Fin dal secolo scorso è stato affermato e unanimemente riconosciuto che il pensiero kierkegaardiano tragga la propria linfa vitale dal substrato biblico. L'assoluta rilevanza che Kierkegaard riconosce alla Sacra Scrittura traspare, infatti, non solo dalla produzione edificante che Egli affianca strategicamente al grande ciclo pseudonimo. L'intero corpus kierkegaardiano risulta pervaso da una tale quantità di motivi, citazioni e figure di matrice biblica da rendere evidente, eppure altrettanto sfuggente, la dipendenza del suo pensiero dalla Sacra Scrittura. La fusione tra i due termini in questione apparve a tal punto inestricabile da indurre i critici a diffidare a lungo della possibilità di sciogliere questo nodo storico-filosofico. La letteratura critica fiorita attorno al binomio Kierkegaard-Bibbia consiste perciò prevalentemente di contributi teologici, tesi a delineare le diverse procedure ermeneutiche adottate dal Danese nel corso della sua variegata meditazione della Scrittura. Da vent'anni a questa parte la critica kierkegaardiana si interroga pressoché esclusivamente sull'«uso»
che Egli farebbe della Scrittura, confermata nella bontà di questo approccio dall'inesauribile ricchezza delle rivisitazioni bibliche proposte dal Danese.
Non si discute, ovviamente, il pregio dei contributi che hanno messo via via
a tema le virtù interpretative del Nostro, quanto piuttosto la pretesa che tali
analisi possano esaurire la «questione biblica» relativa alla genesi del
pensiero kierkegaardiano. Una cosa poi è affermare che Kierkegaard abbia
selezionato determinati luoghi e personaggi della Scrittura e che su di essi
abbia concentrato la propria sensibilità esegetica dietro l'impulso delle
catechesi paterne, o in quanto variamente influenzato dalle diverse correnti
teologiche a Lui note, altra cosa è ritenere che la fonte biblica possa avere
esercitato un condizionamento decisivo sulle forme categoriali del suo
pensiero. I critici che hanno preso in considerazione, sebbene non sempre
sistematicamente, questa seconda ipotesi di ricerca hanno fatto uso
dell'«analogia biblica» allo scopo di evidenziare i probabili punti di
tangenza tra la produzione kierkegaardiana e la Sacra Scrittura, suggerendo
di volta in volta rimandi dall'una all'altra sulla scorta di indizi testuali più o
meno cogenti. Questa prassi interpretativa, che pure ha avuto il pregio
innegabile di mobilitare i critici sul fronte della questione biblica, non riesce
a forzare il circolo tra fonte e interprete, dal momento che le pericopi a cui i
critici si appellano per giustificare le loro deduzioni bibliche sul corpus
kierkegaardiano potrebbero essere state «utilizzate» da Kierkegaard – come
taluni studiosi, effettivamente, hanno suggerito – allo scopo di guarnire e al
tempo stesso accreditare i molteplici punti di vista in cui la sua produzione letteraria si rifrange.
La categoria di gjentagelse, in misura particolare, ha sollecitato nella critica kierkegaardiana la presa in nota del suo fondamento scritturale, vuoi per l'eminente statura delle figure bibliche di Giobbe e Abramo poste da Kierkegaard a presidio della categoria stessa, vuoi per l'invito, che Egli formula a chiare lettere in un'inedita confutazione della recensione di Heiberg, a riconoscere nella categoria di ripresa – intesa in senso eminente – la «redenzione» dell'umanità operata da Cristo ovvero la redintegratio in statum pristinum di quella.
Fatta salva un'eccezione, l'analisi di Nelly Viallaneix – la quale sa guardare oltre il citazionismo kierkegaardiano e cogliere nella terminologia adottata dal Danese la riformulazione di alcuni vocaboli biblici, da cui dipende la possibilità di apprezzare pienamente le scelte lessicali operate dall'Autore – la critica sembrerebbe avere riposto la speranza di decifrare il nesso Kierkegaard-Bibbia nel suggerire episodici richiami tra i due termini del binomio, sulla scorta dell'imponente patrimonio di giacenze scritturali attinto dalle indicizzazioni bibliche.
Con Nothorp Frye gli studi kierkegaardiani sembrano prossimi a una svolta. Il critico canadese, infatti, riconosce nella Bibbia un codice dotato di categorie autonome e riconoscibili, capaci di plasmare la letteratura occidentale nelle sue strutture narrative e concettuali. La concezione kierkegaardiana della ripresa appare, dunque, al Frye come uno dei risultati più originali e precoci di questo processo di germinazione biblica. Nella fattispecie Frye riscontra una perfetta coincidenza tra il movimento descritto in Gjentagelsen (1843) come un «ricordare in avanti» e la tipologia biblica, nella quale l'antitipo «riprende» appunto la propria prefigurazione portandola a compimento. La propensione per l'approccio retorico manifestata da Frye induce la critica a ridimensionare la portata dell'ipotesi del canadese, archiviandola insieme alle eccentricità della deriva post-moderna conosciuta dagli studi kierkegaardiani negli ultimi trent'anni.
Nonostante Frye abbia proposto in termini effettivamente concisi il proprio
punto di vista, nell'ambito di un'opera la cui ampiezza d'intenti ne scusa la
laconicità, restiamo convinti del fatto che l'invito ad apprezzare l'impatto
della tipologia biblica sul pensiero kierkegaardiano, formulato dal canadese,
meriti più considerazione di quanta in effetti gli è stata riservata. A ben
guardare, la ricezione del senso tipico da parte di Kierkegaard non può
consistere solo in un astratto e asettico adeguamento retorico alle strutture
narrative del codice biblico, bensì deve necessariamente comportare
l'accettazione di una verità di fede qual è la prefigurazione biblica nella
predicazione del Cristo e degli apostoli. Per render conto di tale circostanza
sono stati, dunque, indagati tre binomi della riflessione kierkegaardiana:
Antico-Nuovo Testamento, giudaismo-cristianesimo, Legge-Grazia, all'interno dei quali è stato possibile monitorare la presenza di un'ampia varietà di termini, pericopi, figure ispirate al senso tipico e rigorosamente ancorate al Testo Sacro. Al termine di questa ricognizione la concezione kierkegaardiana del cristianesimo è apparsa condizionata in misura determinante dalla ricezione consapevole del senso tipico, in particolare relativamente alla centralità della dialettica tipologica del binomio Legge-Grazia nella polemica con la cristianità stabilita. Riconosciuto il valore portante, e non semplicemente o riduttivamente retorico, della tipologia nel definire la concezione cristiana dell'Autore, nella seconda parte del presente lavoro sono state esaminate le determinazioni fondamentali della categoria di gjentagelse a partire dall'omonima opera del 1843, avendo cura di chiarirle con una messa a fuoco che ha fatto convergere su di esse tanto i prodromi quanto gli sviluppi ulteriori della riflessione kierkegaardiana in proposito. Tra le diverse opere chiamate in causa è stata esaminata con particolare attenzione Enten-Eller (1843). La preminenza di quest'ultimo testo sugli altri è dipesa dal fatto che la categoria di gjentagelse appartiene per definizione alla sfera etico-religiosa. Pertanto, solo un'individualità profondamente immersa nelle categorie di questa stessa sfera, qual è appunto il magistrato Wilhelm – estensore della seconda parte del carteggio pubblicato da Victor Eremita – avrebbe il diritto di riscuotere pieno credito in ordine a stabilire che cosa essa sia e in cosa consistano, da ultimo, le sue condizioni di possibilità.
Prendendo le mosse dalla definizione della ripresa come novità [Nyhed]
è stato accertato che Kierkegaard la concepisce così in ossequio al
paradigma tipologico di 2 Co: 5, 17. L'analogia tra il movimento della
ripresa e quello del ricordo, a partire dalla quale Constantin Constantius
procede alla definizione della categoria di gjentagelse risulta a ben guardare
anticipata in un frammento del diario nel quale traspare in maniera tangibile
la dipendenza terminologica e concettuale della riflessione kierkegaardiana
dal Testo Sacro. Si è poi registrata la propensione del Danese a definire il
matrimonio, fulcro della concezione kierkegaardiana della ripresa – almeno
sino al 1845, col lessico della prefigurazione biblica, in particolare
attraverso il ricorso Gal: 4,4 – densa pericope tipologica che consente al
Nostro di precisare la dinamica temporale della ripresa a partire dalla
concezione biblica delle relazioni tra passato, presente e futuro. Si è prestata
attenzione, inoltre, al movimento della ripresa e si è realizzato che tutte le
determinazioni che ne precisano la dinamica (interiorizzazione, teleologia e
trascendenza) siano, a ben guardare, riconducibili agli aspetti salienti del
senso tipico meditato dal Danese. Questi sono individuati dal passaggio
della religiosità dall'esteriorità ebraica all'interiorità cristiana
(interiorizzazione); dal fatto che la Legge e la profezia intese
tipologicamente quali prefigurazioni conducano sempre a un fine (teleologia) il quale, tuttavia, si pone al di là di esse in quanto rappresenta il compimento che oltrepassa la loro provvisorietà (trascendenza). Infine, allorché il magistrato Wilhelm, portavoce antonomastico della concezione etica dell'esistenza e perciò autorevole interprete della categoria di gjentagelse, definisce quest'ultima come il movimento tramite il quale la personalità realizza il valore eterno del proprio sé nel corso molteplice e impermanente della temporalità, con un continuo passaggio dall'astratto al concreto, dall'universale al particolare, dall'ombra alla realtà, appare in tutta evidenza il ricorso al lessico della tipologia – segnatamente Eb: 10, 1 – sulla quale da tempo il Nostro veniva meditando.
Crediamo, in conclusione, di poter affermare che l'ipotesi di Frye sia
stata ampiamente documentata e auspichiamo che questa ricerca possa
contribuire a rendere presente nella sua tangibile consistenza il
condizionamento esercitato dal codice biblico sulla categoria
kierkegaardiana di gjentagelse.
Nel documento
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PARMA
(pagine 106-110)