere l’utilità che desidera – o a quella dell’interesse, secondo cui il soggetto, per conseguirlo, si avvale del (usa il) diritto che la fonte normativa gli attribuisce.

Nell’impostazione teorica dell’agere licere, invece, l’uso del diritto perde significato e anzi, ben potrebbe dirsi che tale formula non ha ragion d’essere: il diritto non si usa, non si esercita, non si utilizza, perché l’uso, l’esercizio, l’utilizzo del diritto non è altro che il diritto stesso.

L’uso di un qualcosa, infatti, presuppone una scissione tra comportamento (uso, appunto) e oggetto dell’uso (diritto). Ma se il diritto è comportamento, se il diritto è, concretamente, un fatto, uso e diritto coincidono: cosicché l’unica utilità che le espressioni uso, esercizio, utilizzo del diritto conservano è quella di poter indicare, con formula di pratica convenienza, la conformità del comportamento alla determinazione normativa, ovvero del fatto alla fattispecie, del diritto al Diritto.

Non meno criticabile l’uso dei termini ‚titolare‛ o ‚titolarità‛ del diritto, poiché si ritiene che il diritto non si ha, perché non è possibile ‚avere‛ un fatto. Ciò che ordinariamente si indica con titolarità non è altro che la situazione giuridica soggettiva come ci siamo curati di definirla precedentemente (v. supra, par. 2), cosicché l’essere titolari di un diritto di proprietà esprime non l’avere il diritto di proprietà ma il trovarsi nella situazione del proprietario, situazione da cui discende, logicamente, la qualificazione di liceità di determinati comportamenti, sussumibili all’interno della fattispecie del diritto dominicale: il soggetto che entra in casa propria realizza un

170 ORLANDI M. [1][2].

L’uso del diritto

Critica all’uso del diritto: la scissione tra verbo e oggetto Critica alla titolarità del diritto: impossibilità di “avere” un comportamento

comportamento conforme al diritto di proprietà, ma intanto esso è giudicato tale – è, cioè, riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 832 c.c. – in quanto egli, in base a una valutazione normativa, è definito proprietario (o possessore), e cioè versa nella situazione giuridica soggettiva così nominata.

L’utilizzo della formula di titolarità assicura, allora, al pari di quelle di uso o esercizio del diritto sopra esaminate, una più agevole comprensione del fatto nel diritto applicato, ovvero media, sintetizzando e semplificando, tra la base teorica di fenomeni normativi complessi e la realtà della pratica quotidiana. È, cioè, un linguaggio di prassi, non per questo atecnico o meno tecnico di quello teorico, ma anzi essenziale per l’applicazione e la spiegazione del Diritto (e a cui ricorriamo pure noi stessi al fine di non oberare inutilmente il testo di pesanti perifrasi), il quale Diritto però richiede estremo rigore nella sua elaborazione teorica e altrettanta comodità – perfino facilità – d’uso nell’applicazione pratica, e cioè richiede la figura del giurista tecnico, che non è puro teorico o puro pratico, ma il cui attributo ‚non è disgiungibile dal concetto di competenza. Il quale indica un sapere necessario per raggiungere un certo risultato: dunque, un «saper fare», un insieme di metodi e nozioni richiesti per svolgere una data funzione‛171. La salvezza del giurista, e del Diritto stesso, sta forse proprio in questo:

nella capacità di realizzare un impianto logico a dispetto della complessità della struttura, ma di felice sintesi nella sua pratica quotidiana.

Le considerazioni svolte finora, valgono, ovviamente, anche per le altre forme lecite dell’agire che abbiamo trattato, seppure ciascuna presenti delle caratteristiche differenziali peculiari le quali, è bene rilevare, contribuiscono sia all’attribuzione ad esse di dignità di categorie autonome, sia alla diversa attitudine, se presente, degli stessi ad essere abusati.

In conclusione, seppur diverse, le forme lecite dell’agire sono costituite sempre, e certe volte non solo, da comportamenti astratti, da comportamenti categorizzati.

171IRTI N.[2], c. 141. Linguaggio teorico e linguaggio di prassi

Ma se così è, può aver ragion d’essere l’attacco della dottrina alla figura del diritto soggettivo172, tacciata di inutilità pratica? E tale argomento, può essere esteso alle

altre figure ad esso affini, per concludere che a nulla rileva la qualificazione di un comportamento come ‚esercizio‛ dell’uno o dell’altro istituto perché, all’atto pratico, ciò che serve è un giudizio di conformità del fatto alla norma?

La risposta non è semplice, perché qualificata l’essenza del diritto soggettivo come agere licere, possiamo concludere che ad esso corrisponde pure la figura del diritto potestativo, da cui si differenzia per i due elementi dell’atto unilaterale e della soggezione del destinatario dell’atto173; agere licere sarebbe anche la potestà, dove l’agere

è condizionato dall’interesse perseguito al pari, come abbiamo detto prima, di alcuni diritti soggettivi e la cui distinzione risiede, a nostro avviso, non nella presenza dell’interesse, ma nella sua necessaria presenza nella potestà, che rimane invece eventuale nelle altre figure174. Ci pare che lo sforzo di ricostruire a livello teorico le

forme lecite dell’agire non è uno sforzo vano, e resiste anche di fronte a questa fortissima critica. L’utilità di distinguere le diverse figure, infatti, ci pare si possa cogliere tanto sul piano teorico, quanto su quello pratico.

La categorizzazione dei fenomeni giuridici – dove per fenomeno giuridico intendiamo qui il fenomeno reale preso in considerazione dalla norma – è uno strumento di studio e di costruzione dell’intero sistema. Così per noi è di grande importanza la distinzione tra diritto soggettivo e potestà, atteggiandosi l’abuso variamente nell’una e nell’altra categoria, mentre forse diviene irrilevante nello studio dei rimedi processuali: l’actio, infatti, è concessa a tutela sia dell’uno che dell’altra, indipendentemente dalla rispettiva configurazione.

L’utilità teorica delle categorie giuridiche si pone, allora, su diversi livelli a seconda dell’oggetto di studio, il quale, volta per volta, sarà prossimo ad alcuni istituti,

172 V. supra, par. 3.

173 Sull’estraneità della soggezione alla nozione di diritto potestativo e sua rilevanza come indizio di sussistenza dello stesso, v. supra, par. 4.

174 V. supra, par. 5. Crisi delle forme lecite dell’agire? L’utilità teorica dello studio delle categorie giuridiche L’utilità pratica dello studio delle categorie giuridiche

lontano da altri, e invisibile per altri ancora: ciò non di meno, questi ultimi a loro volta manterranno la loro importanza, e utilità, per altri oggetti di studio.

Nemmeno sul versante pratico dette nozioni perdono rilevanza seppure – e questo è un dato di fatto – questa si affievolisca. Non potrebbe, tuttavia, farsene a meno, ad esempio, in campo processuale, ove la dicotomia diritto soggettivo – ma, più in generale, forme lecite dell’agire175 – e interesse legittimo – nella sua elaborazione di

diritto amministrativo – fonda la differenza di giurisdizione prevista in Costituzione. Di più: l’analisi dell’interesse legittimo in diritto privato porta alla conclusione che non tutti gli interessi legittimi, ma solo quelli, per così dire, ‚amministrativi‛, riconducono il fatto ai giudici speciali, stante tra l’altro il silenzio della Costituzione sul punto, salvi i casi di giurisdizione esclusiva.

Fugati, così, gli ultimi dubbi, occorre porsi gli interrogativi conclusivi. Se le forme lecite dell’agire non sono altro che qualificazioni in termini di liceità di comportamenti umani – agere licere – qual è allora, la sorte dell’abuso? Cessa esso di esistere per l’impossibilità di scindere uso e diritto, poiché se non vi è uso non vi è abuso? O esso permane quale violazione di un valore etico, sociale, socio-ambientale- culturale sotteso, intrinseco, immanente la norma attributiva e, quindi, fondante una responsabilità diversa da quella illecita ma ad essa complementare? Per dare una risposta a queste domande occorre ripercorrere la storia dell’abuso.

175 Cosicché oggi si dovrebbe ribaltare la prospettiva: la giurisdizione degli interessi legittimi ‚amministrativi‛ spetta al giudice amministrativo, mentre la tutela di tutte le altre posizioni – id est delle altre forme lecite dell’agire, compresi gli interessi legittimi di diritto privato – spetta al giudice ordinario civile, salve le deroghe sul punto (es.: giurisdizione esclusiva).

Quid iuris

dell’abuso del diritto?

Documenti correlati