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Consequently, after a brief introduction that aims to illustrate the reasons underlying the introduction of this new legal case, the salient features of some recent rulings of legitimacy are retraced, focusing in particular on

Nel documento Danno e responsabilità (pagine 104-109)

what is meant by “dangerous activity”, on the methods of assessment that the judge must follow in order to reach the declaration of “dangerousness”, addressing, in conclusion, the issue of chance and the interruption of the causal link.

Premessa Nel Titolo IX del Libro IV del codice civile sono presenti, come noto, molte norme che ricalcano quelle già presenti nel codice civile del 1865 (e nel Progetto di codice italo-francese delle obbligazioni e dei contratti); di contro, l’art. 2050 c.c. si caratterizza per la sua assoluta novità (e ciò in quanto la fattispecie ivi contemplata non era stata oggetto di attenzione nemmeno nel già citato Progetto, potendosi in ciò ravvisare un incontestabile elemento innovativo idoneo a differenziarlo, ad esempio, dal risarcimento del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. -costituendo quest’ultimo un significativo cambiamento certamente rispetto al codice civile abrogato, ma non rispetto al Progetto).

Difatti, è la stessa Relazione al Re (par. 795) a riconoscere che il trattamento delle attività pericolose, disciplinato in tale articolo, costituisce una“vera innovazione”, estensione del principio contenuto nell’art. 120 del T.U. delle disposizioni per la tutela delle strade e per la circolazione - R.D. 8 dicembre 1933, n. 1740 (il carattere innovativo non consentì l’applicazione della disciplina ai fatti verificatisi prima della sua entrata in vigore: cfr. Cass. Civ. 1° agosto 1947, n. 1347).

Se siffatta opera innovativa costituisca o meno un elemento positivo è oggetto di dibattito in sede dottrinale (ad esempio, C. Castronovo, Problema e sistema del danno da prodotti, Milano, 1979, definisce l’articolo in questione una delle norme più deludenti dell’intero codice civile); al contrario, nessun dubbio dovrebbe residuare circa il fatto che l’introduzione di questa nuova fattispecie sia avvenuta solo nel testo definitivo del libro delle obbligazioni e senza particolari discussioni o approfondimenti (cfr. per tutti M. Comporti, Esposizione al pericolo e responsabilità civile, Napoli, 1965).

Il modus procedendi fatto proprio dal legislatore potrebbe dunque costituire per il giurista un utile elemento di cui servirsi in sede interpretativa: la mancanza, nel caso specifico, di una seria discussione sulla disposizione e, più in generale, di un sistematico approfondimento della tematica dei criteri di imputazione della responsabilità civile potrebbe spiegare l’affermazione - cerchiobottista quanto poche altre - contenuta nella già menzionata Relazione, secondo la quale“non si è creduto di adottare alcuna delle soluzioni estreme; né quella che annetterebbe a tali attività una responsabilità oggettiva, né quella che vi ricollegherebbe l’ordinaria respon-sabilità per colpa. Si è adottata invece una soluzione intermedia per la quale, sempre mantenendo la colpa a base della responsabilità, non solo si è posta a carico del danneggiante a prova liberatoria, ma si è ampliato il contenuto del dovere di diligenza che è posto a suo carico”.

fattispecie basata sulla colpa, ancorché levissima e con una notevole estensione (non qualificabile come mero“ampliamento”) della diligenza richiesta (di fatto la nota diligentia diligentissimi). Tuttavia, qualora il contenuto del requisito soggettivo come descritto nella Relazione venga letto unitamente alla declaratoria di prevedibilità del danno (ritenuta in re ipsa in caso di attività pericolose), ci si accorge facilmente di come, in caso di effettiva verificazione di un danno, il criterio di imputazione tenda assai più verso la responsabilità oggettiva che a quella basata sulla colpa: infatti, basti qui ricordare che, sempre secondo la Relazione,“il dovere di evitare il danno [...] diviene più rigoroso quando si opera con la netta previsione della sua possibilità”.

In definitiva, sarebbe stato molto più agevole riconoscere l’esistenza di una pluralità di criteri di imputazione (ma, come noto, per il raggiungimento di questo punto di vista si sarebbe dovuto attendere ancora molto: S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964), senza limitarsi alla rigida dicotomia tra responsabilità oggettiva e responsabilità per colpa, i cui strascichi sono ancora visibili in alcune pronunce (ritengono che si tratti di responsabilità oggettiva Cass. Civ. 5 luglio 2017, n. 16637; Cass. Civ. 7 novembre 2019, n. 28626;

l’indirizzo maggioritario è però orientato nel senso di una colpa presunta: Cass. Civ. 22 settembre 2014, n. 19872; Cass. Civ. 20 maggio 2016, n. 10422; Cass. Civ. 25 gennaio 2017, n. 1931; Cass. Civ. 21 febbraio 2020, n. 4590).

All’esito della lettura di questo paragrafo della Relazione (perclaro esempio non tanto di agevolazione interpretativa, quanto di complicazione), si può comprendere come, per l ’eser-cente l’attività pericolosa, sia più facile invocare (e dimostrare) la non pericolosità dell’attività o, qualora ne ricorrano gli estremi, il verificarsi del caso fortuito: infatti, una volta che l’attività sia stata qualificata come pericolosa o non ricorra il caso fortuito, il semplice fatto del verificarsi del danno (causalmente riconducibile all’attività) dimostrerebbe ipso facto l’insufficienza (rectius l’inidoneità) delle misure adottate e, pertanto, non si potrebbe andare esenti dal giudizio di responsabilità.

Quest’ultimo rilievo permette di mettere in luce la linea che si è deciso di seguire nel condurre l’analisi giurisprudenziale che subito segue.

Pericolosità dell’attività vs condotta dell’uomo

Nel tentativo di circoscrivere la portata della dizione (quantomeno equivoca)“attività perico-lose”, il legislatore decise di inserire un inciso volto a specificare maggiormente il potenziale ambito applicativo della disposizione: da qui la limitazione alle attività pericolose per loro natura o per la natura dei mezzi adoperati.

La giurisprudenza, riprendendo la ratio sottostante all’affermazione precedentemente ripor-tata secondo cui il dovere di diligenza richiesto è maggiore in ragione della prevedibilità del danno derivante dalla pericolosità dell’attività o deimezzi, ha limitato lepiù stringenti e gravose conseguenze giuridiche di cui all’art. 2050 c.c. alle sole attività (e mezzi) intrinsecamente pericolosi: è questa, infatti, la caratteristica che rende non solo possibile, ma addirittura probabile il verificarsi di un evento dannoso e, pertanto, solo ai danni derivanti dall’esercizio di queste attività o dall’utilizzo di questi mezzi deve essere riservato il trattamento in questione (cfr. Cass. Civ. 21 dicembre 1992, n. 13530, richiamata da Cass. Civ. 2 dicembre 1997, n.

12193).

Di conseguenza, qualora l’attività (o i mezzi impiegati) non possa essere qualificata come pericolosa (attività c.d.“normalmente innocue”: Cass. Civ. 15 ottobre 2004, n. 20334), ma abbia cagionato un danno in ragione della concreta condotta di colui che la esercita, la regola giuridica da far valere in giudizio non sarà l’art. 2050 c.c., ma l’art. 2043, con un consequenziale ritorno all’ordinario regime probatorio a carico del soggetto danneggiato (cfr., oltre alle sentenze già richiamate, le più recenti Cass. Civ. 19 luglio 2018, n. 19180; Cass. Civ. 15 febbraio 2019, n. 4545; Cass. Civ. 27 marzo 2019, n. 8449).

La differenziazione pare condivisibile, in quanto tutte le attività umane finiscono per contenere in sé un grado più o meno elevato di pericolosità e, in mancanza di una precisa distinzione, si finirebbe con l’assimilare situazioni tra loro differenti (Cass. Civ. 27 marzo 2019, n. 8449), ritendendole tutte egualmente pericolose e svuotando così di contenuto la disposizione destinata a disciplinarne solo una parte più ristretta.

Il maneggio e l’attività ippica

Dopo aver visto una prima limitazione del campo di applicazione dell’art. 2050 c.c. rispetto all’operatività della regola generale di cui all’art. 2043 c.c., resta da vedere in che rapporti si ponga la disposizione oggetto di attenzione rispetto ad un’altra norma in cui è prevista un’ulteriore fattispecie di responsabilità non riconducibile all’ordinario regime basato sull’e-lemento soggettivo della colpa: l’art. 2052 c.c.

In via preliminare, va rilevato come per la Cassazione (Cass. Civ. 11 febbraio 1994, n. 1380 e precedenti ivi cit.) tra l’art. 2050 c.c. e l’art. 2052 c.c. non sussista un rapporto di norma

diversi e non omogenei.

Riprendendo una considerazione precedentemente svolta, se ogni attività umana è ritenuta essere (almeno potenzialmente) pericolosa, a maggior ragione potrebbe esserlo quella in cui è previsto l’utilizzo di un oggetto di diritto quale l’equide: questo, non essendo inanimato, potrebbe infatti provocare dei danni al cavallerizzo, ponendo così il problema della corretta sussunzione della fattispecie concreta (leggasi: la posizione giuridica del gestore del maneg-gio) nella fattispecie astratta di cui all’art. 2050 o 2052 c.c.

Orbene, la linea costantemente seguita, nel caso in cui il soggetto non abbia particolari competenze nell’attività di equitazione, è quella di ritenere invocabile la responsabilità per esercizio di attività pericolose: infatti, proprio in ragione delle scarse abilità nel governo dell’animale, il cavallerizzo principiante ha difficoltà indubbiamente maggiori nella gestione del cavallo e rimane esposto ad eventuali comportamenti inaspettati che non è in condizioni di controllare (Cass. Civ. 8 marzo 2019, n. 6737); di contro, il soggetto che vanta un’esperienza maggiore in ambito equestre non è esposto al“pericolo” dell’attività in questione e, pertanto, in caso di danno, deve più correttamente invocare la responsabilità del gestore del maneggio (oltre alle sentenze già citate si vedano Cass. Civ. 16 giugno 2016, n. 12392; Cass. Civ. 27 novembre 2015, n. 24211).

La valutazione della pericolosità

Giunti a questo punto, è possibile riprendere la Relazione in un passaggio in cui, a differenza dei precedenti, non rende più complicata l’attività interpretativa, ma contribuisce ad una sua agevolazione.

Il legislatore, probabilmente conscio dell’equivocità dell’espressione “attività pericolosa”, ha speso qualche parola nel tentativo di fornire alcune indicazioni al giurista: viene condivisibil-mente esplicitato come le attività che dovranno essere considerate“pericolose” sono quelle ritenute tali da “particolari norme, tecniche o legislative, inerenti alle singole attività, o le regole della comune esperienza”. Il principio ricavabile è quello per cui il novero delle attività e dei mezzi non deve essere limitato a quanto tassativamente contenuto in specifici atti normativi: la disciplina, così come delineata dal legislatore, è dunque improntata al principio di atipicità (Cass. Civ. 19 luglio 2018, n. 19180).

Bisogna quindi porre in evidenza che la ricomprensione di un’attività o di alcuni mezzi in quelli che uno specifico atto normativo considera come pericolosi non integrerà la condizione necessaria per richiedere l’applicazione dell’art. 2050 c.c., ma costituirà un importante vantaggio probatorio per la parte che invochi il più rigoroso regime di responsabilità: infatti, potendo fare sicuro affidamento su di una pregressa qualificazione, non sussisteranno margini di incertezza su questo specifico punto (cosa che, di contro, si verificherà ogni qual volta l’attività sia ritenuta essere pericolosa dal danneggiato ma non dal danneggiante, con conseguente onere probatorio circa la pericolosità posto in capo al primo e non al secondo: cfr.

Cass. Civ. 28 febbraio 2000, n. 2220, secondo la quale la sussistenza di un’attività pericolosa forma oggetti di una quaestio iuris nel caso in cui si sostenga che la qualificazione derivi da una precedente valutazione normativa, mentre, nel caso in cui venga invocata una pericolosità in concreto, quest’ultima costituirà una quaestio facti).

Alla luce di quanto appena esposto, è possibile comprendere la ratio che ha ispirato quel risalente (e, come si suol dire, granitico) orientamento giurisprudenziale secondo il quale la pericolosità dell’attività o dei mezzi non deve essere valutata dal giudice sulla mera base di indici normativi qualificatori, ma tenendo conto della rilevante possibilità di verificazione del danno derivante dalla loro“spiccata potenzialità offensiva” (il termine ricorre in Cass. Civ. 8 marzo 2019, n. 6737, ma il principio è lo stesso anche in Cass. Civ. 15 febbraio 2019, n. 4545;

Cass. Civ. 19 luglio 2018, n. 19180; meno recentemente, si veda Cass. Civ. 29 maggio 1989, n. 2584).

La pericolosità, da accertarsi in concreto e non in astratto, deve essere valutata dal giudice di merito non già sulla base dell’evento dannoso effettivamente verificatosi, ma secondo un giudizio di prognosi postuma (Cass. Civ. 15 ottobre 2004, n. 20334; Cass. Civ. 19 luglio 2018, n. 19180), il quale, ove correttamente e logicamente motivato, sarà insindacabile in sede di legittimità (Cass. Civ. 15 febbraio 2019, n. 4545).

La Suprema Corte ha inoltre precisato che, nel caso in cui i materiali pericolosi siano destinati a circolare tra più soggetti posti all’interno di un ciclo di lavorazione o trasformazione degli stessi, le varie fasi del ciclo devono considerarsi - di norma - l’una indipendente dall’altra e individualmente caratterizzate da differenti oneri di precauzione (parametrati al diverso stato di avanzamento della lavorazione e incombenti sul soggetto responsabile della specifica fase):

qualora non fosse così, si finirebbe con l’estendere “incongruamente la nozione di attività pericolosa e la relativa severa responsabilità [...] con insostenibile equiparazione alla respon-sabilità da prodotto difettoso o da vizi della cosa venduta” (Cass. Civ. 7 novembre 2019, n.

28626).

’attività farmaceutica, in ragione delle sue caratteristiche, potrebbe rientrare nel novero delle attività pericolose, ma ciò non vuol necessariamente dire che la casa farmaceutica debba rispondere in ogni caso dei danni cagionati dal medicinale messo in commercio.

Con specifico riferimento al tema trattato nel paragrafo precedente, la Cassazione ha avuto modo di sottoporre al proprio vaglio critico la valutazione di pericolosità in concreto, effettuata dalla Corte d’Appello di Brescia, di un prodotto cosmetico contenente, tra le altre cose, una componente cortisonica (una sostanza, quindi, avente funzione terapeutica tale da alternarne la natura, così come riconosciuto dal C.T.U.) che aveva cagionato il peggioramento della psoriasi del soggetto utilizzatore. La Corte ha censurato il percorso logico-argomentativo del giudice di seconde cure, in quanto basato sulla “rigida e astratta distinzione tra prodotti farmaceutici e prodotti cosmetici” e sulla consequenziale (apodittica) qualificazione in termini di“non pericolosità” dell’attività svolta dalla società produttrice della crema, avendo quindi omesso ogni e qualsivoglia considerazione inerente alle specificità del caso concreto (sempre Cass. Civ. 19 luglio 2018, n. 19180).

Un altro interessante aspetto riguarda gli effetti collaterali insorti a seguito dell’assunzione di un farmaco (Cass. Civ. 7 marzo 2019, n. 6587). Nel caso in questione, si è assistito allo sviluppo di una particolare sindrome epidermica (sindrome di Lyell) quale rarissimo (1 caso su 1 milione) effetto indesiderato derivante dall’utilizzo del medicinale. La casa farmaceutica non contesta né la comparsa della sindrome, né tantomeno il nesso causale tra il suddetto evento e la somministrazione del farmaco; viene però evidenziato come le attività di produzione e distribuzione di quest’ultimo siano state autorizzate a monte da specifiche commissioni tecniche che hanno valutato il rapporto tra i benefici e i costi derivanti, appunto, dalla somministrazione del medicinale (con netta prevalenza dei primi sui secondi).

Inoltre, viene rilevato che l’unica misura adottabile in relazione a quella remota percentuale di possibile sviluppo della sindrome è la predisposizione di una adeguata informativa per i pazienti-potenziali danneggiati. La Cassazione ritiene che, in questo caso, non si possa procedere all’applicazione dell’art. 2050 c.c. alla casa farmaceutica, in quanto, in caso contrario, si finirebbe con l’attribuire alla disposizione in questione una “portata precettiva non conforme alla lettera e allo spirito della norma, non essendo in alcun modo postulabile che l’azienda farmaceutica debba, a fronte di un effetto indesiderato di cui non si conosca la matrice, optare tra l’assunzione dei rischi connessi agli effetti di una responsabilità di tipo sostanzialmente oggettivo, e la rinuncia alla produzione e alla commercializzazione del prodotto” (Cass. Civ. 7 marzo 2019, n. 6587).

Nel caso in questione, dunque, hanno assunto preponderante rilevanza la rigorosa osservanza di tutte le sperimentazioni e dei protocolli previsti dalla legge prima della produzione e della messa in commercio, l’adeguatezza della segnalazione dell’effetto indesiderato e, da ultimo, lo svolgimento (sempre da parte della casa farmaceutica) di una costante opera di monito-raggio e di adeguamento delle informazioni commerciali e terapeutiche.

Una piccola postilla sull’attività di sperimentazione. La casa farmaceutica che ha promosso la fornitura di un farmaco e la sua sperimentazione clinica in una struttura sanitaria risponderà ex art. 2050 c.c. (o, eventualmente, in caso di non pericolosità dell’attività da valutarsi inconcreto, ex art. 2043 c.c.) solo nel caso in cui i suoi medici“sperimentatori” abbiano agito come ausiliari dei medici della struttura in cui viene effettuata la sperimentazione; specularmente, nel caso in cui i medici della casa farmaceutica abbiano svolto un’attività preponderante e i medici della struttura abbiano assunto solamente il ruolo di ausiliari, la casa farmaceutica risponderà del loro operato ex art. 1228 c.c. In ogni caso, per inquadrare correttamente la fattispecie, dovrà essere attentamente analizzata la concreta conformazione dell’accordo di sperimentazione (Cass. Civ. 20 aprile 2021, n. 10348).

Nesso causale Come recentemente ricordato (Cass. Civ. 7 novembre 2019, n. 28626, che cita la risalente Cass. Civ. 9 giugno 1973, n. 1666; si veda anche Cass. Civ. 26 ottobre 2017, n. 25421), la richiesta della dimostrazione del nesso causale tra l’esercizio dell’attività pericolosa e il danno lamentato incombe sul soggetto attore-danneggiato (prova positiva della sussistenza dello specifico fattore eziologico idoneo a determinare il danno).

In linea generale, può affermarsi che, una volta accertata la derivazione causale del danno dalla mancata adozione delle misure idonee ad evitare il danno (che, secondo la Relazione, devono essere adottate “anche a prezzo di sacrifici”, e quindi a prescindere da una valutazione economicamente favorevole), non è necessario procedere ad ulteriori dimostrazioni per ritenere“fallita ed inattendibile la prova liberatoria” ex art. 2050 c.c. (Cass. Civ. 29 maggio 1989, n. 2584).

Tuttavia, come riconosce anche la Relazione (“Soltanto per le lesioni assolutamente inevitabili è esclusa la responsabilità, la quale peraltro non vi potrebbe essere, nella particolare ipotesi, se non adottando il principio della pura causalità; questo principio non si è accolto perché ritenuto ingiusto, antisociale e antieconomico, e tale da scoraggiare attività e iniziative

nare il danno quale unica ed esclusiva causa (caso fortuito; sull’interruzione delnesso siveda la già citata Cass. Civ. 19 luglio 2018, n. 19180), il soggetto esercente l’attività andrà esente da responsabilità, addirittura nel caso in cui non abbia adottato le misure idonee ad evitare il verificarsi dell’eventus damni (Cass. Civ. 26 ottobre 2017, n. 25421).

Con particolare riferimento alla distribuzione di energia elettrica, attività classicamente considerata come pericolosa (Cass. Civ. 4 aprile 1995, n. 3935), la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di ritenere non interrotto il nesso causale nel caso in cui gli eventi metereologici che avevano cagionato lo sbalzo di corrente e il conseguente danneggiamento degli elettrodomestici e dell’impianto elettrico di alcuni utenti siano stati qualificati dai giudici del merito in maniera affatto generica, senza soffermarsi sulle specificità del caso concreto tali da consentire la sussunzione dell’evento nella fattispecie legale del caso fortuito (Cass. Civ.

12 dicembre 2019, n. 32498; per il riconoscimento del caso fortuito si veda Trib. Pistoia 21 gennaio 2021, in particolare il puntuale riferimento, ai fini della declaratoria di eccezionalità, alla rarità statistica dell’evento atmosferico in questione, ricavata dalla consultazione dei dati storici).

In altra sede (Cass. Civ. 21 febbraio 2020, n. 4590), la Cassazione ha precisato che a nulla rileva il fatto che la proprietà dei mezzi mediante i quali viene esercitata l’attività pericolosa (nel caso di specie, elettrodotto) sia riconducibile ad un soggetto diverso dall’esercente l’attività:

ad avviso della Corte, il legislatore ha deciso di piegare“il baricentro della norma [...] sullo svolgimento dell’attività pericolosa, rendendo irrilevante il titolo che chi la svolge possa avere -o anche appunt-o n-on avere - sui mezzi di cui si serve”.

Il fattore esterno, integrante caso fortuito, idoneo all’interruzione del nesso causale può consistere tanto in un evento naturale (come appena visto), quanto nel fatto dello stesso danneggiato recante i caratteri dell’imprevedibilità e dell’eccezionalità (Cass. Civ. 21 novem-bre 2017, n. 27544).

I dati personali Il c.d. Codice della privacy - D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 - prevedeva (art. 15) che chiunque avesse cagionato ad altri un danno per effetto del trattamento di dati personali fosse tenuto al risarcimento ai sensi dell’art. 2050 c.c., espressamente riconducendo tale attività nel novero di quelle pericolose ex lege.

Tuttavia, nel 2018, il governo ha parzialmente modificato il decreto legislativo in questione con un altro decreto delegato per poter recepire la più recente disciplina eurounitaria (GDPR -General Data Protection Regulation: regolamento 2016/679).

Il Codice della privacy, nella sua nuova formulazione, in virtù del suo carattere innovativo, è applicabile solo ai fatti accaduti successivamente alla sua entrata in vigore (Cass. Civ. 26 maggio 2021, n. 14618).

Ciononostante, anche a seguito della novella, lo schema precedentemente adottato “è parzialmente confermato anche nel nuovo GDPR (art. 82.3 GDPR), che, sulla base del principio di responsabilizzazione (accountabilty) addossa al titolare del trattamento dei dati - eventual-mente in solido con il responsabile - il rischio tipico di impresa (art. 2050 c.c.)” (Cass. Civ. 17 settembre 2020, n. 19328). Non sembrano sussistere, quindi, dubbi in merito alla pericolosità dell’attività in questione.

Per quanto concerne il risarcimento del danno (patrimoniale e non) patito a seguito dell’illecito trattamento dei dati personali, l’attore-danneggiato dovrà preliminarmente dimostrare la riferibilità del danno alla condotta di chi ha trattato i suoi dati (Cass. Civ. 8 gennaio 2019, n. 207) e, in un secondo momento, dovrà fornire la prova del pregiudizio in concreto sofferto, non essendo ammissibile un’automatica risarcibilità del danno per il mero fatto della lesione -e, infatti, in caso contrario, il danno verrebbe a configurarsi quale vero e proprio pregiudizio in re ipsa (insiste sulla nota distinzione tra danno evento e danno conseguenza Cass. Civ. 26 maggio 2021, n. 14618).

Inoltre, viene opportunamente e condivisibilmente rilevato come, sulla scia delle celeberrime sentenze di San Martino (Cass. Civ., SS.UU., 11 novembre 2008, nn. 26972-26975), il danno non patrimoniale derivante dall’illecito trattamento dei dati personali rimanga assoggettato alla verifica della gravità della lesione e della serietà del pregiudizio (Cass. Civ. 17 settembre 2020, n. 19328).

Il convenuto, qualora voglia andare esente da responsabilità, dovrà fornire la ormai nota prova

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Nel documento Danno e responsabilità (pagine 104-109)

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