I risultati delle analisi hanno messo in evidenza che i dati relativi agli impasti possono essere utili per discriminare la provenienza dei reperti presi in considerazione. Caratteristiche microstrutturali e differenti composizioni chimiche lasciano, infatti, ipotizzare l’uso di materie prime locali o differentemente trattate. In tutti i casi comunque si tratta di argille di tipo carbonatico, in cui l’apporto di calcio viene dalla presenza in parte di calcite e in parte di dolomite. Le variabilità riscontrate all’interno degli stessi centri produttivi spesso può essere attribuita alle normali variazioni all’interno di un unico deposito argilloso. Nella maggioranza dei casi si tratta di impasti fini e cotti a una temperatura di circa 900-950°C.
La limitata estensione di una zona di interfaccia ingobbio-vetrina e vetrina-impasto nelle zone interessate da graffiture è indice di una scarsa reattività dell’impasto durante cottura del manufatto completo di rivestimenti, compatibile con un processo produttivo in bicottura. Pertanto le temperature di cottura indicate sono riferibili solo alla fase di biscottatura, dunque alla prima cottura che interessa il corpo ceramico e lo strato di ingobbio. Mentre per la seconda cottura si deve pensare ad una temperatura più bassa, avente lo scopo di portare a maturazione la sola vetrina.
Le vetrine rispecchiano la composizione di una ricetta che era diffusa su larga scala tra le manifatture ceramiche per l’ottenimento dei rivestimenti vetrosi trasparenti (Piccolpasso 1879). Si tratta di vetrine piombiche, composte essenzialmente da due componenti, sabbia silicea e ossido di piombo (verosimilmente sottoforma di minio), la prima con funzione di formatore di reticolo, il secondo di fondente. Le differenze riscontrate dipendono in larga misura dal diverso dosaggio di queste due sostanze principali. Anche le impurità presenti nel materiale siliceo impiegato, soprattutto quelle di alluminio, calcio e potassio possono contribuire a differenziare le vetrine tra loro. Le percentuali di potassio, unitamente alle concentrazioni di sodio, potrebbero anche indicare l’utilizzo di feccia di vino, come ulteriore componente fondente.
Tali considerazioni indicherebbero che la maggioranza delle produzioni prese in considerazione mostrano caratteri di spiccata standardizzazione nella fabbricazione dei manufatti, lasciando affermare che, quindi, l’analisi delle vetrine solo raramente fornisce
informazioni sulle diverse provenienze, limitandosi piuttosto a dare indicazioni sulla tecnologie di lavorazione.
Lo studio degli ingobbi permette invece delle riflessioni maggiori.
Lo spessore di ingobbio variabile solo a volte può essere indicativo di una certa approssimazione nella lavorazione. Si ritiene, infatti, che la variabilità possa essere spiegata con il fatto che, a differenza degli strati delle vetrine, gli spessori degli ingobbi condizionano maggiormente gli effetti estetici, in quanto da essi dipende la potenzialità decorativa della classe ceramica dell’ingobbiata-invetriata. È così che non casualmente, nel caso delle forme chiuse, il confronto tra esterno e interno mostra che solitamente lo spessore dello strato di ingobbio è minore all’interno. Così come non è un caso che esso sia maggiore nelle ingobbiate dipinte, non interessate da graffitura, o in quelle “a fondo ribassato”, in cui l’effetto champleve è affidato al rilievo creato tra fondo e decori. O ancora, che esso non superi i 60 µm nelle maioliche di Cafaggiolo, dato che svolge solo una funzione di strato intermedio tra impasto e smalto che lo nasconde del tutto.
Altra cosa è invece la variabilità riscontrata negli spessori degli scarti di lavorazione. I reperti scartati dopo la prima cottura presentano un maggiore spessore di ingobbio rispetto a quelli che hanno subito la seconda cottura. Probabilmente ciò avviene perché l’applicazione della vetrina e la sua cottura provocano un’interazione con lo strato di ingobbio e una compattazione di esso, con la conseguente diminuzione dello spessore. Quanto detto non esclude comunque che gli spessori dei singoli rivestimenti, quello argilloso e quello vetroso, o il loro rapporto, possano variare in base alla bottega. O ancora, non si può non pensare che anche diverse mani all’interno di una stessa officina ceramica, abbiano potuto causare spessori eterogenei.
Le osservazioni in microscopia ottica e soprattutto le analisi chimiche hanno dimostrato come l’ingobbio possa essere un buon indicatore per la discriminazione di provenienza dei reperti ceramici. Le analisi condotte sui campioni di ingobbiate e invetriate indicano, infatti, che lo strato di ingobbio delle varie manifatture è stato prodotto impiegando materiali diversi. Si tratta in tutti i casi di materiali argillosi che diventano di colore chiaro in cottura, in accordo con il ruolo ornamentale e funzionale dell’ingobbio come copertura dell’impasto rossastro cui comunemente è associato. Ma la composizione chimica e
con l’informazione diffusa in letteratura dell’esistenza di un’unica fonte di approvvigionamento nella zona di Vicenza (figura 30).
FIGURA 30
DIAGRAMMATERNARIO ESEMPLIFICATIVO DELLE COMPOSIZIONI DIVERSE DEGLI INGOBBI
Solo gli ingobbi friulani mostrano una composizione che suggerisce l’uso di materie prime composte da argille a base di illite e quarzo, richiamando la zona del Tretto come fonte di approvvigionamento (Bertolani & Loschi Ghiottoni 1989 e Dondi, Morandi & Zuffi 1995), ipotesi che non sembrerebbe stravagante, data la vicinanza geografica. La genesi di questi depositi ha prodotto un’ampia varietà di materiali, per cui è possibile che forniture diverse abbiano composizioni differenziate, spiegando così la suddivisione in due gruppi dei reperti friulani. Essi sono facilmente distinguibili sia dal punto di vista microstrutturale che chimico: da un lato si evidenziano ingobbi caratterizzati da una maggiore quantità di scheletro, utilizzati nelle tipologie della graffita “arcaica”, prodotta durante il ‘400; dall’altro ingobbi di tipo “lamellare-intrecciato”, connotati da una scarsa quantità di scheletro, propri delle produzioni rinascimentali.
Aver supposto che l’area di provenienza dell’ingobbio sia per tutti i reperti friulani quella della zona vicentina trova accordo con le indicazioni del Piccolpasso; tali indicazioni risalgono però alla metà del ‘500, mentre i reperti da Residenza Palladio, stando ai dati documentari, sono del 1440 ca., anticipando quindi di oltre un secolo il dato reso noto dal Durantino.
Gli ingobbi toscani, seppur caratterizzati da una composizione chimica che richiama e suggerisce l’impiego di una materia prima costituita anche in questo caso da una argilla ricca di illite, mostrano tenori in magnesio che fanno escludere l’uso della stessa materia prima utilizzata per le ingobbiate friulane. Resta ancora da identificare la fonte di approvvigionamento di questo tipo di ingobbio. Si conoscono affioramenti di caolino nella Toscana meridionale, a Piloni di Torniella, in provincia di Grosseto, ma la composizione dell’ingobbio toscano sembra poco compatibile con quella di un caolino. Inoltre non si conosce la data dell’inizio di sfruttamento di detti sedimenti e neanche se, in passato, si sia fatto uso di essi per fabbricare ingobbi per ceramica.
Altri tipi di ingobbio sono stati messi in evidenza nelle “mezzemaioliche” emiliane- romagnole: quelle da Faenza per l’alto tenore in calcio, mentre quelle da Ferrara l’alto contenuto in silice, dato dalla peculiare microstruttura, costituita da una fitta concentrazione di cristalli di quarzo in una scarsa matrice argillosa.