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In sintesi, si può affermare che gli ultimi due decenni hanno assistito a un cam- biamento molto significativo sia nelle politiche sociali, sia in quelle educative e sia in quelle relative al mondo del lavoro (Lodigiani, 2008; Colasanto e Lodigiani, 2007; Colasanto, 2011; malizia e Pieroni, 2012b; malizia e Nanni, 2013 e 2015). In primo luogo si è passati da provvedimenti di carattere passivo, fondati sul diritto di cittadinanza o sui versamenti corrisposti, a interventi di natura attiva, cioè condizio- nati alla realizzazione da parte degli interessati dei comportamenti richiesti. Una se- conda modalità evolutiva ha riguardato la transizione da misure standardizzate, re- lative a tipologie di rischio prestabilite, a programmi individualizzati e da una foca- lizzazione su strategie economiche di carattere macro che privilegiavano la doman- da di lavoro, a politiche mirate principalmente sull’offerta, sul livello micro e sul- l’attivazione dei beneficiari. Un ultimo trend è consistito in un’azione di decentra- mento che ha permesso ai soggetti locali di divenire protagonisti e di non essere più solo semplici esecutori, un andamento che ha comportato una revisione della distri- buzione delle competenze a livello territoriale tra centro e periferia e che ha rivalu- tato il privato, in particolare sociale, rispetto al pubblico e le responsabilità indivi- duali in confronto con quelle collettive.

In questo quadro si ridisegnano i ruoli del lavoro, della istruzione/formazione e del welfare: il primo si presenta come lo strumento più rilevante di inclusione so- ciale, la seconda è chiamata a svolgere il compito di presiedere alla transizione nel mondo del lavoro e di offrire un contributo centrale al sistema di sicurezza in chia- ve attivante nella mobilità delle persone e il welfare si deve caratterizzare sempre più in senso inclusivo, universalistico, promozionale e personalista. Il pericolo insi- to in questo modello è che la scuola/FP vengano ridotte a puro sostituto funzionale del lavoro e del welfare. Certamente non si può negare che l’istruzione/formazione deve proporsi mete di natura professionalizzante e che possa facilitare nel lungo ter- mine l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e contribuire al conseguimento di una buona occupazione; al tempo stesso non si può limitare il suo ruolo a queste fi- nalità e soprattutto non si può chiedere ad essa di creare da sola nuovo lavoro o di assicurare la stabilità del posto. Sarà necessario invece che sia collocata in un siste- ma più vasto di protezioni comprensivo di un insieme integrato di strategie attive e passive.

In altre parole bisogna superare gli effetti del cambiamento di prospettiva riguardo al problema della disoccupazione che si è verificato con la strategia di Lisbona e che ha inciso fortemente sui sistemi educativi, portando in primo piano la funzione professionalizzante in relazione stretta alle richieste del mondo del la- voro (Commissione Europea, 2009). L’approccio che ha prevalso è stato di natura economicistica e ha coinvolto i programmi di istruzione/formazione. Tale andamen- to contrasta grandemente con la concezione europea dell’apprendimento per tutta la vita che lo vede come “empowerment” e gli attribuisce il ruolo di promuovere la cittadinanza attiva.

Nonostante i limiti appena accennati che si possono ricondurre nelle ragioni ul- time alla mancata adozione di un modello personalista3, non si può non essere d’ac- cordo con l’orientamento di natura preventiva, abilitante e attivante che le politiche del lavoro e dell’educazione hanno recentemente assunto con l’intendimento di va- lorizzare la promozione del capitale umano come strumento per difendersi dai peri- coli della disoccupazione, della espulsione precoce dal mercato del lavoro e dalla marginalizzazione. Il rapporto tra investimento formativo, occupabilità, produttivi- tà e attivazione è innegabile: infatti, il tasso di disoccupazione risulta più elevato tra le persone con livelli bassi di istruzione e di formazione e i fenomeni di precarizza- zione, marginalizzazione ed esclusione colpiscono in percentuali più consistenti quanti possono contare solo su titoli e qualificazioni deboli. Al tempo stesso, come si è ricordato nella sezione precedente, l’investimento formativo elevato non offre una sicurezza assoluta contro la disoccupazione, né garantisce in maniera piena la corrispondenza tra, da una parte, l’iter formativo seguito e, dall’altra, l’occupazione ottenuta, la stabilità del posto e uno stipendio elevato.

Pertanto, non è sufficiente elevare la soglia educativa della popolazione per riuscire a risolvere il nodo dell’occupazione proprio perché non esiste alcun deter- minismo nelle relazioni tra la istruzione/formazione, il lavoro e le politiche sociali. Più in particolare, va sottolineato che non è compito dell’educazione creare posti di lavoro, ma al massimo si può pensare a un suo contributo per favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro; inoltre, essa non riesce a garantire sempre e ovunque il tipo di occupazione voluti né a difendere dalla disoccupazione. I tempi della riforma educativa sono lunghi e quindi è impossibile o quasi che essa possa adattarsi in tempo reale alla domanda sociale; non bisogna neppure dimenticare che le attese formative degli allievi possono non coincidere con le esigenze del sistema produttivo. L’educazione non può nemmeno fornire una garanzia assoluta di egua- glianza perché risulta condizionata dal background economico, culturale e sociale della famiglia e dalle caratteristiche ascritte di ciascuno.

«Non si vuole con questo sminuire il valore dell’apprendimento permanente. Per quanto fatichi a intercettare tutti i bisogni potenziali di formazione, laddove ha

successo innesca una ricaduta positiva che non va trascurata, non solo sui diretti beneficiari, bensì anche nelle nuove generazioni, contribuendo a modificare la pre- disposizione dei genitori a investire nel capitale umano dei propri figli» (Lodigiani, 2008).

In conclusione per affrontare in maniera adeguata il problema della disoccupa- zione soprattutto giovanile, non basta agire solo dalla parte dell’istruzione e della formazione o da quella dell’occupazione o del welfare, ma risulta necessario ricorrere a una pluralità di misure che attengono contemporaneamente a vari campi quali il mondo del lavoro, le politiche di sicurezza sociale e il sistema educativo. Riguardo a quest’ultimo è emerso con evidenza che sia il modello interattivo perso- nalista sia il paradigma dell’investimento sociale attribuiscono alla Istruzione e Formazione Professionale un ruolo senz’altro centrale.

dopo l’analisi della situazione e la presentazione del quadro teorico di riferi- mento, passo a illustrare le risposte del governo Renzi. I provvedimenti da prendere in considerazione potrebbero essere vari, ma certamente quelli che hanno ottenuto maggiore attenzione da parte dell’opinione pubblica sono la Buona Scuola e il Jobs Act. Procederò pertanto a una disamina delle misure in questione, evidenziando so- prattutto quegli aspetti che riguardano le problematiche dell’occupazione giovanile alla luce delle prospettive teoriche dell’approccio interattivo-personalista e del pa- radigma dell’investimento sociale1.