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Considerazioni conclusive

Il presente lavoro ha come obiettivo l’analisi del ruolo degli investimenti in ricerca e sviluppo sulla produttività delle imprese manifatturiere e del settore agroalimentare italiano; in particolare per la competitività delle imprese, e dunque per la crescita di lungo periodo di ogni paese, l’importanza delle innovazioni è riconosciuta in tutte le scuole di pensiero economico. Chiaramente, l’innovazione è considerata un fattore fondamentale per lo sviluppo socio-economico anche dalle principali organizzazioni internazionali (Commissione Europea, Nazioni Unite, FAO,…).

In quest’ottica, la spesa in ricerca e sviluppo rappresenta un elemento chiave per rafforzare le capacità di sviluppo di un’impresa e, a livello aggregato, di un Paese. A questo proposito, lo studio del settore agroalimentare italiano presenta interessanti peculiarità, sia dal punto di vista generale, che per quanto riguarda gli investimenti in ricerca e sviluppo. Infatti, negli ultimi anni, l’industria agroalimentare si è infatti trovata a confrontarsi con nuove pressioni evolutive: da un lato, l’emergere di nuove tendenze comportamentali del consumatore, a loro volta causate da fattori demografici, sociali, economici; dall’altro, la radicale trasformazione del sistema produttivo, commerciale e distributivo; ed, infine, il processo di globalizzazione che interessa l’intera economia mondiale.

In Italia, il settore agroalimentare riveste una notevole importanza sia in termini di fatturato (104 miliardi di euro nel 2006), che per numero di imprese (71.000), che di occupazione (465.000 addetti). Come nel resto dell’Europa, nell’intero sistema agroalimentare si assiste ad riduzione progressiva dell’importanza relativa del valore aggiunto dell’agricoltura; tuttavia, il caso italiano è caratterizzato dal minor

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108 peso dell’industria alimentare e dalla minor apertura commerciale verso gli altri paesi europei. Altra caratteristica rilevante della realtà italiana è l’assoluta predominanza dal punto di vista numerico delle imprese della classe dimensionale che va da 1 a 9 addetti, che supera il 70% del totale, che però si ridimensiona notevolmente in termini di quota di fatturato, valore aggiunto e occupazione. Per quanto riguarda la spesa in ricerca e sviluppo, gli indicatori per l’Italia risultano essere inferiori alla media europea. Ad esempio, l’Italia si colloca al decimo posto (UE-15) per quanto riguarda la componente pubblica della spesa in ricerca e sviluppo (0,56% del PIL contro lo 0,65% dell’UE-15), ed addirittura al penultimo posto per quanto riguarda la componente privata. Anche la percentuale di PMI che introducono innovazioni di processo o di prodotto al loro interno è inferiore alla media europea.

Scendendo nel dettaglio del comparto agroalimentare, esso presenta, relativamente alla valutazione delle performances innovative, indici più bassi rispetto al complesso dell’industria manifatturiera; anche qui, i dati italiani si collocano al di sotto di quelli della media comunitaria. Risulta quindi chiaro che il recupero dell’efficienza per acquisire competitività su mercati ormai globali presuppone di investire in ricerca ed innovazione. Nel caso del settore agroalimentare, alcuni fattori (come la presenza di imprese di piccole dimensioni, l’operare in regime concorrenziale, l’importanza politico-strategica dell’approvvigionamento alimentare) contribuiscono a spiegare perché ricerca e innovazione sono in larga prevalenza finanziati da soggetti pubblici.

In Italia, il ruolo della ricerca pubblica nell’agro-alimentare sembra quasi sostituirsi all’assenza di ricerca nel settore primario, e ad un debole livello di investimento in ricerca dell’industria alimentare, tanto più in quanto essa è caratterizzata da imprese di piccole e medie dimensioni. In questo contesto, la promozione di collaborazioni e progetti fra privato ed enti pubblici, a livello sia nazionale che internazionale, è fondamentale.

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109 Sulla base del quadro di riferimento che si è appena presentato, si è quindi proceduto all’analisi empirica, a partire dalla “Indagine sulle imprese manifatturiere italiane” curata dall’Area Studi di Capitalia per il triennio 2001- 2003. Le tendenze che emergono dall’Indagine, costituita da oltre 6000 imprese per l’intero settore manifatturiero, sono in linea con il quadro generale che si è presentato: nel triennio 2001-2003 il numero delle imprese che hanno sostenuto spese in ricerca e sviluppo è aumentato, ma l’ammontare di spesa si è ridotto. Il numero delle imprese innovative aumenta man mano che cresce la dimensione aziendale e che ci si sposta dai settori tradizionali a quelli con più elevato contenuto tecnologico; ed infatti, sotto il profilo geografico, l’innovazione è più diffusa al Nord, dove tendono ad essere localizzate le imprese più grandi e a più alta intensità di investimenti tecnologici. La propensione ad innovare è risultata in forte accelerazione soprattutto nelle piccole imprese, ed è aumentata anche tra le grandi imprese, mentre tra quelle medie si è registrato solo un miglioramento marginale. È interessante notare come il numero delle imprese innovative sia sensibilmente cresciuto nei settori tradizionali, il che indicherebbe l’attuazione di una vera e propria “risposta creativa” ad una situazione competitiva caratterizzata dall’aumento della concorrenza dei Paesi emergenti.

A partire dall’Indagine di Capitalia, ci si è concentrati ad esaminare le sole imprese innovatrici, e si è proceduto alla stima della relazione esistente tra il tasso di crescita annuale della produttività del lavoro, i tassi di crescita annuale dei fattori della produzione capitale fisico, il capitale umano, e l’intensità della spesa in ricerca e sviluppo.

Le variabili sono state espresse in termini di variazione annuale; ciò implica, nel nostro caso, avere a disposizione un panel di 990 imprese con dimensione temporale pari a due (con variazioni fra 2002/2001 e 2003/2002).

L’analisi è stata ripetuta sia per il totale delle imprese innovatrici del settore manifatturiero che su quelle appartenenti al settore agroalimentare.

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110 La metodologia di analisi ha riguardato la stima di una funzione di produzione Cobb-Douglas che oltre ai tradizionali fattori di produzione capitale e lavoro, vengono inclusi anche il capitale umano e l’intensità della spesa in ricerca e sviluppo. Alcuni dei principali risultati sono riportati in seguito.

Nel caso delle imprese manifatturiere, il rendimento delle spese in ricerca e sviluppo è pari al 10,2%. Le piccole e soprattutto le medie imprese sono caratterizzate da tassi di rendimento più elevati. Nel settore alimentare, il coefficiente della variabile intensità degli investimenti in ricerca e sviluppo è superiore rispetto al totale del campione, essendo pari al 13,7%.

Per quanto riguarda la dimensione delle imprese in termini di addetti, si nota che nel settore manifatturiero, le grandi imprese risultano caratterizzate da rendimenti minori. Al contrario nel settore agroalimentare sono le grandi imprese ad avere rendimenti maggiori rispetto alle piccole e medie imprese. Sempre nell’agroalimentare la realtà produttiva del Nord est si conferma dinamica e caratterizzata da un maggiore rendimento delle spese in ricerca e sviluppo.

Ricordando quindi la ben conosciuta predominanza delle piccole e medie imprese all’interno del settore alimentare, sembrerebbe emergere con chiarezza come uno degli svantaggi del sottodimensionamento aziendale sia proprio uno scarso rendimento della spesa in ricerca e sviluppo. Al tempo stesso, però, questa relazione potrebbe essere letta anche in termini delle potenzialità di miglioramento delle piccole e medie imprese, il che può concretizzarsi solo nell’ambito di un’interazione fruttuosa con il mondo della ricerca pubblica e gli altri attori coinvolti nel processo di ricerca e innovazione.

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