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Winfried Nerdinger e Marifred Speidel con Kri-stiana Hartmann e Matthias Scbirren, BRUNO

TAUT. 1880-1938, pp. 440, Lit 200.000, Electa,

Mi-lano 2001

Protagonista di una modernità duramente critica con ogni dogmatismo, Bruno Taut as-somma profili così diversi che da sempre il pro-blema che egli pone alla storiografia è quello di dare conto contemporaneamente di dimensio-ni differenti di pensiero e azione. Un problema generalmente risolto dando priorità a qualcuna di esse. Così Taut è stato di volta in volta de-scritto come l'esponente di una modernità or-ganica e fantastica, di un approccio visionario ai problemi del mutamento; o come architetto impegnato socialmente: "architetto socialista" secondo il forzato sottotitolo del suo

Architek-turlehre\ come artefice di un'edilizia

residenzia-le di massa di cui sono esempi ceresidenzia-leberrimi la Siedlung di Britz e quella di Zehlendorf; o an-cora come urbanista vicino ai movimenti per le città giardino, traduttore di un'idea di collettività in termini di stile e in quanto tale educatore, ca-pace di far interagire questioni di gusto e que-stioni sociali (anche qui, assai celebri sono le sue ricerche sul colore delle facciate), ma an-che inventore di forme an-che ribalteranno le più ordinarie gerarchie urbane, come nella

Stadtk-rone: una corona che è centro della città;

letto-re attento degli spazi urbani in funzione del-l'uomo, con un'angolazione lontana anni luce dalle formulette del Movimento Moderno, così come dall'arte degli spazi di sittiana memoria. Anche in questo libro il problema si pone, ed è affrontato nella catena di saggi (che restitui-scono un programma di conferenze tenute a Venezia) così che il lettore possa scegliere tra l'uno e l'altro aspetto posti un po' tutti sullo stes-so piano con una scelta simmetrica e opposta a quelle più usuali, ma forse ugualmente rinun-ciataria. Eliminato il racconto a lieto fine, per molti versi impresentabile, il caleidoscopio si conferma come la figura più consueta per par-lare di vecchi e nuovi eroi.

( C . B . )

secolo scalzerà quella dei maestri. Notevoli, da questo punto di vista, le suggestioni offerte dai progetti dei complessi residenziali a blocchi, espressione di una ricerca sullo spazio urbano che molto ha da dirci sui materiali, gli spazi e le configurazioni della città moderna.

( C . B . )

P a o l o S c r i v a n o , STORIA DI UN'IDEA DI ARCHITETTURA MODERNA. HENRYRUSSELL H I T C H -COCK E L'INTERNATIONAL STYLE, introd. di

Car-lo Olmo, pp. 224, Lit 38.000, Angeli, Milano 2001

Molte sono le ragioni per le quali è oggi utile tornare a occuparsi dell'lnternational Style, metafora un po' vaga (e utilizzata soli-tamente in senso critico) di un modo di fare architettura che ha radici in un celebre libro di Henry-Russell Hitchcok e di Philip John-son del 1932. Il primo di questi motivi è che qualcosa di simile e nel contempo di profon-damente diverso sta accadendo anche og-gi. Simile poiché in questo scorcio di secolo ancora si ragiona sulla circolarità dei model-li, su un'omologazione trainata da modi di consumo e di produzione, come da tecnolo-gie e mercati. Qualcuno paventa una nuova stagione di International Style e i dibattiti so-no accesi. Diverso, poiché, come sottolinea Olmo nell'introduzione, il rapporto tra so-cietà e cultura non può essere più ripensato né in termini di condivisione del ruolo delle élite, né, tanto meno, di engagement del cri-tico rispetto a un'architettura intesa come valore sociale. Il libro di Paolo Scrivano in-crocia storia delle idee e biografia, resti-tuendo chiarezza alle iniziative culturali che tra la fine degli anni venti e l'inizio degli an-ni trenta a New York hanno dato avvio a una nuova stagione che si protrarrà fino agli an-ni cinquanta, segnata dalla volontà dei pro-tagonisti di diffondere un nuovo gusto artisti-co e architettoniartisti-co, ma anche dalla artisti- consa-pevolezza, nei più avvertiti, dei tanti rischi ed equivoci di un tale progetto di democra-tizzazione.

( C . B . )

Luigi Prestinenza Puglisi, SILENZIOSE

AVAN-GUARDIE. U N A STORIA DELL'ARCHITETTURA DAL

1976 AL 2001 pp. 230, Lit 28.000,

Testo&Immagi-ne, Torino 2001

Quella che l'autore propone è una storia del-l'architettura degli ultimi venticinque anni. L'in-tento che la guida è mostrare come nel lavoro teorico e progettuale di alcuni architetti con-temporanei si dia la possibilità di svolgere im-portanti riflessioni sullo stato di senso della contemporaneità, anche e soprattutto in rela-zione agli importanti eventi culturali, politici, so-ciali ed economici che, numerosi e travolgenti, si sono succeduti nel breve periodo preso in considerazione. (A tal proposito il testo non si li-mita a indicare in nota i riferimenti del contesto ma ne offre contemporaneamente una ricca e utile selezione antologica). Attraverso le opere di alcuni importanti protagonisti della scena mondiale architettonica contemporanea - Koolhaas, Tschumy, Ito; i più vecchi: Gehry, Eisenmann e la più giovane Hadid - , si pun-tualizzano i fondamentali passaggi (non sem-pre coincidenti con le correnti architettoniche che hanno spirato nell'architettura degli ultimi venticinque anni) di una storia che si delinea dal carattere fortemente evolutivo. A partire dall'attenzione rivolta allo spazio aperto, "spa-zio tra le cose", ad opera di artisti e architetti europei negli anni cinquanta e sessanta si arri-va a tracciare i presupposti della ricerca futura, che dovrà porre nuova attenzione all'interazio-ne tra uomo e oggetti. "Ciò porterà a una sor-prendente, per molti versi ancora imprevedibi-le, geografia degli spazi, a un diverso modo di porre il nostro corpo in relazione con le cose".

SABINA LENOCI

Manfred Bock, Sigrid Johannisse, Vladimir

Stis-si, M I C H E L DE KLERK. 1 8 8 4 - 1 9 2 3 , pp. 306,

Lit 170.000, Electa, Milano 2001

La storia di Michel de Klerk è da sempre sta-ta riporsta-tasta-ta a quella dei suoi disegni, come quella della Scuola di Amsterdam lo è alle al-ternanti fortune storiografiche di cui è stata fat-ta oggetto. Non fa eccezione il volume edito da Electa, edizione italiana dello studio dì Bock, Johannisse, Stissi sullo straordinario archivio dell'architetto olandese. Il disegno segna l'atto iniziale: de Klerk che, si narra, viene notato da Cuypers per un disegno fatto a scuola nella noia di una punizione. Al disegno si deve il suo apprendistato nello studio di questi, culla della Scuola di Amsterdam. La qualità del disegno è sempre ciò che del suo lavoro viene innanzitut-to apprezzainnanzitut-to: nei progetti di concorso, nei ri-tratti, come nelle straordinarie prospettive che il volume dà modo di studiare e la cui storia è tanto travagliata quanto misteriosa, acquisiti dall'associazione Architectura et Amicitia (A et A) dopo la morte dell'architetto olandese, scompaiono e ricompaiono fino alla prima mo-stra del 1973, promossa dalle istituzioni che daranno poi luogo al Nederlands Architectuu-rinstituut, attuale proprietario dell'archìvio. Una storia che da sola è tassello di un'autentica mi-tografia. Il volume è costruito su questi straor-dinari materiali, distinti in tre sezioni (più una dedicata a progetti di mobili), definite cronolo-gicamente e introdotte da annotazioni biografi-che. Tre saggi dei curatori fungono da introdu-zione occupandosi di quella nuova generazio-ne di architetti che in Olanda generazio-nei primi anni del

Francesco Careri, CONSTANT. NEW BABYLON, UNA CITTÀ NOMADE, pp. 95, Lit 24.000,

Testo&Im-magine, Torino 2001

New Babylon, la città senza confini che av-volge la terra, è l'utopia di un nuovo habitat li-berato dalla sedentarietà e dal lavoro: prefigu-razione romantica a metà strada tra il fascino tecnologico delle megastrutture degli anni ses-santa e l'enfasi al disorientamento come stile di vita contemporaneo. Al suo progettista, l'archi-tetto olandese Constant Nieuwenhuys (prota-gonista con Guy Debord e Giuseppe Gallizio della prima fase dell'Internazionale Situazioni-sta) è dedicato questo studio, tratto da una te-si di dottorato, ultimo tassello di una continua rilettura del movimento situazionista, fondato a Imperia nel 1957, "vivace branco di burloni po-litici", stando alla caustica definizione di Banham. Il successo che l'IS continua a man-tenere a quasi trent'anni dal suo scioglimento è il vero tema affrontato nel volume. Un suc-cesso decisamente crescente (si veda anche il bel saggio di Libero Andreotti sul n. 108 di "Lotus", 2001). Come sottrarsi oggi al fascino della dérive, pratica di vagabondaggio urbano nelle "zone inconsce" della città? O alle tecni-che del détournement sactecni-cheggio creativo delle preesistenze? O ancora alla critica radi-cale dell'urbanistica funzionalista che ha anti-cipato di molti anni le rituali prese di distanza? Grande capacità di prefigurazione di temi di-venuti oggi attuali, incrocio con alcune corren-ti del postmoderno rilette da angolazioni urba-ne, debito riconosciuto da parte di alcuni dei protagonisti oggi sulla scena (da Koolhaas, a Tschumi, Eisenman e Coaetes, per intenderci), studi sempre più numerosi in differenti campi disciplinari. Tutto bene dunque? Certo, se non una riscoperta qualche volta di maniera di un movimento rivoluzionario, le cui affascinanti utopie radicali sono rette da un'etica non al-trettanto facilmente riattualizzabile.

I D E I LIBRI D E L M E S E !

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P . D . James, MORTE IN SEMINARIO, ed. orig.

2001, trad. dall'inglese di Annamaria Raffo, pp. 449, Lit 35.000, Mondadori, Milano 2001

Anche dopo aver scritto le sue memorie

(Il tempo dell'onestà, 1999) P.D. James

non smette di dedicarsi al suo genere d'e-lezione, e a ottant'anni suonati ci amman-nisce una storia lunga e avvincente. Per qualche verso questo seminario somiglia al ricovero per malati cronici nel quale era ambientato La torre nera (1975), uno dei primi romanzi dell'autrice e fra i suoi me-no come-nosciuti. Quadro e personaggi di questo recentissimo, però, sono adeguati al presente, e nonostante ci si trovi in un luogo consacrato al sacerdozio maschile, James riesce come al solito a tratteggiare alcuni bei personaggi femminili, di giova-ni donne in carriera e di attempate signo-re legate al passato e ai propri ricordi. Nell'isolamento del seminario si snoda una classica scia di omicidi misteriosi, o di morti in apparenza naturali ma non per questo meno conturbanti. L'atmosfera non è alleggerita dalla crisi che attraversa l'istituzione ecclesiastica, sulla quale pe-sa per più versi l'eredità vittoriana della ricca e pia fondatrice. In questo clima un po' cupo, dal quale pochi riescono a sfug-gire verso un finale rasserenante, l'ispet-tore Dalgliesh riesce comunque a venire a capo dell'intrigo, riscoprendo con l'occa-sione fra i propri ricordi alcune lontane esperienze di adolescente, per lui felice-mente legate al tetro seminario.

GIULIA VISINTIN

Ian Rankin. CERCHI E CROCI, ed. orig. 1987,

trad. dall'inglese di Anna Rusconi, pp. 254, hit 30.000, Longanesi, Milano 2001

A breve distanza dall'uscita di Anime

morte ( 1999), l'editore ha voluto offrire

an-che ai lettori italiani il primo romanzo con il poliziotto scozzese John Rebus, rivol-gendosi a chi aveva apprezzato la sua te-nace scontentezza e a chi ancora non lo conosceva. In effetti, questa prima storia mette a fuoco molto di più la costruzione del personaggio del protagonista - tipicamente, un narratore in prima persona -che l'indagine intorno ai rapimenti e alle uccisioni in serie di alcune ragazzine di Edimburgo. Anche perché troppe circo-stanze congiurano nel coinvolgere il ser-gente Rebus al di là dei meri incarichi pro-fessionali: prima fra tutte una sequenza di sibilline lettere anonime a lui indirizzate, tutte accompagnate da un piccolo cer-chio di spago o da un paio di bastoncini messi in croce. Fumando una sigaretta dopo l'altra, e martirizzandosi contandole, per raggiungere la faticata conclusione Rebus deve - volente o nolente - ripren-dere le fila di molta parte della propria vi-ta. Attraversando la rievocazione di dolo-rose esperienze che pensava di essersi lasciato alle spalle, però, oltre che scopri-re quanta parte di scopri-responsabilità gli spet-ti nella catena di sevizie e assassini, il pro-tagonista traccia di sé un ritratto più com-piuto e accattivante. Candidandosi così in maniera persuasiva ai futuri proseguimen-ti della serie delle sue avventure.

( G . V . )

Kenneth Fearing, IL GRANDE OROLOGIO, ed.

orig. 1946, trad. dall'inglese di Alfredo Colitto, postfaz. di Luca Conti, pp. 195, Lit 16.000,

Ei-naudi, Torino 2001

Dovuto a un romanziere che fu anche, negli anni trenta, un apprezzato poeta, anticipatore, come spiega nella sua post-fazione Luca Conti, della pop art e del po-stmoderno, Il grande orologio è costruito su una situazione squisitamente hitch-cokiana: quella di un giornalista che, in-nocente testimone di un assassinio, ne di-venta per un concorso di circostanze il

principale indiziato ed è costretto a mette-re in piedi una ricerca a vasto raggio che rischia di incastrarlo definitivamente. Il meccanismo in cui il protagonista si di-batte è d'altronde metafora di un più vasto congegno, quello della futura "società dello spettacolo", che Fearing mette a fuoco con singolare lucidità: "Tutta l'orga-nizzazione traboccava di frustrati: ex arti-sti, scienziati, scrittori, esploratori, poeti, avvocati, medici, musicisti, che trascorre-vano la vita adattandosi. Ma adattandosi a cosa? A un apparato enorme, senza scopo, che li mandava dagli psicoanalisti, li faceva finire in manicomio, gli faceva ve-nire l'ulcera e la pressione alta". Una pati-na di humour brillante, da commedia sofi-sticata, attenua la durezza di questa dia-gnosi senza illusioni.

MARIOLINA BERTINI

Sandrone Dazieri, LA CURA DEL GORILLA,

pp. 300, Lit 16.000, Einaudi, Torino 2001

Comparso per la prima volta in Attenti al

gorilla (Mondadori, 1999), l'investigatore

creato da Sandrone Dazieri ha molto in comune con il suo autore: il nome e il co-gnome, innanzitutto, cosa non da poco; poi il fisico massiccio e gli occhiali spessi da miope; e finalmente un passato irre-quieto tra lavori precari, autonomia e cen-tri sociali che gli permette di muoversi plausibilmente in quegli ambienti che una volta si definivano "alternativi", tra squat-ter, organizzatori di rave e vezzosissime punkine. È proprio in questo contesto che Sandrone detto "il gorilla" si trova a inda-gare in questo secondo romanzo, cercan-do di far luce su due casi egualmente spi-nosi: l'omicidio di un albanese a Cremona e una serie di attentati a Torino che pren-dono di mira un viscido editore di serie B, arricchitosi con pubblicazioni semiporno e pronto a rifilare al suo pubblico gli infimi fondi di magazzino della più squallida fan-tascienza messicana. Secondo un preve-dibile copione chandleriano o hammettia-no, le indagini di Sandrone sono scandite da un regolare alternarsi di scazzottate e di fulgidi apparizioni femminili; più anoma-lo è l'alternarsi, nel cervelanoma-lo delanoma-lo stesso Sandrone, di due personalità opposte, l'u-ria casinista e sfigata, l'altra lucida e ra-zionale. La componente surreale non è però, come in Pennac, quella dominante: prevale il terreno solido, tangibile, di una realtà raccontata dall'interno, senza filtri né censure.

( M . B . )

Jody Shields, LA MANGIATRICE DI FICHI, ed.

orig. 2000, trad. dall'inglese di Fulvia Milton, pp. 366, Lit 30.900, Sperling&Kupfer, Milano 2001

Nel suo primo romanzo Jody Shields, esperta di arte e moda, mette in scena un omicidio accaduto a Vienna attorno al 1910 e la conseguente caccia all'assassi-no. Sì scopre un cadavere: è Dora, una ragazza che prima di morire sembra aver mangiato dei fichi, e che nella realtà stori-ca costituì un stori-caso di isteria studiato da Freud. Snodandosi, da qui in poi, fra ri-cerche di ispettori all'avanguardia e di esperte in rituali gitani, il libro intende rac-contare, attraverso la storia di un'indagi-ne, il momento di trapasso fra due ère. Tuttavia, se da un lato la marcata propen-sione analitica che contraddistingue l'au-trice giova alle caratterizzazioni e alla rap-presentazione delle emozioni, dall'altro essa nuoce al ritmo narrativo; inoltre, il li-bro sembra riflettere non tanto il tormenta-to clima viennese dell'immediatormenta-to ante-guerra, quanto, piuttosto, quello della feb-bre positivistica che pervase Vienna attor-no al 1870-80, così ben colto già all'epo-ca da alcuni sall'epo-capigliati, e in particolare da Camillo Boito. Fu infatti proprio nella

città di Freud che Boito nel 1870 ambientò la novella Un corpo, mettendo in bocca allo scienziato Carlo Gulz glaciali riflessio-ni sul rapporto morte/fisicità/bellezza e ci-mentandosi in descrizioni anatomiche di grande suggestione, con un realismo spinto che non aveva nulla da invidiare a quello di Jody Shields. Dunque anche nei contenuti, così come nello stile della scrit-trice, la pur innegabile capacità immagini-fica e descrittivistica finisce per essere il puntello d'un positivismo fuori tempo massimo, e l'opera resta, fatta eccezione per alcuni spunti - come il dialogo fra l'i-spettore e Philipp, padre della vittima - , paragonabile a una miccia inesplosa. Fra i personaggi, merita però un cenno quello di Dora, il cui infelice destino è di vivere davvero solo post mortem, nei ricordi di quanti la rimpiangono.

DANIELE ROCCA

F a b i o P i t t o r r u , LA PISTA DELLE VOLPI,

pp. 268, Lit 30.000, Tropea, Milano 2001

L'intreccio, ambientato nella Roma rina-scimentale, un po' prevedibilmente cor-rotta e lussuriosa, si snoda intorno all'as-sassinio di Giovanni Borgia, duca di Can-dia, figlio del papa Alessandro VI. Voce narrante è quella di un curiale, Biagio Bo-naccorsi, incaricato dal cardinale Cesare Borgia, il fratello della vittima, di scoprire la verità sul misterioso omicidio. Le inda-gini conducono il protagonista, insieme a un corpulento servitore messogli a dispo-sizione dall'alto prelato, in un intrigo co-stellato da incontri con "meretrici di corte" (dai cui pressanti inviti a soste prolungate i due investigatori si devono spesso sot-trarre, per dedicarsi al loro delicato incari-co) e da riflessioni sulla possibile inciden-za di rivalità politiche: attraverso, dunque, "una pista confusa come quelle che sono solite lasciare dietro di sé le volpi in fuga", verranno ricostruite le ultime ore di vita di Giovanni Borgia e le ragioni dell'imbosca-ta di cui è rimasto vittima. La scrittura e la narrazione, nel complesso vivaci e di age-vole lettura, intendono rievocare l'atmo-sfera di fine Quattrocento, non senza ap-pesantirsi, tuttavia, con ripetute e insistite digressioni erotiche. Sullo sfondo, inoltre, l'autore intende tracciare alcuni riferimen-ti storici alle aspre lotte di potere tra i Bor-gia e altre grandi famiglie dell'epoca. La soluzione dell'enigma è seguita, infine, dal tentativo di riagganciarsi alle succes-sive imprese di Cesare Borgia, quelle im-prese di cui si occupò Niccolò Machiavel-li, che della vicenda avrebbe "narrato so-lo il quinto e ultimo atto, lasciando la gen-te bramosa di conoscere che cosa era accaduto nei primi quattro della fosca tra-gedia".

GIOVANNI BORGOGNONE

Luciano Marrocu, FÀULAS, pp. 207, Lit

15.000, Il Maestrale, Nuoro 2001

Tra le scelte intelligenti di una casa edi-trice dalla fisionomia precisa - che, per esempio, ha deciso di riproporre le ultime due opere di Sergio Atzeni, sottraendolo così al ritmo usa-e-getta dell'editoria di consumo - , questo giallo ambientato nel 1939 merita un posto di spicco, per la cu-ra estrema degli sfondi e degli ambienti ri-costruiti senza sbavature e per la plausibi-lità dei personaggi, maggiori e minori, fis-sati con icastico humour. Il dato iniziale è l'omicidio di un potente costruttore sardo, Gonario Muso, assassinato nella sua villa: intorno al suo cadavere gli inquirenti fiuta-no inimicizie antiche e recenti, sospetti di antifascismo, gelosie di gerarchi e final-mente intrighi legati al paese natale, Fàu-las, dove un'opera di bonifica promossa dal regime si è trasformata in occasione di corruzione sfrenata e di conflitti d'interessi. È soprattutto l'ispettore di polizia Luciano

Serra, sardo come la vittima, a dover sbro-gliare la matassa, affrontando al tempo stesso il fascino pericoloso della figlia del defunto e la densa nube di leggende e maldicenze che a Fàulas circonda il pas-sato di Muso e dei suoi amici. Due registri, molto ben orchestrati, coesistono nella narrazione e contribuiscono alla sua origi-nalità: quello dell'attendibilità storica rigo-rosa, dell'inappuntabile verosimiglianza della messa in scena (cui non sarà estra-nea la formazione dell'autore, storico di professione) e quello della strizzata

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